Difendere la rivoluzione

La guerra che la Turchia ha lanciato in queste ore contro l’Amministrazione democratica della Siria del nord e dell’est deve incontrare tutta la nostra opposizione. Trovandoci lontani dallo scenario di guerra, la nostra reazione non può che tradursi in una mobilitazione attiva, a tutti i livelli, per la fine dell’aggressione e il ripristino di una condizione di pace, oltre che di sostegno alla necessaria resistenza partigiana delle Ypg e delle Ypj.

Coloro che sono abituati a schemi tradizionali non si troveranno a loro agio: un tempo sarebbe stata la «società civile» europea, soprattutto «di sinistra» a insistere per il rientro dei soldati statunitensi in patria (tanto più dal medio oriente!), mentre ora lo fa, isolato, il presidente sostenuto dall’alt right e dall’elettorato più xenofobo che gli Stati uniti abbiano conosciuto in tempi recenti. In teoria anche islamofobo, sebbene l’intesa sia avvenuta proprio con il rappresentante più popolare di un certo «Islam militante» e di massa, il suo omologo Erdogan. A insistere perché i militari a stelle e strisce svolgano un ruolo di interposizione con la Turchia è invece oggi una parte consistente dell’arcipelago della sinistra altermondialista, quella che ha nel suo albero genealogico l’opposizione alla guerra in Iraq e le manifestazioni contro il G8 a Genova, e che oggi può identificarsi in parte con i Fridays for Future (che non a caso hanno avuto luogo anche in Rojava, proprio nei luoghi che la Turchia bombarda).

Ci sono anche altre contraddizioni. La scelta di Trump è condivisa del suo elettorato ma non dalla nomenclatura repubblicana, neanche quella a lui fedelissima, ed è osteggiata dall’intero Congresso, dai dipartimenti di stato e difesa e soprattutto dal Pentagono. Quest’ultimo ha addirittura espulso, con un’iniziativa autonoma, la Turchia dalle piattaforme operative delle forze aree della coalizione il 7 ottobre, con una mossa che ha inibito per alcune ore l’intervento aereo. L’esercito degli Stati uniti, sebbene sia un’entità priva di collocazione politica esplicita, è molto ideologizzato. Ho conosciuto diversi ex marines che avevano lasciato quell’esercito per unirsi alle Ypg, sostenendo che le forze armate statunitensi erano inquinate «dalla politica» e nelle Ypg era per loro possibile combattere coerentemente per gli ideali della rivoluzione americana delle origini, che loro vedevano anche nelle conquiste sociali del Rojava: diritti civili, libertà di espressione, rispetto delle minoranze e delle donne.

La rivoluzione americana è un evento tanto remoto quanto complesso, ma sul piano soggettivo ciò che conta è che se gli ex marines che hanno scelto le Ypg sono sparute eccezioni in termini quantitativi, sono un sintomo più che significativo degli umori dell’esercito, ed anche tra i loro vertici; ne sono, anzi, un’indesiderata ma rivelatrice conseguenza. Chi segue la guerra siriana sa benissimo quanto la contraddizione tra Pentagono e Casa bianca abbia contato in tutta la vicenda. Obama e Hillary Clinton hanno gettato la Libia nel caos e da lì, nel 2012, hanno cominciato a imbarcare armi di Gheddafi alla volta della Turchia, perché i turchi le consegnassero ai siriani sunniti che intendevano sfidare il regime alawita di Bashar al-Assad. Sebbene l’amministrazione statunitense sia stata molto spaventata dalle Primavere arabe (soprattutto quella egiziana), Obama è intervenuto per trovare una curvatura degli eventi che fosse storicamente funzionale agli interessi statunitensi. Il caso libico è il più evidente, quello siriano il più ambiguo.

L’altro grande attore imperiale nel mondo musulmano post-2011 è infatti la Turchia. Il partito neo-ottomano di Erdogan è stretto alleato del movimento globale della Fratellanza musulmana, al potere in Qatar. Turchia e Qatar, il cui punto di vista è stato sapientemente diluito e servito sul piatto delle audience internazionali, in questi anni, dall’emittente qatariota Al-Jazeera, hanno fomentato con i soldi, le armi e la propaganda tutte le fazioni islamiste (che non vuol dire musulmane, ma conservatrici o fondamentaliste nell’ambito del più ampio spettro delle tendenze islamiche) all’opera dal Marocco alla Siria e all’Iraq, fin dentro l’Iran. Questa prospettiva è stata sostenuta dalla Casa bianca, i cui maggiori avversari geo-politici erano Libia, Siria e Iran. Questa linea è stata osteggiata fin da subito dal Pentagono. Si pensi che la Dia, il servizio segreto dei militari, intervenne nel 2012 per sabotare il trasferimento di armi dalla Libia ai «ribelli siriani» ad opera della Cia. La Dia prese contatto con ufficiali ostili ad Erdogan nell’esercito turco per sostituire le armi importate dalla Libia con ferrivecchi scassati che l’esercito di Ankara teneva in vecchi depositi.

La politica di Obama, pur ostacolata dalla Dia, riuscì addirittura a produrre, nel 2014, la nascita di un «califfato» esteso su gran parte della Siria e dell’Iraq: tanto si erano rafforzate le file jihadiste. Di questo i militari statunitensi ritengono l’amministrazione Obama responsabile. Fin dal 2012 l’attore principale nella guerra contro Assad era Jabhat al-Nusra, alias Al-Qaeda in Siria, nei cui ranghi si nascondeva anche Daesh, alias Al-Qaeda in Iraq. Gran parte dei soldi, degli uomini e delle armi fatti entrare dalla Turchia in Siria (con l’aiuto di Stati Uniti, Qatar, Francia, Gran Bretagna e Arabia Saudita) sono finiti nelle mani di Al-Nusra e, dopo che Daesh ha cercato di sottometterne i capi con una specie di complotto interno (2013), dei fautori stessi di un immediato «califfato» territoriale, divenuti famosi come «Isis» quando riuscirono, piuttosto facilmente, a porlo in essere. Si noti che anche l’insurrezione dei clan sunniti in Iraq contro il loro governo, che favorì l’alleanza tra le reti tribali e Daesh, fu attivamente sostenuta dalla Turchia. Non che i siriani o gli iracheni non abbiano la necessità e il diritto storico di insorgere: ma l’unico involucro politico organizzato di quelle insurrezioni è stato «di stato» e imperiale fin dall’inizio, e ciò non ha nulla a che fare con le scelte delle Ypg o del Pkk, che hanno subìto da subito questi processi, perdendo migliaia di donne e uomini per arginarli.

Sono questi gli scenari imperiali, incarnati da elite musulmane o cristiane, che hanno portato a decine di migliaia di perseguitati, di morti, di profughi e di fosse comuni. Questi sono gli scenari che hanno condotto all’esodo di massa di migliaia di persone dall’Iraq, dalla Siria e dal Kurdistan verso l’Europa dal 2015, e hanno portato l’Europa a ricoprirsi di muri e gli elettorati europei a spostarsi verso la destra sempre più estrema. Non è vero che la storia di questi anni è stata fatta esclusivamente dagli stati, quasi fosse un grande complotto, ma è vero che – se si esclude l’eccezione del movimento confederale fondato dalla sinistra curda – l’attivazione popolare ha trovato soltanto in attori statuali e forme imperiali un progetto concreto e una forma possibile di sostegno e avanguardia. Le sollevazioni del 2011 erano un fenomeno da contenere per Washington, da sobillare per Ankara e Doha. L’islam presunto «moderato» di Erdogan e quello mediatico-finanziario del Qatar erano il meno peggio secondo la Casa bianca democratica. Già allora i vertici dell’esercito non erano d’accordo: le fazioni islamiste delle primavere, secondo il Pentagono, avrebbero provocato pericoli alla sicurezza statunitense.

Persino i bombardamenti statunitensi contro Daesh nell’agosto 2014, mentre i miliziani inseguivano donne e bambini ezidi per le montagne dell’Iraq, erano stati annunciati da un presidente riluttante. Obama era talmente alieno dall’idea di intervenire militarmente (aveva ritirato il personale dall’Iraq nel 2010) da mantenere per mesi gli sporadici bombardamenti privi di una cornice militare definita, senza sancire l’inizio, il senso e gli scopi di quelle azioni come operazione militare coerente vera e propria: tecnicamente uno scandalo per i generali. Furono nuovamente i militari a insistere perché si formasse la coalizione internazionale Cjtf e si attivasse l’Operazione Inherent Resolve. L’esistenza del califfato non impedì alla Casa bianca di continuare a finanziare ed armare i gruppi jihadisti di Aleppo, Damasco e Idlib, nello stesso momento in cui il Pentagono avviava i contatti con le forze rivoluzionarie che avevano difeso Kobane e sanciva un’alleanza (anche per questo esclusivamente militare) con le Forze siriane democratiche.

L’incontro tra rivoluzione curda, già affiancata da movimenti arabi e assiri, e una coalizione espressione della reazione internazionale (in Siria) agli effetti del precedente intervento internazionale nel paese, è un paradosso e un ibrido fin dagli inizi. La cosa è talmente evidente che occorrerebbe fare un passo in avanti rispetto a continuare ad affermarla in modo tutto sommato imbelle. Interrogarsi sulle cause è invece utile. Soltanto una mentalità razzista e paternalista può pensare che il movimento curdo non ne fosse o non ne sia consapevole; e soltanto un posa stucchevole può indurre qualche benpensante o super-esperto a sostenere che non fosse un ibrido necessario, e che non sia necessaria mantenerlo, nelle forme in cui è possibile farlo, ancora oggi. Durante la difesa di Kobane né il regime né la Russia sono intervenuti ad aiutare chi le ha difese: è un fatto che siano intervenuti gli Stati uniti. Là dove la Russia ha proposto una collaborazione, come nella provincia di Aleppo e, fino al gennaio 2018, nel cantone di Afrin, le Ypg sono state più che disponibili a cooperare, pur nelle differenze. Il regime possiede una classe dirigente e un comando militare meno affidabili (ma non meno sanguinari e accaparratori) di quelli russi e statunitensi, e ciononostante sono note le collaborazioni delle Ypg con l’esercito siriano ad Aleppo e Hasakah, dove era necessario cacciare i gruppi jihadisti (non si può dire lo stesso del regime, naturalmente, che nulla ha fatto per difendere le città di Jarablus, Al-Rai, Al-Bab e Afrin, e parte della provincia di Idlib, occupate in questi anni dalla Turchia).

I militanti islamisti e i loro simpatizzanti europei (esistono anche quelli) hanno accusato le Ypg di essersi uniti allora alle operazioni brutali di Russia e regime. I sostenitori del fascismo baathista o del sovranismo autoritario del Cremlino si sono lamentati della collaborazione con gli Stati uniti. Se si combatteva contro Al-Qaeda ad Aleppo, si era complici dei bombardamenti russi. Se si combatteva contro Daesh a Raqqa, di quelli statunitensi. In un modo o nell’altro, c’è sempre la critica a chi combatte da parte di chi preferisce non farlo. Ognuno ha il suo stile e non c’è niente da fare su questo punto. Ho imparato anche che non serve a nulla rispondere che non si può avere il cuore di ergersi a strateghi da bar sport (o da bar del circolo comunista, o del centro sociale) se non si possiedono le stesse responsabilità verso famiglie e civili, e non si hanno gli stessi risultati rivoluzionari da difendere. Ma non serve a nulla perché se una persona fosse in grado di comprendere una simile osservazione, eviterebbe di assumere certi toni, o di cavalcare certe ambiguità, fin dall’inizio.

Le contraddizioni con gli Stati uniti avrebbero potuto assumere molte forme. Il Pentagono, ad esempio, stava da tempo complottando contro le Ypg in Siria (la sua collaborazione con i curdi non è mai stata dettata da puro amore), cercando di sostituirle con una milizia legata ai clan arabi nell’est del paese, creando una forza conservatrice ma non politicizzata e sotto il suo diretto controllo, non invisa alla Turchia seppur senza interferenza ideologica turca. Questo piano non è andato in porto perché il movimento rivoluzionario ha impedito che ve ne fossero le condizioni sociali e politiche. La rottura è avvenuta infine per l’irruzione dell’elettorato di Trump sulla scena. La classe operaia e media bianca delle zone di provincia o di crisi degli Stati Uniti ha votato Trump anche perché rovesciasse la politica estera di Obama, questo continuo supporto a «milizie straniere», questo continuo «coinvolgimento» nel mondo musulmano. È stato un argomento importante nella campagna elettorale di Trump. Che poi queste «milizie straniere» non siano composte da jihadisti in questo caso, ma le Ypg, per gli elettori del presidente non fa differenza. È il genere di problema che insorge con un elettorato che si crede ostile al «terrorismo» ma è semplicemente xenofobo.

Per arrivare a questo Trump ha dovuto tacere la decisione al Pentagono. Avere l’esercito più potente del mondo significa anche essere una democrazia rappresentativa sotto un’ingombrante protezione soldatesca. Sebbene Trump volesse da tempo ritirare i soldati dall’Afghanistan e dalla Siria, non ha potuto farlo perché il Pentagono si è messo di traverso. Ora il caso è diverso, perché Trump non ha dato il tempo al Pentagono di intervenire a correggere la sua rotta, che peraltro (come nel caso del voltafaccia russo ad Afrin) non prevede un completo ritiro. Se l’attacco turco è iniziato il 9 ottobre, e non già il 7 o l’8 ottobre, è perché la facilità con cui Trump si è lasciato convincere da Erdogan a diramare l’ordine ai soldati di lasciare Serekaniye ha sorpreso pure il presidente turco: l’esercito di Ankara non era pronto. I carri armati si sono spostati verso Tell Abyad la sera dell’8 ottobre. Non dimentichiamo che per tutta l’estate ci sono state trattative tra Stati Uniti, Turchia e Sdf, e in settembre si era arrivati a un accordo che escludeva l’invasione. L’attuale situazione è perciò il risultato effettivo dell’azione individuale del presidente, che sa di arrecare un dispiacere all’establishment, ma sa anche di compiacere chi non vuole che guerre «inutili», «tribali» e «ridicole» (come ha scritto nei suoi tweet) provochino costi ai contribuenti (dato che non si può neanche parlare di un numero alto di caduti americani).

Ci sono quindi motivi razionali tanto per questa scelta quanto per le contraddizioni che essa ha fatto sorgere nel campo statunitense. Sarebbe tuttavia fuorviante sopravvalutare l’impatto di queste pur necessarie considerazioni geo-politiche sulle nostre scelte e sulle nostre prese di posizione. Un conto è conoscere lo scenario, un corso è lasciarsi guidare da esso. Noi abbiamo un’altra agenda. Noi ragioniamo in altri termini e rispondiamo ad altri interessi. Gli interessi di chi? Di chi non ha fonti di lucro geo-politiche da difendere, e può soltanto perdere dall’aumento della violenza nel mondo e dall’inanellamento di nuovi successi da parte dei difensori della famiglia tradizionale, delle gerarchie naturali, della parola di Dio, dei simboli religiosi sbandierati come strumenti politici, della sottomissione della fede o dell’identità culturale a interessi di appropriazione, devastazione ambientale e dominio; a logiche liberali imparentate con il fascismo, a logiche sovraniste in cui sovrana è una minoranza, a logiche divine in cui costi e guadagni sono ripartiti secondo logiche troppo umane. L’appoggio alle amiche e agli amici che versano il loro sangue oggi a Serekaniye non si colloca nella scelta di uno o più di questi fronti, ma nel sostegno all’alternativa ad essi, visti come un problema nel loro complesso. L’unica alternativa, in questo secolo, portata avanti con coerenza vera: quella che ottiene dei risultati.

Davide Grasso

Dal 2015 è attivo tra Europa e Siria in sostegno della Federazione democratica della Siria del Nord e nel 2016 si è unito alle Forze siriane democratiche per combattere l’Isis. È autore di New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela (Stilo Editrice, 2013), Hevalen. Perchè sono andato a combattere l’Isis in Siria (Alegre, 2017) e di Il fiore del deserto (Agenzia X, 2018).

10/10/2019 https://jacobinitalia.it

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