DIRITTO DI PAROLA, FEDELTA’ AZIENDALE E SICUREZZA SUL LAVORO

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Quando si parla di salute e sicurezza sul lavoro uno dei temi che non viene mai affrontato perchè non lo si ritiene pertinente è il diktat gerarchico, ormai imperante dopo decenni di deperimento dei diritti sindacali nei luoghi di lavoro, della fedeltà all’azienda e conseguente riduzione del diritto alla critica nell’organizzazione del lavoro.
A conferma di questa fase sociale e politica che nega i diritti costituzionali alla partecipazione dei cittadini alla vita politica e sindacale c’è la stessa interpretazione fatta dalla magistratura che conferma la legittimità del cosiddetto “obbligo di fedeltà” nei confronti dell’azienda.
L’articolo del codice civile che ne parla è il 2105. Il titolo di questo articolo è infatti proprio “Obbligo di fedeltà”. Il testo dell’articolo però elenca precisamente i casi in cui varrebbe questo obbligo. Infatti, esso così recita: “Il prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”.
Sulla base di questo articolo, interpretato dalle aziende come via libera alla discrezionalità d’impresa, sono sempre più frequenti i provvedimenti disciplinari da parte delle aziende contro lavoratori/trici e delegati sindacali che esprimono opinioni pubbliche dentro e fuori i luoghi di lavoro che concernono le condizioni lavorative, le vertenze le ristrutturazioni o sui problemi di sicurezza e appalti.

Come ulteriore segno dei tempi anche da parte della Corte di Cassazione c’è stata un’interpretazione estensiva quando è arrivata a sostenere che anche la semplice adozione di comportamenti in contrasto con le disposizioni datoriali o di superiori diretti è da considerare alla stregua di una insubordinazione e quindi passibile di licenziamento disciplinare.

Questi anni di pandemia hanno rappresentato il terreno ideale anche per le aziende pubbliche come la sanità e hanno visto numerosi dipendenti sottoposti a provvedimenti disciplinari per avere contestato la inadeguata gestione della pandemia, la carenza di dpi, i pesanti carichi di lavoro, i buchi negli organici di personale sanitario per affrontare le negligenze dirigenziali e le scelte politiche decennali – vedi l’assenza di un piano antipandemico aggiornato – dei governi e delle Giunte regionali che hanno portato le strutture sanitarie pubbliche a non essere in grado di affrontare adeguatamente i due anni pandemici.

Tantissimi sono stati i casi di provvedimenti disciplinari nei confronti di infermiri, medici e altri operatori sanitari che hanno denunciato le incapacità e l’ignavia delle dirigenze sanitarie e dei decisori politici pagando di persona il diritto di critica.
Hai assunto atteggiamenti irrispettosi della gerarchia aziendale, sei insubordinato perché non accetti ed esegui gli ordini dei superiori, anche se hai il dubbio o le prove che mettono in pericolo la salute e la sicurezza?, allora sei punito.
Il clima intimidatorio instaurato negli ultimi decenni, “nessuno osi parlare”, si abbatte anche, ovviamente, sui diritti dell’azione sindacale e porta al silenzio anche i Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza (RLS), in particolare quelli meno conflittuali eruditi alla logica concertativa facendo venir meno le loro prerogative nell’individuare le falle nell’organizzazione del lavoro e quindi dell’azione di prevenzione degli infortuni nei luoghi di lavoro.

Per questo l’obbligo di “fedeltà aziendale” dovrebbe indurre le Organizzazioni Sindacali a ripensare la scelta di delega alle aziende sull’organizzazione del lavoro e produrre una permamente campagna di denuncia che vada oltre l’indignazione e finalizzata alla cancellazione di norme che penalizzano fortemente l’azione conflittuale e rivendicativa nei luoghi di lavoro, mettendo in discussione la stessa capacità del sindacato di mettere fine, o perlomeno di fare una politica di “riduzione del danno”, al tragico numero di infortuni, mori e malattie professionali.

La tendenza a punire la condotta di un lavoratore, o lavoratrice, porta numerose aziende pubbliche e private a un vero e propio “spionaggio”, si assumono tecnici informatici e vigilantes per sorvegliare, e punire, la forza lavoro, si passano al setaccio i social, i profili per individuare commenti e giudizi che sconfinano invece nel controllo delle opinioni e del diritto alla parola funzionali alla salvaguardia della salute e della sicurezza sul lavoro.

Questo accade oggi nei luoghi di lavoro, anche la denuncia di gravi inadempienze che potrebbero mettere a rischio la salute e sicurezza di lavoratori\trici, cittadini\e utenti è diventata un crimine da perseguire, mentre è diventata una assuefazione all’ordine delle cose l’infortunio e la morte quotidiana sul lavoro, come quella predestinata delle malattie professionali.

Intanto è stata presentata dal Gruppo Parlamentare ManifestA una proposta di legge che determina le pene per i datori di lavoro responsabili delle morti sul lavoro. Iniziativa utile ma da sola insufficiente a modificare condotte illecite gravemente colpose se non andiamo a monte del problema: il diritto di parola sull’organizzazione del lavoro.

Franco Cilenti

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