Decreti sicurezza, la continuità del male

Si susseguono numerose in queste ore le discussioni sul nuovo Decreto sicurezza, approvato dal governo per riformare i precedenti Decreti sicurezza di Salvini. È un dibattito che ricorda molto da vicino quello di qualche settimana fa in merito al Nuovo patto sulla migrazione e l’asilo, presentato dalla Commissione europea. In entrambi i casi, buona parte delle discussioni riguarda, infatti, la natura innovativa o meno di questi atti e la loro capacità di distanziarsi dalle politiche preesistenti e di porre rimedio a una serie di criticità – se non vere e proprie violazioni del diritto internazionale –, sottolineate negli anni da associazioni, Ong, studiose e attivisti, tra gli altri.

Il varo di questi due testi è stato, in effetti, accompagnato dalla rivendicazione esplicita dell’avvio di un nuovo corso da parte dei rispettivi protagonisti, come la presidente della Commissione europea, Ursula Von der Leyen, e Nicola Zingaretti, segretario del partito che di fatto reclama la paternità politica di questo decreto. Da qui, a cascata, è nato un dibattito complesso e serrato – e, per certi versi, piuttosto trasversale agli schieramenti che tradizionalmente si formano quando si parla di migrazioni – su come guardare a questi strumenti. Sono innovativi o no? Pongono rimedio a quanto di peggio è stato fatto negli ultimi anni o nascondono la polvere sotto il tappeto? Sono un importante passo avanti o un’occasione sprecata? 

La risposta può essere trovata attraverso un’analisi fondata su due semplici passaggi, risolvendo le apparenti contraddizioni di questi strumenti in una realtà complessa e articolata, ma al tempo stesso lineare e comprensibile.

Il primo nodo da chiarire è che, se da un lato è vero che tanto il Patto sulla migrazione quanto il Decreto sicurezza apportano alcune importanti migliorie, è altrettanto innegabile che questi atti falliscono completamente l’obiettivo, qualora mai lo avessero avuto, di modificare il paradigma che ha governato le migrazioni a queste latitudini negli ultimi vent’anni (come minimo).

Il riconoscimento, finalmente, da parte di Bruxelles delle pratiche di criminalizzazione degli attori umanitari è degno di nota ed è forse il primo, vero passo compiuto dalla Commissione in questa direzione, per quanto tardivo e dalla dubbia efficacia, dato che si riflette nella mera emanazione di linee guida. D’altra parte, preoccupa non poco la grande insistenza, quasi ossessiva, sui rimpatri, la mancata previsione di una missione europea di ricerca e soccorso in mare (Sar), il rafforzamento della cooperazione con paesi terzi e delle frontiere esterne, e più in generale il mantenimento dell’approccio perseguito in questi anni. E se si rispolvera il concetto di solidarietà, lo si declina solo tra stati membri e non certo verso i migranti (qui il testo ufficiale). 

In maniera speculare, il Decreto sicurezza ha il grande merito di introdurre la «protezione speciale» – recuperando, di fatto, gli elementi cardine della protezione umanitaria – e di ripristinare un sistema di seconda accoglienza con finalità di integrazione, sulla falsariga dello Sprar. Passi avanti importanti, inoltre, riguardano l’iscrizione anagrafica e la cittadinanza. Ma tutto questo non basta a far dimenticare o a rendere più accettabile il mantenimento di un’impostazione volta a criminalizzare, al di là di qualche piccolo accorgimento, il soccorso in mare, perno fondante dei Decreti sicurezza dell’ex ministro Matteo Salvini. Fallisce, quindi, il cambio di paradigma – che d’altro canto sarebbe stato arduo aspettarsi, se si pensa che l’avvio di questo processo di criminalizzazione si deve in primo luogo all’azione di Marco Minniti, quale ministro dell’interno di un governo a guida Pd. 

Il secondo aspetto, consequenziale rispetto al primo, e che caratterizza le politiche migratorie italiane ed europee nel loro insieme, riguarda la sostanziale differenza di approccio tra politiche di migrazione (o di frontiera, o border policies) e di integrazione – come risulta particolarmente visibile nel Decreto sicurezza. Gestione delle frontiere e dei cosiddetti «flussi», politiche di esternalizzazione e cooperazione con paesi terzi (Libia in primis), ricerca e soccorso in mare sono tutti temi sui quali la continuità è massima – non solo negli atti di cui qui si sta discutendo, ma in generale tra esecutivi di colore diverso, nel corso degli anni. A parte qualche piccolo correttivo sostanziale e una retorica a tratti diversa, la continuità su questi aspetti è pressoché assoluta, frutto di una molteplicità di ragioni, alle quali è stata dedicata ampia letteratura scientifica e che vanno dalla natura del sistema istituzionale e del processo decisionale alle caratteristiche degli attori coinvolti; dall’estrema difficoltà di allontanarsi da un percorso di gestione delle migrazioni che affonda le sue radici nella creazione dello spazio Schengen alla sostanziale accettazione di un certo tipo di impostazione securitaria da parte delle forze politiche progressiste e socialdemocratiche. 

D’altra parte, la discontinuità emerge in maniera piuttosto netta sul fronte accoglienza e integrazione, dove attori politici di estrazione più progressista, forti anche degli stimoli e delle richieste provenienti dall’ala sinistra della coalizione o del panorama politico, pongono maggiore attenzione e risorse rispetto a quanto avviene nell’approccio della destra, in particolar modo nelle sue frange più estreme e xenofobe. Qui la natura essenzialmente sociale di questo tipo di politiche – e non già securitaria – consente di muoversi in uno spazio politico più ampio e, per certi versi, permissivo.

In questo senso, le innovazioni nelle border policies appaiono quasi sempre poco più che cosmetiche, mentre qualcosa di più sostanziale si muove soltanto quando si parla di politiche di integrazione. 

Un esempio paradigmatico di queste dinamiche è proprio l’approccio alla ricerca e soccorso in mare. A livello europeo, qualche timido passo avanti sembra sia stato fatto sulla criminalizzazione delle Ong, ma attraverso uno strumento non legislativo (le linee guida) che lascia più di qualche ombra sulle reali intenzioni della Commissione e sulla capacità risolutiva dello strumento. Ombre ancor più dense alla luce del contesto generale e dei precedenti specifici in questo ambito: come dimenticare il netto e reiterato rifiuto della Commisisone Juncker, sul finire del suo mandato, di intervenire sulla criminalizzazione del soccorso umanitario? Spingendosi oltre, viene da chiedersi se e fino a che punto la Commissione vorrà difendere l’invito a non criminalizzare le operazioni Sar dagli attacchi che arriveranno, verosimilmente, da buona parte degli stati membri, nonché da una parte di quel parlamento che proprio qualche mese fa aveva bocciato una risoluzione in materia di Sar. Il tutto mentre di una missione istituzionale nel Mediterraneo non se ne parla nemmeno lontanamente.  

Anche il nucleo fondante del Decreto sicurezza lascia pressoché immutato l’impianto preesistente e la criminalizzazione di fondo di chi salva vite in mare, almeno fino a prova contraria. Ma sarebbe fuori luogo stupirsi: non v’è alcuna traccia di un seppur minimo cambiamento, in quest’ambito, da anni. Basti considerare, solo per guardare a questi ultimi mesi, le quarantene politiche per le navi delle Ong e il decreto porti sicuri durante le fasi più acute della pandemia, i fermi amministrativi di navi da soccorso e aerei da ricognizione, le imbarcazioni con migranti a bordo lasciate in mare in attesa di un porto sicuro. Non basta certo un po’ di attenzione al rispetto formale di qualche regola o una minore retorica dell’odio, a marcare una reale discontinuità. È significativa, al riguardo, e solo apparentemente paradossale, la richiesta avanzata dalla difesa di Salvini nell’udienza preliminare del processo per il caso Gregoretti, di ascoltare in aula la ministra Luciana Lamorgese al fine di evidenziare la continuità delle procedure di gestione degli sbarchi tra i due governi Conte.

Leggere non solo il Decreto sicurezza, ma anche il Patto sulla migrazione, alla luce di queste considerazioni e del più ampio complesso di governance non è un mero esercizio intellettuale. Oltre a servire a ricostruire la complessità del quadro, questo processo è fondamentale non solo per smascherare la facile retorica trionfalistica di chi, in realtà, è da tempo artefice e complice di un certo modo di gestire le migrazioni, ma ancor di più per tenere alta l’attenzione e provare a strutturare un ragionamento che porti al superamento di queste politiche. 

Mettere a fuoco la natura al tempo stesso strutturale, istituzionale e politica della continuità delle politiche migratorie serve a trovare adeguate contromisure per provare a scardinare un processo decisionale che fino a ora si è mostrato quasi del tutto impermeabile a istanze provenienti dall’esterno. 

Alcuni spunti interessanti vengono dalla combinazione di strategie di azione diretta – e non di mera advocacy –, sulla falsariga di quanto avviene nel Mediterraneo; dal ricorso non solo di merito ma anche strategico all’autorità giudiziaria (la strategic litigation) per far valere diritti calpestati da politiche e azioni repressive e costringere il legislatore a intervenire in una prospettiva più attenta alla salvaguardia dei diritti umani; dal ruolo della rappresentanza, con la determinazione di alcune forze politiche e di alcune istituzioni che, sebbene poste ai margini del processo decisionale, in certi casi possono trovare la determinazione e la capacità di intervenire in maniera oculata e strategica. 

Ove questo processo di irruzione nel policy-making riuscirà a concretizzarsi e a espandersi, è possibile aspettarsi qualche risultato concreto; altrimenti, la continuità, soprattutto nelle border policies, sembra essere l’unico esito possibile.

Federico Alagna

Si occupa di ricerca sulle politiche migratorie europee ed è attivo in vari contesti di impegno politico e sociale, in particolare sul fronte del municipalismo e del diritto alla città, in Italia e all’estero. Fa parte del movimento Cambiamo Messina dal Basso ed è stato assessore alla cultura di Messina tra il 2017 e il 2018.

9/10/2020 https://jacobinitalia.it

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