Definanziamento, privatizzazione, regionalizzazione: come possiamo salvare il SSN?

In questi mesi abbiamo assistito attoniti alla tragedia che si è abbattuta sul mondo. L’Italia, con il suo Servizio Sanitario Nazionale (SSN) fortemente indebolito dalle politiche degli ultimi decenni, ha faticato molto a reggere e ne sta uscendo provata sul piano della tenuta economica e sociale. Le cause principali del tracollo sanitario, verificatosi in alcune regioni del Nord, sono da ricercare innanzitutto al definanziamento della spesa per la salute e alla privatizzazione dei servizi, che hanno indebolito quando non smantellato il sistema edificato con la Legge di riforma sanitaria 833/78. A ciò va aggiunto l’indebolimento dello Stato a seguito del regionalismo.

Definanziamento della spesa per la salute e confronto con altri paesi europei

La spesa per la salute in Italia riferita al 2017 (ultima valutazione disponibile), ammonta complessivamente a € 204.034 milioni, se si considerano oltre alla spesa pubblica, quella privata, quella sociale di interesse sanitario e la spesa fiscale. A noi interessa ora esaminare la spesa sanitaria pubblica, quella cioèche finanzia il Servizio Sanitario Nazionale e che comprende anche la spesa per le strutture private convenzionate e per servizi esternalizzati[1] privati: questa spesa, sottratte le altre componenti, si riduce a € 113.131 milioni, che per circa il 50% va però, di fatto, a finanziare il privato.

È questa la spesa che, in baseai dati forniti dalla Ragioneria Generale dello Stato, ha subito negli ultimi anni un’imponente riduzione, abbassando il tasso di crescita medio annuo che era 7,4% nel 2001-2005, a 3,1%, nel 2006-2010 e quindi allo 0,1% nel 2011-2017 (fig. 1).

Fig. 1 – Trend spesa sanitaria pubblica 2001-2017 (4° Rapporto Gimbe, 2019)

Il definanziamento nel periodo 2010-2019 è stato di oltre € 37 miliardi,e se inizialmente la riduzione era imputabile alla crisi economica, poi è diventato indice di una precisa volontà di non investire in Sanità. Ciò ha portato la spesa sanitaria pubblica pro-capite in Italia sotto la media OCSE ($ 2.622 vs $ 2.868), mentre molti paesi in Europa continuavano a investire molto più di noi, tanto che la nostra spesa media pro capite è ora inferiore del 35% a quella francese (4.068 $) e del 45% a quella tedesca (4.869 $) (fig. 2).

Fig. 2 – Italia si trova nel 2017 con spesa sanitaria pubblica quasi dimezzata rispetto a Germania

Se si confronta il trend della spesa pubblica in Italia nel periodo 2000-2017 con gli altri paesi del G7 si rileva che a) negli altri paesi la crisi economica non ha scalfito la spesa pubblica per la sanità (fatta eccezione per il Regno Unito), ma dopo il 2008 il trend di crescita è stato mantenuto mentre In Italia si è completamente appiattito (fig. 3); b), sono divenute enormi le differenze rispetto agli altri paesi europei, giacché se nel 2000 le differenze assolute della spesa pubblica tra Italia e altri paesi del G7 erano modeste, ad esempio, nel 2000 la Germania investiva $ 632 (+30,8%) in più dell’Italia, nel 2017 la differenza è quasi raddoppiata, ovvero $ 4.869 vs $ 2.622 (fig. 2, fig. 4).

Fig. 3 – Trend spesa pubblica pro capite 2000-2017 nei paesi del G7
Fig. 4 – Tagli alla sanità (fonte: Fondazione Gimbe)

L’Italia è diventata quindi in Europa il fanalino di coda per la spesa sanitaria pubblica e totale, nonostante la stessa OCSE raccomandasse di non andare ad intaccare la qualità dell’assistenza.

Ciò spiega molto sulla mancata tenuta del nostro SSN durante l’epidemia. Nell’ultima figurafornita dalla fondazione Gimbe e comparsa in piena pandemia sul Corriere della Sera, si vede come i tagli ed il definanziamento siano stati tutti operati da governi di centro-sinistra.

Il definanziamento ha portato ad una massiccia contrazione del personale e dei posti letto e al mancato investimento in dotazioni tecnologiche e sicurezza, compresi i dispositivi di protezione.

In pochi anni si sono persi quasi 10.000 medici,mentre oltre la metà di quelli in servizio ha un’età superiore ai 55 anni, 40.000 figuretra varie professioni e infermieri: questi ultimi sono il 5,8 x 1000 contro gli 8,5 x 1000 dell’UE e rappresentano il vero tallone di Achille del nostro sistema.

I posti letto[2] sono passati da 5,8 ogni 1.000 abitanti nel 1998 a 3,6 nel 2017, contro una media europea di 5 ogni 1.000 abitanti.

Non c’è da stupirsi che la pandemia abbia trovato medici ed infermieri già stremati, dopo anni di sovraccarico di lavoro, sia negli ospedali che nel territorio. La carenza di posti letto nelle TI è risultata drammatica, ma non vi sarebbero arrivati così tanti ammalati gravi se l’assistenza territoriale non fosse stata smantellata.

Privatizzazione della sanità

Mentre il definanziamento depauperava il servizio pubblico nel silenzio delle organizzazioni sindacali e dei partiti, che tacevano di fronte alle mancate risposte di un SSN depauperato e deprivato di personale, strutture e servizi, una propaganda indegna, sostenuta anche da mezzi di stampa e televisioni, ha fatto breccia tra i cittadini, rendendo attrattive le false promesse della sanità privato. In questa distinguiamo le strutture privare accreditate e la sanità integrativa o secondo pilastro, affermatesi, grazie allo svuotamento del pubblico.

A) Le strutture private accreditate di pubblico hanno solo il finanziamento, il resto è tutto privato, e la gestione si fonda sul profitto. Nello specchietto sottostante si vede quale sia ormai la consistenza del privato convenzionato rispetto al pubblico. Fonte: Annali 2017 del Ministero della Salute). Tranne che per le strutture ospedaliere, dove il pubblico, seppure di poco, mantiene una prevalenza sul privato, le altre sono ormai prevalenti sul pubblico.

Strutture del privato accreditato, % rispetto al pubblico
Assistenza ospedaliera: 482 su 1000, pari al 48,2%
Assistenza specialistica ambulatoriale (ambulatori, laboratori, diagnostica strumentale e per immagini): 5.353 su 8867, pari al 60,4%;
Assistenza territoriale residenziale (Residenza Sanitarie Assistite, case protette, Hospice) 6070 su 7.372 pari all’82,3%;
Assistenza territoriale semiresidenziale: (centri dialisi, stabilimenti idrotermali, Centri di salute mentale, Consultori familiari), 2.118 strutture su 3.086 pari al 68,6%;
Altra Assistenza territoriale, 724 su 5.586, pari al 13,0%;
Assistenza riabilitativa (cliniche di riabilitazione) 874 su 1,122 pari al 77,9%;

Le strutture convenzionate per l’assistenza ospedaliera, cherappresentavano nel 2017 il 48,2 % su 1000 strutture totali hanno quasi raggiunto ilpubblico che oggi è il 51.8% (518). In termini assolutila Regione che ne ha il maggior numero è il Lazio con 124 strutture private, seguita dalla Lombardia con 72 strutture, quindi Sicilia e Campania con 58.

La spesa sanitaria per le strutture private accreditate è circa il 33% del totale della spesa pubblica (in Lombardia il 40% e nel Lazio oltre il 50%)[3]. Se si considera che all’interno della Sanità Pubblica sempre più servizi sono esternalizzati, il privato assorbe ormai quasi il 50% dei finanziamenti.

A questo è complementare, la sanità integrativa, per cui si parla ormai di “Sistema sanitario”.

Le regioni, stabiliti i requisiti minimi strutturali, tecnologici e organizzativi per l’accreditamento, dovrebbero verificarne l’osservanza e controllare che i finanziamenti richiesti siano corrispondenti ai DRG di cui si chiede il pagamento[4]. Di fatto ciò non avviene. Tale sistema, che vige anche nel pubblico ed è stato introdotto con l’aziendalizzazione, indirizza il privato, che si fonda sul profitto, verso la scelta e l’effettuazione dei trattamenti più remunerativi e facilita comportamenti opportunistici e truffe, di cui la cronaca è piena da anni.

Contrariamente al senso comune non è vero che il privato sia più efficiente. Sulla base dei dati forniti dal Ministero della Salute una singola degenza costa in media € 3.021 nel pubblico mentre nel privato costa €2.870,48. Tale media però non tiene conto che gli interventi più costosi (tranne cardiologia interventistica e cardiochirurgia), come: trapianti, chirurgia oncologia, neurochirurgia, Terapia Intensiva ed Emergenza-Urgenza, che si eseguono prevalentemente nelle strutture pubbliche. Inoltre il privato tende a fare più esami, visite ed interventi e con meno personale.

Molti sono i medici e specialisti che hanno lasciato il pubblico causa il sovraccarico di lavoro e gli stipendi bloccati da oltre 10 anni. Avviene così che gli apparecchi di alta diagnostica sono spesso fermi, nonostante le liste di attesa, come nel Lazio, dove i due terzi delle prestazioni diagnostiche sono erogate da privati accreditati malgrado la maggior parte degli apparecchi sia nel pubblico.

Nemmeno durante l’emergenza da Covid il privato è stato di una qualche utilità ma è intervenuto tardi, dietro laute remunerazioni e dopo essersi assicurato altri letti in convenzione.

B) La sanità integrativa e intermediata da terzi paganti, il cosiddetto secondo pilastro. È fatta da soggetti che offrono la copertura per la spesa di prestazioni e servizi sanitari, sia nel pubblico sia nel privato, sostituendosi al SSN. Il sistema è molto complesso e i soggetti sono oltre 300: fondi sanitari, polizze assicurative individuali e collettive, Welfare aziendale.

La spesa per la sanità integrativa è di complessa analisi per la difficoltà di tracciare i vari flussi economici, per l’assenza di una rendicontazione pubblica e perché l’Anagrafe degli stessi, presso il Mistero della Sanità, non è consultabile dal relativo sito! Tenendo conto dei limiti di affidabilità rispetto a fonti e dati, per l’anno 2017 si stima una spesa integrativa di € 5.800 milioni, il 13,9% della spesa privata totale (ciò che si paga di tasca propria per ticket e prestazioni varie) che è di € 41.789 milioni. La sanità integrativa si sta insinuando e occupa sempre più spazio sostituendosi al SSN tramite il rapporto privilegiato con il privato convenzionato mentre sottrae soldi allo stato attraverso esenzioni e benefici fiscali.

È stata introdotta dal D. Lgs 502/1992 (De Lorenzo). Da allora è stato tutto un susseguirsi di provvedimenti che ne hanno facilitato il diffondersi finché con il decreto crescita, DL 34/2019, a tuttii soggettichela compongono sono garantiti benefici fiscali.

Per raggiungere lo scopo l’intermediazione finanziaria e assicurativa ha condotto una forte campagna mediatica, approfittando del malessere del SSN per denunciare, esagerando la cifra, che 12 milioni di italiani rinunciavano alle cure (RBM Salute-Censis), poi smentita dall’ISTAT.

La sanità integrativa, svolge in prevalenza prestazioni sostitutive mentre la terminologia continua a indicare la sua natura “integrativa”, legittimando la percezione pubblica che l’obiettivo sia solo di integrare le coperture garantite dal SSN.

Le agevolazioni fiscali permettono una deducibilità dei contributi sino a € 3.615,20 e la detrazione della quota parte delle spese sanitarie a proprio carico. Ciò significa che, per un’erogazione di prestazioni prevalentemente sostitutive, il beneficiario toglie allo Stato € 3.615,20 per spese fiscali e la quota parte delle spese sanitarie a proprio carico.

Negli ultimi anni l’attenzione si è spostata sul welfare aziendale, che si è andato costituendo con la Legge di Stabilità 2016 e quindi con le leggi di bilancio 2017 e 2018. Grazie a rilevanti incentivi fiscali, ha promosso gli investimenti delle imprese per sostenere, si dice, il “benessere dei lavoratori e delle loro famiglie”. Si realizza attraverso la conversione della componente variabile della retribuzione in servizi di welfare, cui si applica la totale esenzione da imposizione fiscale e contributiva. Anche in questo caso, le tipologie di servizi e prestazioni sanitarie offerte vanno a duplicare quanto già incluso nei LEA, con il benestare delle organizzazioni sindacali che pertanto, da difensori delle tutele pubbliche si sono trasformati in sostenitori dei fautori della privatizzazione.

I fondi sanitari offrono solo vantaggi marginali ai lavoratori dipendenti con il rimborso di alcune spese, peraltro ampiamente ripagate dalla rinuncia all’aumento salariale, a una quota di pensione e di TFR. Inoltre finiscono per pagare due volte, perché continuano a sostenere, attraverso la fiscalità generale, il servizio pubblico. Chi invece beneficia sicuramente dei fondi sanitari sono le imprese (che risparmiano sul costo del lavoro), l’intermediazione finanziaria e assicurativa (che aumenta i propri profitti) e i privati erogatori (per l’incremento della domanda di prestazioni).

Il secondo pilastro danneggia e rischia di affondare il SSN, per vari motivi. Indebolisce progressivamente la difesa del diritto alla tutela della salute, perché chi non è soddisfatto del pubblico e dispone di un’opzione privata che gli offre tutto non ha motivo per rivendicare un diritto anche a nome degli altri. Inoltre, le agevolazioni fiscali sono una spesa fiscale sostenuta da tutti i contribuenti; di conseguenza gli iscritti ai fondi sanitari, persone che hanno un cero agio o che appartengono a categorie con maggiori capacità negoziali, oltre a fruire di maggiori prestazioni, scaricano parte dei costi sui non iscritti, generando iniquità e diseguaglianze.

È davvero paradossale che, di fronte al progressivo definanziamento del SSN, si preferisca destinare risorse pubbliche alle agevolazioni fiscali dei fondi sanitari, invece che aumentare le risorse per la sanità pubblica, considerato, tra l’altro, che l’entità del beneficio fiscale pro-capite previsto per i fondi sanitari, € 3.615,20, sfiora il doppio della spesa sanitaria pubblica pro-capite nel 2017, € 1.870,43.

Nel contesto delle difficoltà indotte dall’imponente definanziamento del SSN la privatizzazione del SSN sta avvenendo in modo strisciante per l’interazione di vari fattori concomitanti: rimborso a prestazione (DRG), insoddisfazione di operatori e medici che tendono a spostarsi nel privato, difficoltà di accesso al servizio pubblico, esternalizzazione di servizi logistici e sanitari, erosione da sprechi, inefficienze, prestazioni inappropriate.

Le strutture private convenzionate e l’esternalizzazione di servizi, tra cui quelli di assistenza, rappresentano ormai più del 50% del pubblico e in alcune regioni, come il Lazio, superano il 60%. Esse sottraggono i pazienti alle attese del SSN ma le prestazioni spesso si rivelano inadeguate o inutili, prediligono l’effettuazione delle prestazioni più remunerative e non sono in grado di intervenire in situazioni di emergenza urgenza. Difficilmente rispondono ai requisiti di accreditamento e sottraggono denaro pubblico attraverso vere e proprie truffe.

L’Intermediazione finanziaria e assicurativa, difficilmente controllabile data la frammentazione e flessibilità della normativa che la riguarda, genera profitti utilizzando il denaro pubblico sotto forma di detrazioni fiscali per fornire, tramite i fondi sanitari integrativi, prestazioni prevalentemente sostitutive e spesso inefficaci.

Per concludere, strutture private convenzionate e sanità integrativa hanno come scopo il profitto ed in quanto tali non possono essere funzionali ad obiettivi di salute. Sottraggono risorse al Servizio Pubblico e introducono capitali privati che poi pesano sulle scelte da fare per la salute.

Definanziamento e privatizzazione hanno portato alla demolizione della L.833/78 e del SSN e all’aziendalizzazione

La Legge di riforma sanitaria (L. 833/78), è stata frutto di una lunga stagione di lotte per i diritti: la salute era stato l’ultimo ad arrivare al traguardo sebbene, allora, la sanità pesasse infinitamente meno in termini di mercato, di sostenibilità economica e di politica.

I principi fondamentali erano tre: universalità, uguaglianza, equità. Superando il sistema diseguale e dispendioso delle Casse Mutue si era affermato il dettato costituzionale (art. 32) per cui: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. Il SSN si doveva costruire intorno ad altri due cardini: la unitarietà tra interventi preventivi, curativi, riabilitativi e reinserimento sociale, e la integrazione tra interventi sanitari, sociali e ambientali dato che determinanti biologici, ambientali e sociali di malattia sono strettamente intrecciati. Era previsto quindi uno stretto legame tra i servizi ospedalieri, di diverso livello e complessità, servizi sanitari di base, servizi riabilitativi e di assistenza sociale, in coordinamento con i Comuni. I Servizi di Prevenzione, Igiene Pubblica e del Lavoro, si occupavano di prevenzione primaria (tutela della salute attraverso la tutela dell’ambiente, individuazione e bonifica delle cause di inquinamento), tutela della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro e prevenzione secondaria o collettiva (epidemiologia infettiva, vaccinazioni, controllo degli ambienti di vita etc.).

Gran parte di questo è rimasto sulla carta o è stato demolito, in seguito all’intervento di vari provvedimenti legislativi di controriforma, che hanno trasformato le USSL in Aziende (ASL) e separato dal territorio i grossi ospedali trasformandoli in aziende ospedaliere (D.Lgs 502/1992 e 517/1993, ministro De Lorenzo), mentre col Referendum del 1994 si è tolta la tutela dell’ambiente alle ASL. I servizi di prevenzione sono stati snaturati mentre e l’assistenza sanitaria di base e domiciliare, che veniva prima dell’ospedale, sono stati svuotati di competenze.

Le comunità locali hanno perso il diritto di orientare le politiche sanitarie nei territori. La Regione, ha acquisito un ruolo centrale e pressoché autonomo dopo il 2001, con la riforma del Titolo V. Il Ministero della Salute è stato depotenziato per essere sovrastato dal Ministero dell’Economia che stabilisce ammontare del fondo sanitario nazionale (FSN) ed entità degli investimenti.

Quando l’Europa, con il Trattato di Maastricht, abbraccia decisamente il neoliberismo, la scelta aziendalista, condizionerà fortemente l’assolutezza del diritto alla salute, ponendo obiettivi improntati a logiche di efficienza, produttività, pareggio di bilancio. Il diritto alla salute cesserà di essere assoluto e incondizionato e sarà subordinato alle leggi del mercato.

Infine muore l’equità nell’erogazione delle prestazioni. Mentre la L. 833/1978 prevedeva che le prestazioni sanitarie dovessero essere garantite a tutti i cittadini (art. 3) per assicurare condizioni e garanzie di salute uniformi (art. 4) su tutto il territorio nazionale, poi scompare la clausola di uniformità.

Regionalismo introdotto dal nuovo Titolo V e trasferimento delle competenze sulla salute.

Interpretato dalle regioni in modo quasi autarchico il regionalismo ha concorso alla demolizione del SSN e ha prodotto 20 sistemi sanitari diversi, finanziati senza alcun criterio perequativo e sulla base del fabbisogno storico, col risultato che i finanziamenti vanno in misura maggiore al Centro-Nord. Le regioni, hanno approfittato dell’autonomia conseguita per rafforzare il privato e per dar libero corso ai fondi integrativi, che in realtà sono sostitutivi, determinando una sanità a due binari basata sul censo producendo un aumento delle disuguaglianze in tutte le regioni. Ancora maggiori sono stati l’aumento delle disuguaglianze e il divario prodotto tra regioni del Nord e regioni del Sud e isole, che, pur essendo più bisognose, ricevono meno finanziamenti dallo Stato mentre le entrate derivanti dalla propria insufficiente base impositiva non bastano a finanziare i servizi sanitari e sociali. Questo alimenta la mobilità sanitaria, che ogni anno sottrae più di 4 miliardi alle casse del mezzogiorno per finanziare la cura dei suoi cittadini nelle strutture del nord.

L’Autonomia Differenziata non farà che accentuare tale divario, aumentando ulteriormente le disuguaglianze e accentuando gli squilibri e le storture introdotte dalle varie “deforme”, mettendo a rischio la tenuta del paese.

Il fallimento del regionalismo, non ancora autonomia differenziata, lo si è visto in questi mesi di pandemia: in assenza di una programmazione centrale ogni regione se ne è andata per conto proprio, ha attuato scelte prive di fondamento scientifico che i Comuni hanno subito, mentre il Governo non è stato in grado di attuare un coordinamento.

Covid-19 ha reso evidente che non esiste più un SSN unico

L’epidemia ha dimostrato il fallimento di qualsivoglia sistema che intenda fondare la tutela della salute sull’iniziativa privata dominata dalla logica del profitto, sulla preminenza dell’attività ospedaliera, torcendo quest’ultima in direzione delle terapie più remunerative, sullo smantellamento della assistenza territoriale e della prevenzione, sulla regionalizzazione spinta. Ciò si è visto proprio nelle regioni che più avevano distorto i principi e i criteri fissati dalla L. 833/78. L’intero SSN, che sembrava uno dei migliori si è dimostrato in tutta la sua debolezza.

Oggi in Lombardia esiste la possibilità di curarsi con le migliori terapie disponibili anche se non a tutti è concesso, ma i servizi di base sul territorio e la prevenzione sono ridotti al minimo, medici e infermieri scarseggiano. E siccome le patologie ad elevata trasmissibilità vanno affrontate e sconfitte sul territorio, nelle regioni in cui assistenza di base e prevenzione erano state smantellate il sistema è crollato. Ciò è accaduto, pur in modo meno eclatante, anche in Piemonte e Liguria, mentre i servizi hanno tenuto in Veneto, Emilia Romagna e Toscana, dove permaneva un tessuto sanitario territoriale. Tuttavia voci e testimonianze pervenute dall’interno dell’epidemia, hanno fatto sapere che anche in queste regioni, la situazione è stata recuperata grazie agli operatori, poiché le dirigenze, almeno nella prima fase, sono state travolte dal panico e dall’imperizia.

Nel resto dell’Italia la diffusione non è stata così massiva, ma se lo fosse stata, gli effetti sarebbero stati anche peggiori dal momento che nel Lazio, al Sud e nelle isole i servizi di assistenza territoriale e di prevenzione non sono stati mai sviluppati realmente e la privatizzazione è avanzata.

Il coronavirus ha messo in luce anche lo stato di debolezza culturale e scientifica del paese e l’impreparazione di soggetti e strutture che ai vari livelli dovevano approntare la risposta, a cominciare da quelli centrali che hanno dimostrato un grave ritardo nella comprensione di quanto stava accadendo e sottovalutato la diffusione del virus nonostante i numerosi avvertimenti.

È mancata anche una Cultura della sanità pubblica, tra i Medici di Medicina Generale le cui basi professionali sono antiquate e trascurate dai vertici e i Servizi di Igiene Pubblica, Prevenzione ed epidemiologia, cui spettacogliere i segnali di nuove malattie e predisporre protocolli di intervento e monitoraggio, che sono stati smantellati e ridotti a poche unità di personale.

A tutto ciò si sono aggiunti i ritardi e l’impreparazione delle regioni e il conflitto tra il Governo centrale e Presidenti delle regioni, che si sono mosse tardi e in ordine sparso, pressate da diversi interessi, in primis quelli della classe imprenditoriale.

Di fronte alla confusione manifesta e alla pandemia che avanzava il Governo avrebbe dovuto sostituirsi in base all’art. 20 della Costituzione che lo dispone allorché si verificano situazioni di “pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica”: ciò non è avvenuto e questa debolezza di fronte alle regioni, e non solo, fa temere per le scelte future.

Periodo successivo alla fase acuta della pandemia

Era auspicabile che nel periodo e nei mesi successivi alla prima apertura del 3 maggio si cominciasse a porre rimedio alle storture e alle scelte sbagliate del primo periodo.

A vanificare tale prospettiva è stato il DPCM del Ministero sanità del 30 aprile, che non ha previsto obblighi precisi per le regioni, come quello di effettuare i tamponi, svolgere indagini epidemiologiche, fare il tracciamento dei contatti, monitorare i quarantenati ed inserire in modo tempestivo i dati nei sistemi informativi.”

Ciò non è stato fatto in modo organico in nessuna delle regioni, nonostante fosse stata chiesta una maggiore accuratezza nella raccolta e trasmissione dei dati, se non altro per non ricadere in nuove chiusure. Invece, le regioni hanno continuato a procedere in ordine sparso, per cui è mancato un reale monitoraggio della situazione, e, i dati di contagio, già fortemente sottostimati nella prima fase, hanno continuato ad esserlo anche nella seconda.

I lavoratori sono tornati nelle aziende senza essere sottoposti a controlli, effettuati solo in poche realtà, in laboratori privati, dietro forti esborsi. Lo stesso è accaduto e sta accadendo ai cittadini con sintomi che, difficilmente riescono ad avere un tampone e quindi, restano in quarantena per periodi indefiniti. Ciò accade non solo nelle regioni più colpite del Nord, ma anche altrove, come nel Lazio, che potrebbero utilizzare l’attuale fase per mettere a regime il sistema di tracciamento. Tra l’altro il Lazio sta mostrando un andamento fluttuante dei contagi. Mentre nell’ultima settimana di maggio era attestato su un incremento % dei casi poco sopra l’1%, dal 2-9 giungo l’incremento è 1,4%, superiore alla media nazionale che è 0.8%, e subito sotto all’incremento di Lombardia e Liguria. La maggior parte è peraltro da ricondurre al focolaio di un ospedale cittadino. Ma se l’epidemia continua a circolare, perché non si attua un tracciamento rigoroso? Forse mancano reagenti e laboratori? E allora perché non ci sono provvedimenti per utilizzare i laboratori privati accreditati, dove ormai vengono indirizzati i cittadini, poiché il pubblico non è attrezzato? Forse non si vuole scoprire che il virus è ancora diffuso, ma questo è rischioso perché porta a sottovalutazioni pericolose e a non avere il controllo dei contagi.


[1] I servizi esternalizzati a privati:serviziomensa, servizi di pulizia, cooperative di assistenza, servizi amministrativi, centri prenotazioni visite, che gravano sulla spesa pubblica con rendimenti che non producono risparmio, spesso non sono efficaci e funzionali , quasi sempre non rispettano i diritti dei lavoratori.

[2] Annuario Statistico del SSN, 2017.

[3] Banca d’Italia rapporto Lombardia e Lazio anno 2018, p. 101, 93.

[4] DRG (raggruppamenti omogenei di diagnosi) è la remunerazione per i trattamenti eseguiti secondo criteri fissati dal Ministero della Salute e modulati sul paziente.

Loretta Mussi

Medica

10/6/2020 https://transform-italia.it

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