Dilemmi e travagli della CGIL

landini

I tempi attuali non sono belli per nessuno, neppure per il più grande sindacato di sinistra d’Italia e d’Europa.
A livello nazionale, il mondo del lavoro esce da almeno un ventennio di massacri sociali che ne hanno annichilito completamente le forze. La sinistra politica con il suo baricentro storico (il PD), ha perso qualsiasi credibilità presso i ceti popolari che fino a un decennio fa questa riusciva a rappresentare in qualche misura. Il disorientamento attuale nei settori del lavoro sta portando porta acqua alla crescita del consenso attorno a una nuova destra populista e autoritaria, dalle facili tentazioni golpiste “costituzionali” (alla turca).

Ogni anno che passa vede allargarsi una sofferenza sociale diffusa, derivata dal declino economico del paese, una volta quinta potenza mondiale, oggi fanalino di coda della UE, appesantito da antichi e nuovi mali rimasti insoluti: dalla vecchia questione meridionale alla crescita della malavita organizzata, dal clientelismo alla corruzione della pubblica amministrazione, dal disordine legislativo al sistema giudiziario lento e avvolto da antichi riti bizantini, dal ruolo conservatore delle classi economiche industriali e bancarie a una nuova classe politica sempre più ignorante e incapace.
In quarant’anni il paese che produce è cambiato: ha visto la crescita a dismisura del terziario (commercio e servizi) con il ridimensionamento del manifatturiero (oggi produttore 25% del PIL con il 20% dell’occupazione), sono scomparse le grandi concentrazioni produttive, si sono polverizzati i luoghi di lavoro, sono cresciuti i lavori precari, gli aumenti contrattuali si sono fatti sempre più modesti e dilazionati nel tempo, è cresciuto il fenomeno del lavoro povero e del part-time non volontario, cresce la popolazione inattiva, al disopra delle medie europee.

La Cgil è in tutto questo, in questi decenni, è stata un po’ alla finestra. Per certi versi ha subito questi processi, se non li ha accompagnati in alcuni casi. Il bilancio è negativo, la trasformazione di questi ultimi 20 anni ha prodotto un peggioramento delle condizioni di lavoro, del reddito e dei diritti del mondo salariato. Ci si può consolare che la tendenza è mondiale. Ma in Italia, date le sue caratteristiche peculiari, la tendenza è peggiorativa.

I presupposti politici di questo atteggiamento subalterno – se vogliamo – stanno nella svolta di Lama all’EUR nel 1978 con la chiusura politica della lunga stagione delle rivendicazioni “senza limiti” , (quando il salario era considerato da tutti una “variabile indipendente”), l’accettazione del senso di responsabilità con il quale si inaugurarono la politica dei “sacrifici” (per la salvezza del paese) e quella dei due tempi (prima i sacrifici e poi le riforme) . Si è poi passati per la sconfitta del Movimento degli autoconvocati col referendum sulla scala mobile dell’85 e l’eliminazione definitiva della scala mobile con gli accordi del ’94, che introdussero il sistema “concertativo” e un nuovo modello contrattuale. Con questi il sindacato rinunciava a degli aumenti salariali automatici “sicuri” in cambio di un maggior ruolo politico di controllo, sia sulle scelte di politica generale inerenti ai salari e alle pensione, sia sul grado di copertura dei contratti che sulla parte normativa del lavoro.

Passata la crisi del sistema Italia di metà anni 90, questo doppio potere di controllo del sindacato verrà ben presto rimesso in discussione dalle controparti sociali (Confindustria) e da quelle politiche (Governo). Nel 2007, dopo una pesante campagna mediatica orientata da Confindustria, si arriva a rimettere in discussione il modello di concertazione (contratti nazionali biennali economici e contratti nazionali normativi quadriennali) con la rottura definitiva di Cgil con Cisl e Uil, ben disponibili ad accettare le proposte confindustriali, allungando i tempi dei rinnovi contrattuali, adottando un indice calmierato (IPCA) per gli aumenti salariali, depotenziando il potere normativo dei contratti nazionali, dando più peso ai contratti di secondo livello con aumenti salariali legati alla produttività. La variabile salario deve diventare sempre più variabile dipendente del profitto…

Invece, sul terreno politico saranno i governi di centro destra, dalla seconda metà degli anni ’90 in poi, a farsi carico di rintuzzare nella prassi il ruolo del sindacato, con attacchi diretti (come sulle pensioni) parzialmente respinti con la mobilitazione dei lavoratori, e con altri più indiretti (come nella contoriforma del mercato del lavoro attuata da Sacconi).
Ma dovremo aspettare i colpi finali del governo Monti (su mandato UE) e successivamente del governo Renzi per ufficializzare la morte definitiva della concertazione.
Tre grandi interventi generali su pensioni, salari e diritto del lavoro verranno fatti senza alcuna consultazione dei sindacati firmatari degli accordi del ’94: la riforma Fornero su pensioni e mercato del lavoro, l’introduzione del cuneo fiscale sui salari col “bonus Renzi”, il Jobs Act con la liberalizzazione dei licenziamenti individuali.

Di fronte a questa rinnovato quadro da “vacatio legis”, la Cgil ha tentato disperatamente di percorrere due strade, parallele.
Sulle questioni “generali” rilanciando la concertazione a livello territoriale cercando di stringere accordi con gli attori istituzionali locali (regioni, comuni, città metropolitane) e contemporaneamente proporre grandi mobilitazioni nazionali, con pure degli scioperi generali, in perfetta solitudine e senza ottenere grandi risultati.
Sul fronte contrattuale ha puntato al veloce rinnovo dei contratti, cercando di ottenere aumenti superiori all’indice IPCA, e, poi, al bonus Renzi (80 euro). Su questo piano i contratti sono stati rinnovati con la firma della Cgil, tranne con i contratti metalmeccanico e del commercio.
Ma il lungo inverno dei rinnovi contrattuali dal 2007 non ha portato a grandi aumenti, ha si mantenuto di poco il potere d’acquisto dei salari, in alcuni casi incrementandola, ma non ha operato alcun processo di redistribuzione fra “profitti” e “salari”. Senza invertire la tendenza.
L’impasse sul modello contrattuale, superato nella prassi dei rinnovi

modesti dei CCNL, si è alla fine concretizzato con la firma del Testo Unico sulla Rappresentanza del 10 gennaio 2014, archiviando i vecchi dissapori con Cisl, Uil e Confindustria in cambio di un accordo che conferma i due livelli di contrattazione (nazionale e aziendale), rompendo – per la prima volta – con l’equivalenza delle firme (ogni firma vale per il peso reale di tessere e delegati eletti), e sancendo il vincolo del diritto di parola dei lavoratori in caso di controversie. Con la piccola, non indifferente, sbavatura della cancellazione delle dissidenze più o meno organizzate.

A questo punto del percorso la riscoperta dell’unità confederale è diventato quasi un mantra salvifico (a dire il vero praticato con grandi difficoltà sui livelli delle categorie e dei posti di lavoro..), ripreso nell’ultimo congresso con l’elezione di Landini segretario, rilanciato dallo stesso con la proposta del “sindacato unico” necessitato da strane ragioni riferite “venir meno” delle grandi barriere ideologiche del ‘900.

Se le ultime azioni della Cgil l’hanno salvata dall’isolamento nella quale Cisl e Uil avevano tentato di confinarla, approfittando dei diversi canali privilegiati con le controparti sociali e, soprattutto, con i governi di centrodestra, l’attuale quadro più sereno di intesa sindacale non può nascondere i problemi insoluti di questo paese di cui si è accennato all’inizio.

Le ultime mobilitazioni unitarie (del febbraio e del giugno 2019) hanno certamente portato a un tavolo aperto con il nuovo governo Conte 2 sui temi del fisco, delle pensioni, del Mezzogiorno e dello sviluppo.

Una trattativa che nasce però per l’estrema debolezza di questo governo che cerca nell’interlocutore sindacale una stampella al proprio fragile campare. E’ una trattativa che non vede ancora delle mobilitazioni di sostegno ma che dovrebbe richiamarle, viste anche le disattenzioni che sussistono su alcune crisi aziendali aperte al tavolo del Ministero del Lavoro e del MeF, e la disattenzione nell’affrontare la svalutazione in corso delle pensioni, bloccate da dieci anni.

Va riconosciuto assolutamente che la nuova gestione di Landini ha suscitato grandi attese e speranze fra i lavoratori. E Landini in tal senso si è speso con grande generosità, da un luogo di lavoro all’altro, da un cantiere ai centri di raccolta dei braccianti, sui treni, sui pulmann, fra i migranti. Evocando un modo più empatico di praticare l’azione sindacale, che ha giusto ribattezzato come “sindacato di strada”. Un modo di fare che non è proprio parte di una buona parte dei sindacalisti “impaludati”.

Landini, come il new-pope Francesco, ha ereditato un pesante fardello, dovendo da una parte rassicurare i propri sulla continuità sostanziale con Epifani e Camusso (i Giovanni Paolo e Benedetto del sindacato) e, dall’altra, riavvicinare i “dannati del lavoro” (le pecorelle smarrite..).
Certo, alla lunga, non basta l’appeal. Bisogna per lo meno rimettere mano alla riforma dell’organizzazione, come sta cercando di fare il papa con la sua macchina millenaria di governo dell’”ecclesia”.

L’eredità dell’epoca della concertazione e delle pesanti trasformazioni di questo paese sono sotto gli occhi e andrebbe preso di petto. Manca il lavoro, i salari non crescono abbastanza, vi è una redistribuzione dei redditi al contrario, dal più povero al più ricco, vi è una crescita esponenziale di lavoro povero
e di quello precario, il welfare e il lavoro pubblico sono sempre sotto attacco, soggetti a progressiva privatizzazione nelle regioni e nei territori, il sistema Sanitario non regge più, la scuola è da rifare (salvando solo vari pezzi di Università), sulla formazione e l’aggiornamento si investe poco, R&S è solo una sigla.

Questa cornice condiziona l’andamento delle iscrizioni, ma anche l’atteggiamento dell’organizzazione sindacale. I tassi di sindacalizzazione dei settori diminuiscono, non invertono la tendenza.
Il numero degli iscritti dai posti di lavoro diminuiscono e anche i pensionati iniziano a perdere dei numeri. La fidelizzazione tende a ridursi, per la prima volta i nuovi iscritti provengono più dai servizi che dal lavoro sindacale sui posti di lavoro.
Il “sindacato di strada”, in mezzo ai lavoratori, non sembra ancora presente ed operante, è un afflato iperuranico. Lo è sicuramente nelle vertenze difensive, per la difesa del salario e del posto di lavoro, ma ha ancora grande difficoltà a decollare sui nuovi lavori, fra i giovani, studenti, universitari, precari a vita, immigrati sfruttati ed umiliati.

Certo l’impegno di molti funzionari e delegati c’è, ed è fondamentale. Il lavoro del Nidil vede una crescita esponenziale degli iscritti come quello della Filcams (commercio e servizi).
Ma spesso e volentieri le categorie fra di loro non si parlano o non abbastanza. I delegati sullo stesso sito di lavoro, di categorie diverse, spesso non si
conoscono, figuriamoci se si coordinano. Ognuno appartiene a funzionari-chioccia gelosi del proprio operato. L’individualismo del “secolo” ha contaminato molti settori del sindacato rosso.

Non esiste nella prassi quella confederalità tanto richiamata nei documenti ufficiali o nei ragionamenti sul “sindacato di strada”, sulla contrattazione “inclusiva”, “di filiera”, “di sito”… Il coinvolgimento “democratico” dei delegati, la mobilitazione dei lavoratori, la generalizzare delle lotte, la sinergia fra più categorie, magari sullo stesso posto di lavoro o sullo stesso problema, sono ancora fenomeni troppo episodici. Dovrebbe essere l’abc del sindacalista di base, ma non lo è ancora. Così come una certa tradizione verticistica e divisionale dell’organizzazione non
favoriscono questi processi tipicamente “più orizzontali” e di “azione dal basso”.
Non c’è più capacità di lettura della realtà fra i delegati, come pure fra molti funzionari, sempre più dipendenti dell’imbeccata del segretario generale di turno.

Forse è anche per questo che la Cgil non orienta più come prima la massa dei lavoratori, pur rimanendo un interlocutore imprescindibile, nel bene e nel male, per la sua forza organizzativa..

Ma, a leggerla meglio, è una forza organizzata dal ventre molle. Con un corpo di funzionari che sono cresciuti in periodi di conflitto addomesticato, figli del tecnicismo della contrattazione, che in mancanza di un tavolo di trattativa vanno in panico esistenziale.
Dall’altra parte la vecchia guardia, la generazione cresciuta nel ciclo di lotte 60-70, con il suo patrimonio di battaglie ed esperienze sta andando in pensione. I nuovi 40 enni sono nati negli anni 80, hanno conosciuto solo l’orizzonte berlusconiano e, se va bene, i movimenti no global del XXI secolo. I trentenni sono rari, i ventenni, non sono ancora materia pervenuta.
Esiste dunque: un gap generazionale (l’età media dei funzionari è di 50anni), una decrescita degli iscritti, delle difficoltà formative e di esperienza dei delegati, specie di quelli nuovi, grazie alle quali, in mancanza di grandi lotte (alla cilena, tanto per capirsi), diventa difficile trovare quella riorganizzazione della Cgil, che tutti considerano necessaria, ma nessuno osa fare nella prassi, se non a piccoli passi e a tentoni.
Lenin parlerebbe di “vecchia mentalità burocratica”, “figlia dell’imperialismo grande-russo”, noi più modestamente, possiamo parlare di vecchia mentalità dell’epoca “concertativa”, assolutamente inadatta a far fronte al nuovo che c’è e a quello che sta arrivando.

Quindi ci vorrebbero tre rivoluzioni: una rivoluzione organizzativa, per adeguarsi ai nuovi processi produttivi e al nuovo mercato del lavoro, una rivoluzione culturale per adeguarsi alla nuova fase in cui domina l’algoritmo e il sindacato ha meno quel potere che poteva ancor avere vent’anni fa, un’altra rivoluzione riguarda le nuove o vecchie bandiere da agitare, su cui dovrebbe rilanciare mobilitazione e lotte.

Alcune sono state già tirate fuori, ma mai agitate abbastanza. Il nuovo statuto dei lavori (la Carta Generale dei Diritti) e l’idea di un nuovo piano del lavoro, fondato su una seria patrimoniale e la lotta all’evasione fiscale (temi questi due su cui, per timidezza, non si insiste mai abbastanza).

Un’altra infine, è stata solo accennata, come se fosse un borborigmo, nell’ultimo Congresso. Parliamo della riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (dunque l’aumento del salario orario). Che è l’unica risposta adeguata alla prossima rivoluzione dell’Industria 4.0 e della digiltalizzazione di massa.
Un obiettivo che strategico, che si traguarderà solo con una legge nazionale od europea, dunque con grandi mobilitazioni e battaglie dei lavoratori, nonché con un grande coinvolgimento politico e culturale di intellettuali e partiti.

Non che la crisi strutturale scompaia dall’orizzonte della CGIL, data la crescita del debito gestionale e l’affacciarsi del calo complessivo degli iscritti che oggi lambisce pure la corposa categoria dei pensionati. A questo si aggiunge l’innalzamento dell’età media dei militanti sindacali, l’inaridirsi del ricambio generazionale, che ormai avviene sulla linea dei 40 anni, il pensionamento progressivo della “vecchia guardia” espressa dal grande ciclo di lotte 60-70.

E’ anche il riflesso speculare del declino del paese (un dato che economisti, sociologi e alcuni imprenditori illuminati iniziano ad ammettere) e, comunque, della sua trasformazione economica, produttiva e sociale. Diminuzione del peso del manifatturiero (20-25% del PIL), dominanza del terziario, scomparsa delle grandi aggregazioni produttive, polverizzazione dei luoghi di lavoro, crescita dei lavori precari, aumenti contrattuali modesti e sempre più dilazionati nel tempo, aumento del lavoro povero, part-time e della popolazione inattiva al disopra delle medie europee, sono alcuni dei fattori che descrivono un quadro sociale non favorevole a un sindacato ancora strutturato come un’organizzazione del periodo fordista, con una forte propensione all’autoconservazione e la difficoltà al cambiamento.

Marco Prina

CGIL Moncalieri (TO)

Articolo pubblicato sul numero di febbraio del periodico Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

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