È lucida quella vita che sa rifiutare la sua artificializzazione via rete

Paolo Bartolini, Lelio Demichelis: La Vita Lucida, Un dialogo su potere, pandemia e liberazione – Jaca Book Edizioni, 2021

Paolo Bartolini, analista filosofo, formatore e saggista e Lelio Demichelis, che insegna Sociologia economica all’Università degli Studi dell’Insubria, ci propongono con La Vita Lucida, Un dialogo su potere, pandemia e liberazione (Edizioni Jaca Book), un’interessante e approfondita analisi sulla lungimiranza, passione e poesia che dovrebbero guidarci per far fronte a questi momenti di difficoltà dovuti, non ultimo, alla pandemia. Per la nostra rivista, ne è nato uno stimolante confronto che vi proponiamo.

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Il vostro è un libro che fa riflettere. Di fronte all’accelerata impressa dalla pandemia a problematiche già presenti è un invito a restare lucidi. Cosa significa esattamente?

L.D.: Una vita lucida è quella capace di ragione (che non è la razionalità strumentale che riduce tutto a calcolo e a profitto in cui viviamo) e di responsabilità e di cura (verso gli altri e verso l’Altro, verso la biosfera e le future generazioni, oltre che verso se stessi come esseri molteplici e complessi); lucida perché capace di immaginazione e di progettazione e – per quanto possibile – di lungi-miranza, e poi di passione e di poesia, di saggezza e di gentilezza – tutto il contrario di ciò che ci impone il tecno-capitalismo. Lucida è quella vita che è consapevole delle scelte che vuole compiere e che non segue conformisticamente la massa, oggi digitale.

È lucida quella vita che sa opporsi con forza al nichilismo indotto/prodotto dal tecno-capitalismo – pensiamo alla crisi climatica e ambientale – in nome del profitto privato. È lucida quella vita che sa rifiutare la sua artificializzazione via rete e conserva per sé l’imperativo di restare umani e quindi pensanti e sociali rifiutando l’eteronomia dettata dal mercato, dalla rete, da un social, da un algoritmo. Lucida è quella vita che – rielaboro un pensiero di Romano Guardini – pensa se stessa con stessa e che rivendica il suo diritto di poter ritrovare questo pensare lucido anche nella solitudine, che non è isolamento dagli altri ma consapevolezza di sé per poi incontrare gli altri, ciascuno sapendo di essere diverso ma anche somigliante agli altri. Lucida è quella vita che vuole conservare l’essere come persona e non ridurlo a capitale umano come vorrebbe invece il tecno-capitalismo/neoliberalismo. Lucida è quella vita che vuole cogliere l’occasione della pandemia non per tornare a come eravamo prima ma per risolvere appunto quella crisi climatica e ambientale oltre che sociale (pensiamo alle disuguaglianze crescenti negli ultimi quarant’anni) che con la pandemia abbiamo dimenticato, ma che si stanno avvicinando a un punto di non ritorno. Mi rendo conto che è un obiettivo ambizioso – anche perché il tecno-capitalismo cerca in ogni modo di impedirci di pensare, portandoci oggi a delegare la valutazione e la decisione a un algoritmo; un sistema che ci vuole solo come soggetti produttivi e consumativi a produttività crescente e che per questo fine ingegnerizza incessantemente la nostra vita trasformando sempre più la società in una fabbrica – e già un neoliberale come Walter Lippmann scriveva esplicitamente, quasi un secolo fa, che il neoliberalismo è l’unica filosofia capace di far adattare l’uomo e la società alle esigenze della rivoluzione industriale (che è quanto di più illiberale e anti-democratico vi possa essere: produrre un uomo ridotto a doversi adattare a qualcosa che non deve controllare). E conseguentemente, se non rovesciamo velocemente, lucidamente e consapevolmente – ma anche con forza e ottimismo della volontà – questo sistema saremo travolti dalla sua essenza nichilista.

P.B.: La lucidità è una risorsa fondamentale per affrontare situazioni complesse e irriducibili a spiegazioni semplicistiche e lineari. Restare lucidi significa, innanzitutto, fare i conti con la realtà del momento, con le sue difficoltà, senza rifugiarsi nell’empireo delle astrazioni mentali e delle fantasie di evasione. Tuttavia, la lucidità non va confusa con la dissezione fredda delle vicende umane, operata in nome di una razionalità anaffettiva e di un pensiero critico avvelenato dal piacere della polemica fine a se stessa. Credo che la “vita lucida” sia quella che non chiude gli occhi dinnanzi ai pericoli del presente, coltivando piuttosto una visione profonda capace di intercettare nel coacervo delle contraddizioni correnti i segni anticipatori di una via possibile che conduca al bene comune. Lucidi non sono coloro che alimentano disincanto e disillusione (il cui esito è sempre la rassegnazione). Essi fanno il gioco del sistema e indeboliscono la speranza in una svolta culturale e politica ormai irrimandabile. Davvero lucidi sono quelle donne e quegli uomini che sviluppano un’attenzione paziente, vibrante e orientata alla giustizia, individuando nell’oscurità dei momenti peggiori le linee di faglia che si aprono e lasciano intravedere un altro mondo possibile. Un mondo che non vedrà mai la luce se rimaniamo nella nebbia della confusione generata dalle crisi molteplici innescate dal tecno-capitalismo e dal declino di una modernità che fatica a superarsi.

Restando sulla pandemia, accostata al concetto di sindemia, questa ha messo in evidenza, appunto, la preesistenza di processi morbosi che fanno emergere le fragilità dell’uomo. Al di là del virus, perché siamo così fragili?

P.B.: Siamo fragili ontologicamente, perché come umani coscienti dei nostri limiti e della mortalità è evidente che possiamo fiorire solo grazie alla relazione con gli altri. I legami ci tengono in vita e ci ricordano che il mito dell’autonomia perfetta è funzionale solo all’individualismo di mercato. Sul piano storico siamo ancora più indifesi per colpa dei dispositivi di potere che distruggono i sistemi di protezione che dovrebbero attenuare l’angoscia e creare le condizioni per una convivenza umanizzante. Le risorse del pianeta sono state ridotte a merce, il dio Denaro impone la sua legge testarda e insostenibile, l’Apparato tecnico pensa solo a funzionare in maniera efficiente e autoreferenziale. La devastazione degli ecosistemi e i cambiamenti climatici sono in gran parte il risultato di una dismisura sciocca e nefasta che non conosce pratiche di “cura” e tratta la materia organica e inorganica come un fondale grezzo da saccheggiare. La politica, totalmente asservita a progetti di corto respiro incompatibili con la democrazia, persegue da tempo obiettivi scollegati dal bene dei popoli. In mancanza di un principio di precauzione seriamente applicato, abbiamo lasciato via libera all’espansione di un modello di sviluppo ecocida che produce crescenti disuguaglianze e desertifica le anime. Pensando alla pandemia/sindemia in corso, dà scandalo il fatto che le istituzioni non mostrino alcun interesse per le sorti della medicina territoriale (fondamentale in chiave preventiva e per le cure domiciliari) e per la sanità pubblica massacrata da anni di tagli bipartisan utili solo a creare nuovi spazi di profitto per la tentacolare medicina privata. Restrizioni e vaccinazioni sembrano, nelle parole dei politici e delle élite sovranazionali, gli unici strumenti leciti per affrontare la complessità di un evento che in realtà va ben oltre la questione sanitaria. Mi pare onestamente una prospettiva miope e di cortissimo respiro, dettata da un’incapacità cronica di imparare dall’esperienza. Siamo così fragili, in definitiva, perché non c’è interesse – là dove si prendono le decisioni – per la tutela dell’ambiente, per il diritto alla salute, per la scuola pubblica, per il potenziamento dei trasporti pubblici e per il dibattito democratico. Ciò fa sì che siano i cittadini, dal basso, a doversi attivare con lo scopo di rimettere al centro della politica l’attenzione agli equilibri ecosociali, ai diritti del lavoro e a quelli civili, alla democrazia. Possiamo essere fragili e forti insieme se diamo priorità ai legami e alla qualità della vita, uscendo gradualmente ma in maniera definitiva da questa economia che sacrifica la dignità di molti sull’altare del profitto di pochi.

L.D.: Siamo fragili perché il sistema ci vuole fragili ma allo stesso tempo ci vuole forti e resistenti e resilienti e a prestazioni economiche crescenti. Il sistema tecno-capitalista ci ha imposto di rinunciare alla privacy – elemento forte del soggetto moderno – perché voleva i nostri dati per estrarre profitto privato per sé dalla vita intera dell’uomo e dalle sue relazioni sociali e questo ci ha resi trasparenti e quindi più fragili; il neoliberalismo ci ha fatto credere che la società non esiste (anzi, che non deve esistere) e che devono esistere solo gli individui, illudendoci così di una possibile e infinita libertà individuale, mentre in realtà ci voleva competitivi gli uni con gli altri, possibilmente low cost e quindi più fragili. Però questo stesso sistema che de-socializza l’individuo esaltandolo nella sua unicità/solipsismo, che lo precarizza nel lavoro e nella vita lasciandolo solo e fragile davanti al mercato e alla tecnica, gli ha poi offerto esso stesso anche l’amicizia, i like, i followers – e le community e i social (e mai parola fu più abusata e allo stesso tempo rovesciata di significato come social), per farlo sentire meno solo. Alla fine, durante la pandemia, quando occorreva essere responsabili verso gli altri e verso se stessi, questo individuo neoliberale sfrenato e irresponsabile e magari anarco-capitalista è andato in panico, la realtà confliggeva con la promessa dell’ideologia neoliberale e tecnica, si è sentito tradito perché limitato nella sua libertà irresponsabile; e da qui i No-Mask, i negazionisti anche davanti alle bare, le destre e gli imprenditori che gridavano prima l’economia e che poi hanno chiesto e ancora chiedono libertà (sic!) di licenziare. Perfetta sintesi del cinismo/egoismo irresponsabile dell’individuo neoliberale, ormai formattato/ingegnerizzato a adattarsi alle esigenze del capitalismo: soggetto competitivo ma a-sociale, quindi strutturalmente fragile, ma anche ancor più formattabile/ingegnerizzabile e quindi governabile. O ora, ecco che l’individualismo irresponsabile neoliberale rinasce nel vogliamo tornare come prima, spinto per ovvie ragioni dai mass-media e dalla politica, tecnocrazia di Draghi compresa, compreso il ministero della finzione ecologica (così definito, a ragione, da Greenpeace). Perché ieri si stava meglio di oggi, ieri ci si divertiva, c’era la movida e senza movida (ultima versione dell’industrializzazione capitalistica del divertimento) sembra non si possa più vivere. E nulla è più stabilizzante e rassicurante, per chi è stato reso fragile (dal capitalismo), del ritorno all’ordine (irresponsabile ma consumistico e narcisistico promesso dal capitalismo). È un movimento sociale di fatto reazionario (voler tornare all’ancien régime dell’oligarchia tecno-capitalista), oltre che irresponsabile in termini sociali e ambientali, però molto funzionale al funzionamento del tecno-capitalismo e alla sua riproducibilità.

Uno dei nodi centrali della vostra analisi è quello del potere. Termine legato, soprattutto nel passato, a scontri limitati da interpretazioni troppo vincolate ad ideologie. Nel testo, invece si parla di un essere “per” e non solo “contro”. Come declinare questo proposito?

P.B.: Nel libro esploriamo questo passaggio decisivo per un impegno civile ed esistenziale che voglia dare frutti e non impaludarsi nella critica fine a se stessa. Il punto chiave mi sembra quello di riscoprire un senso dell’intero che tenga insieme ragione e sentimento, poesia e coerenza, creatività e rigore. Il futuro non si può costruire mediante semplice contrapposizione (sebbene abbiamo molto chiaro chi siano i nostri avversari). Serve una forza positiva che incarni, qui e ora, nella forma di una testimonianza collettiva e singolare, quella vita consonante e armonica che vorremmo per i nostri figli e per le future generazioni. Abbiamo bisogno di sobrietà, di passioni gioiose, di un rinnovato piacere dei legami, di entusiasmo per la ricerca e per il dialogo tra persone e culture diverse. La parola chiave è “liberazione”, una liberazione che non si propone solo come antidoto al male dell’ingiustizia e al nonsenso del nichilismo pratico contemporaneo, ma che si vive come avventura, piacere della scoperta, armonia tra mente, corpo e anima, quindi tra pensiero, emozione e immaginazione. Tutto questo per liberarci da cosa? Dalla ristrettezza delle logiche di potere, dall’angoscia di essere privati del nostro benessere. E per seminare ogni giorno la possibilità di benedire questa vita tragica e meravigliosa. Sul piano economico e dell’impegno civile, l’essere-per, oltre a rivendicare il suo statuto nonviolento, coincide con la bellezza dell’immaginare altrimenti, con il mettere in pratica modi di essere, produrre e fruire rispettosi degli ecosistemi a cui prendiamo parte e capaci di restituire partecipazione e dignità a chi ne è stato privato. Essere-per gli oppressi, per gli ultimi e i penultimi, per tutte e tutti coloro che sognano giustizia in terra e credono che l’amore e il divenire siano flussi aperti da accompagnare verso una pienezza aperta e insondabile.

L.D.: Davanti a un potere – il tecno-capitalismo – che è contro la biosfera e contro la società (contro perché le sfrutta al massimo possibile), che quindi è contro il futuro e contro le future generazioni; davanti a un potere che è competizione continua e disruption incessante; davanti a un potere trasformista di se stesso e delle forme con cui si fa accettare da tutti noi come se fosse un dato di fatto ormai incontestabile, così impedendoci di immaginare alternative (quindi è contro la democrazia e contro il cittadino); davanti a un potere (economico e tecnico, ma anche politico) che è incapace di cura e di conservazione (che produce produttori che devono produrre e consumatori che devono consumare ormai per il solo gusto di produrre e consumare come imposto dal sistema industriale sempre per la propria riproducibilità) abbiamo il compito – coloro che hanno voglia di fare pensiero non solo calcolante ma anche pensante e meditante, cioè pensiero critico capace di generare un pensiero emancipativo dell’uomo e della sua soggettività autentica – abbiamo il compito di gridare che il re (il tecno-capitalismo) è nudo. E che occorre detronizzarlo – buttarlo giù dal trono su cui si è assiso (e pensiamo al potere delle imprese hi-tech di decidere tutto della nostra vita). Per farlo, ci serve una mente lucida capace di costruire una vita lucida. Altrimenti si realizzerà davvero quello che era il timore della prima Scuola di Francoforte, cioè (con Max Horkheimer) “la società si trasformerà in un mondo totalmente amministrato. (…) Tutto potrà essere regolato automaticamente (…), tutto si ridurrà al fatto di imparare come si usano i meccanismi automatici che assicurano il funzionamento della società”. Che è appunto la società calcolante-industriale/algoritmica di oggi. Dove, e peggio, viviamo integrati nelle e dipendenti dalle macchine (siamo usati, organizzati, gestiti, governati dalle macchine) – che è la totale negazione dell’umano e la sua totale alienazione, da se stesso e dal noi. Per ritrovare un pensiero pensante ed emancipante dobbiamo allora rileggere Marx, dobbiamo rileggere la prima Scuola di Francoforte (mai così attuale come ora), dobbiamo rileggere la Laudato si’ di papa Francesco (un livre de chevet anche per un non credente come me).

– A questo punto, appare ovvio chiedere quale ruolo possa avere l’etica in questa diversa concezione.

L.D.: L’etica a cui mi richiamo è quella capace di controllare quel Prometeo ormai scatenato e intrinsecamente e narcisisticamente irresponsabile che è il tecno-capitalismo; un’etica capace di farci responsabili verso la biosfera e verso le future generazioni, oltre che verso gli altri e verso noi stessi. È quell’etica che è premessa a una vita lucida come l’ho delineata nella mia prima risposta. Un’etica umana per una società umana non amministrata e automatizzata dalle macchine. Un’etica che provi a rovesciare quindi e in primo luogo quella razionalità strumentale/calcolante-industriale-capitalista (di cui la ragione neoliberale è solo una parte del tutto) diventata – dovrebbe essere evidente – totalmente irrazionale, ma che continua a dominarci imponendoci (ingegnerizzandoci) una sorta di coazione a ripetere l’irrazionale. Serve un’etica quindi diversa da quella della modernità, che si fondi su una ragione diversa. Appunto pensante e meditante. Un’etica fondata sul riconoscimento del concetto di limite (in opposizione alla illimitatezza nichilistica e alla volontà di onnipotenza del tecno-capitalismo), su un principio di responsabilità (imponendoci l’imperativo categorico di Jonas: “agisci in modo che le conseguenze della tua azione non distruggano la possibilità futura della vita”) e su un principio di precauzione (prima di introdurre una innovazione, valutarne per quanto possibile le conseguenze/effetti su ambiente e società), necessari per ri-attivare un nuovo principio speranza. Un’etica che sia anche una grande idea – un’idea, non una ideologia (che è la negazione del pensare responsabile e consapevole) – di cambiamento e appunto di emancipazione dal nichilismo compulsivo tecno-capitalista. Ovvero, non basta ripartire dal basso se non si ha anche un’idea alternativa – una utopia, perché no? – del mondo che si vuole costruire.

P.B.: L’etica, come disposizione al bene e arte del distinguere tra le buone azioni e le azioni nocive, è fondamentale in questa concezione. Senza una postura esistenziale saggia e misurata (al contempo profondamente appassionata) non è possibile sviluppare quella soggettività complessa ed ecologica di cui abbiamo bisogno per fuoriuscire dalla gabbia del sistema. Una nuova etica, come auspicava Erich Neumann, richiede esercizio costante e umiltà per fare i conti con le nostre ombre e per adottare il criterio gandhiano della coerenza tra mezzi e fini. È palese, infatti, che una trasformazione complessiva e autentica della società non possa darsi in assenza di una crescente maturazione psicospirituale da parte di cittadini e cittadine. Ci serve un’etica capace di mantenere il rispetto per gli avversari, anche quando li critichiamo duramente, a partire dalla convinzione che il malessere contemporaneo potrà tramutarsi in altro solo grazie a conflitti generativi e all’uso dell’intelligenza del cuore. Come ho già ricordato in precedenza, un cambiamento profondo nasce dalla testimonianza attiva delle persone, che rispondono alla chiamata della giustizia e si dedicano a creare un mondo giusto rifiutando la violenza e la manipolazione, entrambe cifre del potere e della sua logica di dominio.

In ultimo, un tema di non poco conto, come “sfruttare”, fino in fondo, questa opportunità che stiamo vivendo?

L.D.: Riprendo – aggiungendola anche alla mia precedente risposta sul potere – una frase di Herbert Marcuse, scritta negli anni Sessanta analizzando quella che chiamava società tecnologica avanzata e che oggi chiamo tecno-capitalismo, ma che a monte, come propria sovrastruttura ha, come quella di Marcuse, quella razionalità strumentale/calcolante-industriale (che è la negazione della ragione illuministica) e che ho criticato nelle mie risposte precedenti. Scriva dunque Marcuse che la società tecnologica avanzata “tende a diventare totalitaria nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali. (…). La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli. (…). Essa plasma l’intero universo del discorso e dell’azione, della cultura intellettuale e di quella materiale”. Di più: “La razionalità tecnologica è divenuta razionalità politica” e “le tecniche dell’industrializzazione sono tecniche politiche; come tali, esse pregiudicano la possibilità della Ragione e della Libertà”. Se questo è il sistema tecno-capitalista – il suo modo di essere potere totalitario/totalizzante – allora sembra quasi impossibile uscirne. Eppure, dobbiamo uscirne. La pandemia poteva/doveva essere l’occasione (l’ultima che abbiamo?) per uscire da questa razionalità totalitaria basata su una presunta razionalità del calcolo. Il sistema non lo vuole, perderebbe i suoi profitti. Vuole farci tornare come prima, magari con una spolverata di green-washing. Sta a noi dirgli di no. In nome – con Marcuse – della Ragione e della Libertà.

P.B.: Questo è il punto più delicato che il nostro libro circumnaviga pazientemente. L’idea è quella di affrontare in spirito di verità quanto sta avvenendo. Cosa significa? Innanzitutto, denunciare serenamente, ma con fermezza, l’insostenibilità del tecno-capitalismo e la debolezza congenita al modello neoliberale che domina da alcuni decenni larga parte del globo nelle sue versioni liberal e populiste/autoritarie. Dobbiamo cogliere quanto sta accadendo per allontanarci consapevolmente da quel “prima” che, in modo acritico, è stato invocato a gran voce durante il lockdown della primavera 2020. Non vogliamo e non dobbiamo tornare alla “normalità” distruttiva di una società ridotta a mercato, alle leggi non scritte della competizione universale, all’ottusità del desiderio addomesticato dai piaceri tossici dell’epoca digitale.

Bisogna invertire marcia, abbandonare la presunzione di una razionalità calcolante/strumentale e industriale che riduce ogni vita a plusvalore da estrarre a buon mercato. L’evento Covid-19, tanto più con la minaccia di altre e innumerevoli pandemie alle porte, può rappresentare una straordinaria opportunità per prendere consapevolezza non solo di ciò che non va, ma ancor più degli scenari complessi che abbiamo davanti e che sta a noi configurare in senso democratico riducendo drasticamente le diseguaglianze, prendendoci cura dei beni comuni, vincendo il virus del razzismo, del sovranismo nazionalista, del conformismo mainstream, ed educando infine le nuove generazioni a porsi in modo critico verso le nuove tecnologie adattandole a stili di vita finalmente sapienti e sostenibili. Per voltare pagina davvero è indispensabile reincantare il mondo senza rinunciare alla ragione, rimettere l’amore e la gentilezza al centro del nostro interesse, imparare dagli altri (e dall’Altro) a trascendere l’ego e i suoi capricci scoprendoci parti vive di un Intero che si esprime attraverso i nostri gesti concreti.

Se mi domandasse come si traduce tutto questo sul versante strettamente politico, le direi che è giunto il momento di ripensare in senso emancipativo le funzioni dello Stato (meno burocrazia, meno repressione e meno sudditanza al mercato; più welfare e più interventi vòlti a coordinare l’economia per fini sociali, come auspicato del resto dalla nostra Costituzione) e di sostenere la “trasversalizzazione delle lotte”, come scrive il filosofo Pierre Dardot ispirandosi al femminismo. La dimensione del Comune e la democrazia partecipata vanno coltivate per far sì che i rappresentanti politici si sentano controllati e pressati dal basso: il loro compito, infatti, è trasformare l’esistente insieme ai movimenti organizzati dei cittadini, non certo chiudersi nel circuito di una governance funzionale solo ai centri di potere neoliberali.

3/7/2021 https://www.exagere.it/

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