Donne! È arrivato il Pnrr!

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(foto di Vincenzo Siciliano, da commons.wikimedia.org)

Mentre andava in scena l’ennesimo conflitto divisivo intorno al DDl Zan sull’uso delle nozioni di sesso e genere, le camere votavano in fretta e furia il Pnrr, ovverosia il piano nazionale di ripresa e resilienza che dovrebbe traghettare il nostro paese verso il superamento della crisi pandemica. Tuttavia, se sul primo tema, molto veicolato anche dai social all’indomani della performance di Fedez, si sono letti molti interventi provenienti dal mondo dei movimenti femministi e femminili, questo documento di 354 pagine che determinerà la storia economica e sociale dei prossimi anni sembra non avere appassionato più di tanto l’opinione pubblica e il femminismo. Eppure, all’interno del Pnrr il concetto di genere, usato ben 62 volte, è determinante rispetto all’impianto di fondo del piano, nonché trasversale a ogni missione.

La parola donna/donne è usata ben 61 volte, la parola “cura” 40 volte. Quest’ultima viene presa in considerazione come un «valore sociale», nonché come una questione di «rilevanza pubblica» che «non può essere lasciata sulle spalle delle famiglie», nonché distribuita in modo diseguale tra i generi, ma sempre associata all’idea secondo cui le donne, pur essendo statisticamente la maggior parte della popolazione, pur essendo più laureate degli uomini e anche con voti più alti, debbano essere sempre considerate come un «gruppo sociale vulnerabile» da includere con dispositivi specifici.

Fantastico, verrebbe da dire, il paese è diventato femminista, si è finalmente capito che senza il lavoro di cura e di riproduzione sociale, ribattezzato in pandemia come «lavoro essenziale», non si va da nessuna parte, se non fosse che dietro quell’incidenza costante di parole “bugiarde” e dietro l’uso e l’abuso della nozione di “parità di genere” si nascondono non poche contraddizioni.

Intanto bisognerebbe capire come mai il “genere” viene associato solo al sesso femminile, nonostante i generi siano due per la norma eterosessuale e svariati altri qualora sesso e genere non coincidano.

La nozione di “cura”, ad esempio, è stata molto studiata in sociologia e in filosofia soprattutto come postura legata al ripristino del legame sociale, come una nuova idea di giustizia sociale, nonché un’idea di politica basata sull’interdipendenza e sulla relazione attraverso cui i generi (al plurale) e le generazioni possono ridisegnare un nuovo modo di stare al mondo, ma di questa lettura nel Pnrr non v’è traccia. Per il governo, infatti, la cura è solo una forma di investimento infrastrutturale sugli asili nido, che vanno benissimo, ma non sono certo l’unica soluzione affinché ogni donna possa realizzare se stessa. Inoltre, vale la pena sottolineare anche un’altra incongruenza, o se vogliamo rimozione, piuttosto imbarazzante, ma al contempo indicativa.

Nel piano si usa spesso il concetto di inclusività e occupazione femminile, così come riportano i dati sull’aumento della disoccupazione femminile moltiplicatisi in pandemia, ma gli stessi non vengono mai correlati alla questione strutturale della scomposizione e della precarizzazione del lavoro: questione che precede l’emergenza da Covid-19. Infatti, con il termine «femminilizzazione del lavoro», presente in molte ricerche sociologiche, ma non nel Pnrr, si intende anche e soprattutto un comparto produttivo basato sul lavoro di cura, la cosiddetta “care economy” usata per coprire, capitalizzandola, la crisi del welfare e la progressiva inesigibilità dei diritti sociali di novecentesca memoria.

Nei comparti produttivi come il turismo, i “servizi alla persona”, la parasanità, la cura degli anziani, le cooperative sociali, l’associazionismo sono soprattutto le donne a lavorare e trattasi di lavori precari e sottopagati. In altre parole è il comparto a essere crollato in pandemia ed è solo per questo che è aumentata la disoccupazione femminile. Trattasi, dunque, di un dato strutturale legato ai processi di scomposizione del lavoro e della nozione di lavoro salariato a tempo indeterminato che questo piano non recepisce, anzi rilancia sullo stesso modello di sviluppo fallito con la pandemia.

Di base il Pnrr è un piano di investimento, tendenzialmente pensato per ridurre i diritti e strutturato su un modello di sviluppo centrato sull’estrazione del valore e sul rilancio del modello neoliberista fortemente determinato dal rapporto crescita-consumi che tiene conto solo dei mercati, bypassando totalmente i diritti fondamentali previsti dalla nostra Costituzione.

Il cosiddetto «prisma dei diritti sociali europeo», infatti, già tarato solo su crescita economica e inclusione, viene nominato solo sei volte nel piano e direttamente declinato a partire dal concetto di messa a valore del genere femminile per il tramite di dispositivi di inclusione e di indicatori di sviluppo tra cui il “gender index”. A pagina sette del piano, ad esempio, si esplicita l’idea di giustizia sociale presente in esso: «Un fattore essenziale per la crescita economica e l’equità è la promozione e la tutela della concorrenza.

La concorrenza non risponde solo alla logica del mercato, ma può anche contribuire ad una maggiore giustizia sociale (la concorrenza, non i diritti!, ndr)». Non a caso la parola “impresa” è nominata 239 volte nel piano, mentre la parola “lavoro” 179 volte e sempre accompagnata da dispositivi di inclusione (mentoring, counselor oppure competenza o skills, underskills, il «lavoro agile», l’apprendistato ecc.). Il lavoro salariato è citato zero volte. I lavoratori, non nel senso degli imprenditori, solo 34 volte.

Anna Simone

10/6/2021 https://www.dinamopress.it

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