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Commenti di Mauro Biani

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    Blog, Culture — Novembre 9, 2015 8:10 am

    E’ morto a Torino, all’età di 88 anni, il sociologo Luciano Gallino. Professore emerito dell’Università di Torino, dove ha insegnato dal 1965 al 2002. Un ricordo di Renato Fioretti “Ho già vissuto, purtroppo, sensazioni di questo tipo. Sono quelle che si accompagnano al grande silenzio che ci circonda allorquando una persona a noi cara viene a mancare. E sono momenti in cui tutte le parole del mondo non sarebbero sufficienti a colmare un grande vuoto. Luciano Gallino non è più tra noi! Io che lo avevo apprezzato attraverso la lettura, accanita e ripetuta, dei suoi saggi, ebbi l’onore di conoscerlo personalmente, a Napoli, in occasione della presentazione de: “Italia in frantumi”; un testo autografato che, al pari di tutti gli altri, conservo come una reliquia. Il suo nome resterà legato a opere di grande valore cui si accompagnava un non comune senso “morale” del lavoro. Da questo punto di vista, quel breve saggio:”Il costo umano della flessibilità” rappresenterà, per sempre, la perfetta sintesi tra il rigore scientifico di un maestro e le complicanze umane che si accompagnano alla precarietà. Addio Luciano, da oggi i lavoratori e gli uomini di buona volontà sono ancora più soli” Napoli, 9 novembre 2015 Renato Fioretti

    E’ morto Luciano Gallino, sociologo contro il neoliberismo.

    Pubblicato da franco.cilenti

    Nel suo ultimo libro, Finanzcapitalismo, analizza la trasformazione del passato capitalismo produttivo nell’attuale capitalismo dei mercati finanziari. Una trasformazione durante la quale come nuovo criterio guida dell’azione economica viene adottata la massimizzazione del valore per l’azionista. In che termini questo paradigma ha dato vita a una nuova concezione dell’impresa, favorendone quell’irresponsabilità da lei già criticata ne L’impresa irresponsabile?

    La concezione dell’impresa è stata trasformata con grande rapidità, non solo sul piano teorico ma anche nella pratica della gestione e del governo delle imprese, soprattutto dopo gli anni Ottanta del Novecento, quando si è passati da una concezione che potremmo definire istituzionale dell’impresa – per cui essa è o dovrebbe essere un insieme di complessi rapporti sociali tra proprietari, dirigenti, dipendenti, fornitori, comunità locali – a una concezione prevalentemente contrattualistica. Secondo quest’ultima concezione, l’impresa viene intesa come un fascio, un insieme di contratti – stipulati con tutti gli attori che concorrono a vario titolo alla produzione – che hanno una precisa data di scadenza e che possono essere, quali più quali meno, rescissi in ogni momento. Si tratta di una delle manifestazioni della flessibilità che il capitale richiede, anzitutto per se stesso, affinché possa sempre arrivare là dove i rendimenti sono maggiori: dal momento che l’impresa non è nient’altro che un fascio di contratti, se una determinata parte contraente non soddisfa più certe esigenze di rendimento, quel contratto può essere eliminato e sostituito con un altro. Questo vuol dire inoltre che le imprese, perlomeno la maggior parte di esse, non hanno più alcun interesse ad essere localizzate in un determinato luogo, città o paese, e che la componente finanziaria diventa predominante anche nell’organizzazione, perché ciò che conta è il rendimento collegato al contratto.

    Il passaggio a una concezione contrattualistica si accompagna dunque alla progressiva finanziarizzazione delle imprese industriali. Quali sono le conseguenze di questo passaggio sulle condizioni del lavoro?

    Dato che l’ideologia neoliberale, e la teoria economica in cui essa si esprime, hanno codificato l’idea che il capitale deve essere altamente mobile e flessibile per poter ottenere il rendimento maggiore – un processo che è tipico delle transazioni finanziarie, delle borse e di altri luoghi in cui si scambiano capitali – come conseguenza anche il lavoro deve essere flessibile, oltre che le reti di fornitura e altri aspetti. In altri termini, la mobilità e la flessibilità del capitale comportano la flessibilità del lavoro: se il rendimento di un determinato impianto o di un insieme di servizi, meglio ancora se una certa unità produttiva, che di per sé può andare benissimo, sembra rendere un po’ meno in termini comparati rispetto ad un’altra che opera nello stesso paese o altrove nel mondo, quell’unità viene semplicemente chiusa, i lavoratori licenziati, dismessi, spinti al prepensionamento o lasciati al margine, sulla strada. Ciò è avvenuto in modo vistoso in diversi paesi, inclusa l’Italia, dove molti stabilimenti che sembravano funzionare piuttosto bene hanno ricevuto improvvisamente l’annuncio, da una lontana direzione, che avrebbero dovuto chiudere. Quando il capitale deve essere spostato altrove, i lavoratori diventano – come si usa dire – degli esuberi, visto che anche l’impianto deve essere chiuso o trasferito altrove. La chiusura degli stabilimenti rappresenta un caso estremo, ma ad esso si accompagnano le fortissime pressioni esercitate sui salari, con la funzione principale di massimizzare il rendimento del capitale, prima ancora che per incrementare la produzione.

    Lei ha scritto, appunto, che nel finanzcapitalismo la massima espressione della razionalità strumentale è il perseguimento del lavoro a basso costo, e in Italia sono state ampiamente applicate quelle politiche economiche che, orientate a comprimere i redditi da lavoro, hanno aumentato le disuguaglianze. Come ricorda nei suoi testi, l’Italia fa parte infatti con Stati uniti e Regno unito del gruppo di paesi sviluppati che presentano gli indici più elevati di disuguaglianza economica, oltre ad avere salari stagnanti, in termini reali, dalla metà degli anni Novanta. Quali sono le specificità del caso italiano?

    Per molti aspetti la situazione italiana è simile a quella di altri paesi, anche se presenta alcune connotazioni particolari. In Italia i salari sono bassi e stagnanti da una quindicina d’anni, per diverse ragioni. Tra queste, la tendenza al lavoro precario, fondato su contratti di breve o brevissima durata, che rispondono all’idea che il lavoro debba essere altrettanto mobile del capitale. Nel nostro paese, insieme alla chiusura di molti stabilimenti, abbiamo assistito inoltre alla riduzione considerevole degli investimenti in ricerca e sviluppo. Una riduzione tale che, tra i paesi dell’Ocse, l’Italia si colloca, se non all’ultimo, al penultimo posto per investimenti nel settore, a cui destina circa l’1% o perfino meno del Pil. Negli anni Sessanta e Settanta del Novecento, e fino all’inizio degli anni Ottanta, l’Italia poteva vantare un gran numero di centri di ricerca, anche privati, nel settore dei materiali, della chimica, dell’elettronica. Sono stati tutti praticamente chiusi, o trasformati in centri di ricerca con una produzione orientata secondo un orizzonte molto limitato, di 6 mesi o un anno, mentre la ricerca ha bisogno di orizzonti molto più ampi, di 3,5,10 anni. Tutti questi elementi hanno provocato una forte stagnazione della produttività in generale e della stessa produttività del lavoro e, collegata ad essa, un abbassamento dei salari medi per la gran parte del lavoro dipendente.

    Anche in Italia si è affrontato il problema della concorrenza internazionale puntando soprattutto sulla compressione del costo del lavoro e sull’appello fideistico alle virtù taumaturgiche della produttività, che la flessibilità avrebbe dovuto aumentare. Perché – ne Il lavoro non è una merce e altrove – contesta l’idea che l’occupazione flessibile contribuisca a elevare la produttività del lavoro?

    Per due motivi: innanzitutto perché bisognerebbe intendere la produttività, come in fondo è intesa dalle organizzazioni internazionali come l’Ocse, come valore aggiunto per ora lavorata. Si tratta dunque di una produttività che non dipende dal ritmo più o meno frenetico con cui il tecnico, l’impiegato o l’operaio lavora, ma dall’invenzione, dall’originalità del prodotto, dall’innovazione dell’organizzazione complessiva della produzione. Molti tra coloro che scrivono di produttività lasciano intendere invece che per produttività si debba assumere il numero di oggetti prodotti per ogni ora lavorata. È una concezione che rimanda al film Tempi moderni di Charlie Chaplin: quanto più velocemente si avvitano bulloni o si risponde alle chiamate dei clienti, tanto più cresce la produttività. Si tratta di una visione misera, e soprattutto tecnicamente scorretta, della produttività. Aumentare la produttività significa aumentare il valore aggiunto per ora lavorata. Ma per farlo ci vogliono ricerca e sviluppo, e investimenti in capitale fisso, oltre a un elemento che l’ideologia della flessibilità nega alla radice, la formazione, che deve avvenire prima del lavoro e durante il lavoro. Il guaio è che, in presenza di milioni di contratti di breve durata o di durata determinata, di 3 mesi, 6 mesi, al massimo 1 anno, le imprese non hanno alcun interesse nella formazione: se un imprenditore sa che un dipendente dopo 5 mesi non sarà più tale, cosa gliene importa della sua formazione? Cercherà di assumere qualcun altro, semmai più formato dalla scuola, usando un altro contratto. Direi dunque che la flessibilità è un nemico fondamentale della produttività per tanti motivi, ma nell’ambito di cui parliamo lo è soprattutto perché disincentiva alla radice la formazione.

    Oltre ai lavoratori flessibili, costretti – secondo quanto ha scritto in uno dei suoi testi – ad assumersi «la responsabilità del proprio destino lavorativo, percependosi come imprenditori di se stessi», in Italia ci sono milioni di persone che non riescono a entrare nel mondo del lavoro, o che ne sono stati esclusi: i disoccupati. In un articolo pubblicato su la Repubblica il 22 gennaio, sostiene che «ci sono due strade per creare occupazione. Una è quella delle politiche fiscali: lo Stato riduce le tasse alle imprese per incentivarle ad assumere. L’altra vede lo Stato creare direttamente posti di lavoro». Perché ritiene preferibile la seconda?

    In quell’articolo richiamavo un caso americano, che riguarda un forte intervento di politiche fiscali, un pacchetto di 787 miliardi di dollari tra riduzione di imposte, prestiti e facilitazioni di vario genere, operato nel 2009 dal presidente Obama per rilanciare l’economia in generale e, poi, per creare occupazione. Quel piano si è rivelato in gran parte un fallimento perché il legame tra la riduzione delle imposte o il premio per chi assume (le imprese erano incentivate all’assunzione con un riduzione di imposta procapite e non generale) era troppo blando e indiretto. Prima di assumere, le aziende tendono infatti ad aspettare, a vedere meglio cosa succede quanto a ordinativi futuri e ai crediti richiesti. Inoltre, quel piano presentava un inconveniente molto serio, che ne limitava la capacità di creare occupazione, perché gli incentivi venivano distribuiti a pioggia, senza distinguere tra i settori sollecitati ad assumere personale. Si poteva trattare di settori importanti dell’economia così come di settori molto meno importanti: se si assume un dipendente in una caffetteria o in un centro di ricerca, quei due posti contano allo stesso modo in quanto posti di lavoro, ma il risultato economico che se ne ricava a lungo termine è diverso. Per questo, credo che bisognerebbe ricorrere alla ricetta keynesiana, facendo in modo che sia lo stato ad assumere direttamente, ad operare – secondo una terminologia ampiamente diffusa nella letteratura internazionale – come datore di lavoro di ultima istanza. Mi rendo perfettamente conto che si tratta di una proposta che, con i tempi che corrono, per molti versi rischia di essere buttata al vento, ma rimane il fatto che davanti a 3,5 milioni di disoccupati, di cui almeno 1 milione di lunga durata, e di fronte a 3/4 milioni di lavoratori precari (che incominciano ad avere 35-40 anni, non sono più i ventenni speranzosi, e dopo cinque contratti precari attendono ancora di avere un posto stabile), di fronte a un dramma di questo genere per attirare lavori ci vuole ben altro che le semplici politiche fiscali. A questo riguardo ci sono due scuole diverse: una che punta alla spesa diretta da parte dello stato, un’operazione che possono fare quei paesi che, diversamente dall’Italia, hanno una Banca centrale che può creare il denaro necessario. L’altra che ritiene invece che si possano convertire vari tipi di prestazioni sociali in salari, creando con essi nuovi posti di lavoro in modo che i disoccupati trovino subito un’occupazione, piuttosto che assisterli in attesa di un altro posto che verrà chissà quando.

    Quando dice di temere che la sua proposta sia «buttata al vento» sembra alludere all’orientamento del governo: dalle notizie apparse sulla stampa, come giudica le intenzioni del governo Monti sulla riforma del mercato del lavoro?

    Mi pare che il governo si muova con una certa cautela. In ogni caso, quello che si annuncia non mi sembra vada in una direzione particolarmente innovativa. Anche l’idea espressa pochi giorni fa dal presidente del Consiglio, secondo cui occorrerebbe maggiore mobilità nel lavoro, tutto sommato è una vecchia idea che circola sin dagli anni Ottanta, e che è stata sostenuta soprattutto dall’Ocse con le sue famose classifiche sulla rigidità del lavoro, sia individuale che collettivo. I risultati sono interessanti: nell’arco di vent’anni l’Italia è diventata uno dei paesi con la minor rigidità nei licenziamenti individuali, molto minore rispetto alla Germania, alla Francia e ad altri paesi. In tempi di drammatica crisi, in tempi in cui milioni di persone sono in attesa di un posto di lavoro, non è con la mobilità che si può pensare che l’occupazione risalga. Torno a insistere su un punto: considerato che le risorse sono comunque scarse, sarebbe necessario investire il più possibile per creare occupazione in settori ad alta intensità di lavoro. In Italia si continua a parlare di grandi opere, di automazione, di produttività affidata alle macchine in settori in cui si producono soprattutto oggetti materiali. In questi casi, si punta sull’alta intensità di capitali, che richiede un numero di persone molto inferiore rispetto a quello che sarebbe necessario. Servono invece tante piccole e medie opere ad alta intensità di lavoro. Il che non significa che siano a basso valore aggiunto, perché, come dimostrano le piccole imprese e il mondo dell’artigianato, anche nei settori ad alta intensità di impiego della forza lavoro si creano forti valori aggiunti. Mi sembra che, sotto questo punto di vista, da parte del governo Monti non si sia visto nulla.

    Molti temono che il governo cerchi di «barattare» una riduzione della flessibilità, o quantomeno delle tipologie contrattuali, con l’articolo 18, che per Monti «non è un tabù». Lei già dieci anni fa, in un intervento poi raccolto ne L’Italia in frantumi, criticava il tentativo di abolire l’articolo 18 scrivendo che «il diritto al lavoro è come una diga, intesa a proteggere i più deboli dai più forti, e per far crollare una diga, si sa, può bastare praticare in essa un piccolo buco». Quanto è importante, oggi, difendere l’articolo 18?

    L’articolo 18 rappresenta uno dei punti più importanti, non dico il pilastro ma quasi, dello Statuto dei lavoratori, ed è inteso a proteggere l’integrità, la dignità, la persona del lavoratore. Se si smonta quel pilastro, è facile che si smonti anche tutto il resto: la rappresentanza sindacale, la libertà sindacale, il diritto a non essere fisicamente sorvegliati sul luogo di lavoro, e molte altre cose. Se non intendiamo considerare i lavoratori solo come mezzi di produzione, che si usano più o meno e che poi si mettono da parte perché non servono più, allora l’articolo 18 va robustamente difeso. Ma c’è di più: non esiste alcuna verifica empirica che l’articolo 18 impedisca a qualsiasi azienda di licenziare, senza contare che in questi ultimi anni più del 75% di tutte le nuove assunzioni sono avvenute con contratti di durata determinata e spesso di breve durata, comunque inferiore a 1 anno. Oltre ad essere un elemento della civiltà del lavoro nel nostro paese, non esiste alcuna prova che l’eliminazione dell’articolo 18 serva ad aumentare l’occupazione. Per quanto riguarda le proposte che circolano e che vengono attribuite ad esponenti di governo, ritengo positiva l’idea – che mi pare circolasse con più frequenza alcune settimane fa – di ridurre il numero di contratti dagli attuali 45-46 a 4-5, con un contratto «normale» dominante, unico, per il lavoro a tempo pieno e indeterminato. Tuttavia, sono contrario all’idea che un simile contratto sia preceduto da un lunghissimo periodo in cui il lavoratore non è protetto dall’articolo 18. I pretesti accampati per giustificare una decisione simile sono fuori luogo: si è parlato della necessità della formazione, della necessità per un imprenditore di imparare a conoscere il nuovo dipendente; si è parlato di periodi di «prova» di 3 anni o più. È assurdo. Tre anni sono un periodo insensatamente lungo, privo di qualsiasi razionalità; nemmeno nei confronti di un fisico nucleare c’è bisogno di tutto quel tempo per capire se conosce o meno il suo mestiere. Quanto al pretesto della formazione, non parliamone neanche: si parla di formazione quando si ha a che fare con un operaio specializzato o con un tecnico di prima categoria, mentre l’80% dei lavori hanno un contenuto professionale molto limitato, che nella maggior parte dei casi si impara in qualche settimana, supponendo che il lavoratore abbia la qualifica o lo studio adatto a tale lavoro. Non c’è alcuna giustificazione per un tempo così lungo per la formazione e la conoscenza reciproca.

    Come ricorda in uno degli articoli raccolti ne L’Italia in frantumi, la flessibilità e l’individualizzazione dei rapporti di lavoro «fa sì che tra la massa dei lavoratori si sviluppino interessi materiali e ideali profondamente divergenti e sovente conflittuali, che sarà sempre più difficile rappresentare su ampia scala». Quali strategie dovrebbero adottare i sindacati per riconquistare centralità politico-sociale e ritrovare la propria «fisionomia» in un mondo del lavoro così mutato?

    I sindacati si trovano dinanzi a un gravissimo ostacolo: la crisi economica, industriale e della produzione. In una situazione in cui ci sono centinaia di migliaia di persone in attesa di un posto di lavoro, il sindacato è di per sé in gravissime difficoltà. I periodi in cui i sindacati sono stati forti sono sempre stati quelli in cui si produceva molto, come i 30 anni del dopoguerra, quando c’era un’elevata produzione, una manodopera relativamente scarsa e un tasso di occupazione molto elevato. Allora il potere dei sindacati era grande. Oggi si trovano di fronte a una difficoltà oggettiva, che non si può ignorare. Il sindacato potrebbe essere più forte se fosse unitario, ma unitario non è. Sarebbe più forte, inoltre, se la legislazione sul lavoro in qualche modo continuasse a fondarsi sull’assunto che la libera e piena rappresentanza sindacale costituisce un aspetto irrinunciabile delle relazioni industriali. I primi, duri colpi al sindacato sono stati inferti dalla legislazione di questi ultimi anni. Per venire a un caso concreto, pensiamo per esempio al fatto che non esistono strumenti legislativi di impiego immediato per impedire che un sindacato molto rappresentativo, come la Fiom nel settore della meccanica, venga estromesso fisicamente dagli stabilimenti del settore. Questo indica che i sindacati non hanno sostegno né da parte della politica né da parte della legislazione. Dovrebbe esserci qualche norma che impedisca di far fuori tutti gli aderenti a un certo sindacato perché quel sindacato non ha firmato un certo accordo. È un’operazione che non andrebbe consentita. Eppure, non si è sentito un fiato: le leggi non ci sono, e non c’è alcun referente politico su cui i sindacati, sotto questo punto di vista, possano realmente contare.

    In un intervento incluso nell’opuscolo di MicroMega «Finché c’è lotta c’è speranza», scrive che «i temi della manifestazione dell’11 febbraio della Fiom toccano direttamente le sorti prossime della democrazia reale in Italia». Ci spiega meglio il legame tra la vicenda della Fiom e la tenuta del nostro tessuto democratico?

    Un aspetto centrale nella costruzione della democrazia italiana è stato il riconoscimento che i lavoratori avessero diritto ad una loro rappresentanza in tutti i luoghi di lavoro, il diritto che essa potesse essere liberamente votata e che la propria preferenza potesse essere liberamente espressa, oltre alla garanzia di non subire alcun tipo di discriminazione per il fatto di votare o affiliarsi a un sindacato piuttosto che a un altro. Se questo insieme di diritti, di libertà di associazione e di partecipazione, se tutto ciò viene meno, e se ciò avviene pubblicamente e con il plauso di una certa quantità di forze politiche, si tratta di una grave ferita alla democrazia, intesa concretamente come possibilità di partecipazione, di dire la propria, di veder rispettati nella vita quotidiana i propri diritti. Diritti che vanno oltre la libertà di andare a votare una volta ogni cinque anni. Bisogna inoltre tener presente un fenomeno preoccupante: le persone inclini a non andare a votare stanno diventando la maggioranza relativa del popolo degli elettori. È un pessimo segnale, e la vicenda della Fiom, l’estromissione di un grande sindacato, rischia di convincere molte altre persone che in fondo andare a votare e prendere la parola non serva a nulla, perché quando si decide del concreto dell’attività lavorativa o dei rapporti sociali chi ha il potere è in grado di dimenticarsi totalmente dei diritti che spetterebbero a tutti in base a una concezione formale della democrazia.

    La vicenda della Fiom rischia di diventare paradigmatica, perché rimanda alla sostituzione della contrattazione collettiva nazionale con la contrattazione aziendale. Su questo, anche il governo Monti appare in linea con il «modello Marchionne»: nelle Dichiarazioni programmatiche del Governo del 17 novembre 2011 si sostiene infatti di voler «perseguire lo spostamento del baricentro della contrattazione collettiva verso i luoghi di lavoro». Come giudica questo «spostamento di baricentro»?

    È una pessima idea per tanti motivi e per uno in particolare, suffragato da inoppugnabili dati di fatto: la contrattazione collettiva nazionale è stata per un certo periodo, e dovrebbe esserlo ancora, uno strumento importantissimo per la redistribuzione dei redditi, o per una più equa distribuzione dei redditi tra lavoro, capitale, rendite e altri tipi di reddito. Man mano che viene meno la contrattazione collettiva, viene meno anche il principale strumento che i sindacati possono adottare per evitare che la quota salariale – cioè la parte di reddito nazionale che va al lavoro – continui a diminuire. Le statistiche elaborate dall’Ocse raccontano che, in 20 anni, la quota salariale in Italia ha perso oltre 10 punti, scendendo più o meno da oltre il 60% a poco più del 50%, una perdita colossale, perché un punto di Pil vale qualcosa come 16 miliardi l’anno. Naturalmente questi dati non vanno attribuiti soltanto alla contrattazione, ma rimane il fatto che essa è uno dei pochi strumenti per contrastare questa tendenza e per decidere dove vanno a finire i redditi. Aumenti salariali o salari poco più alti significano qualche punto di Pil che va al lavoro, anno dopo anno. In molti paesi tra cui l’Italia, ma in particolare negli Stati Uniti, si è verificato invece un disastro sociale a causa della forte perdita della quota salariale sul Pil, e ciò vuol dire che il peso della contrattazione collettiva dovrebbe essere aumentato, non diminuito. Pensare di ridurlo significa porre le premesse per un ulteriore peggioramento nel rapporto tra quota salari e reddito nazionale.

    In un articolo dell’agosto del 2002, parlava dell’idea di un’alleanza sociale, culturale e politica tra lavoratori e no-global «come una prospettiva affatto realistica, forse perfino necessaria per tentare di salvare i principi, i valori e gli interessi tangibili e intangibili, materiali non meno che etici, degli uni e degli altri». Oggi, di quale alleanza politico e sociale c’è bisogno, per superare l’afasia della sinistra e la sua tendenza a interiorizzare i dettami ideologici del finanzcapitalismo?

    La questione è di portata internazionale, se non mondiale. Da un lato c’è la realtà dei movimenti che si sono affermati in questi anni e anche negli ultimi tempi (il movimento degli studenti, delle donne, degli indignati, ovviamente quello dei lavoratori, soprattutto di alcuni sindacati come sappiamo), e dall’altra c’è la realtà dei partiti. Questa forza collettiva, sociale, civile, che si esprime in forme molteplici e difficilmente prevedibili, dovrebbe trovare un collegamento con uno o più partiti, perché in un regime democratico gli slogan di piazza e le manifestazioni, anche se sacrosante, giuste, fondate su rivendicazioni concrete e corrette, devono diventare istanze parlamentari, trovando i voti e i deputati che le portino dentro al parlamento. Ciò a cui si assiste, invece, e io vi assisto con una certa tristezza, è che da una parte i movimenti pensano di poter fare molta strada da soli, mentre io non lo penso, perché dopo i primi mesi di vita effervescente spesso si spengono (in Italia negli ultimi anni lo abbiamo visto accadere almeno 5 o 6 volte). E che dall’altra i partiti continuano a manifestare un’incredibile ottusità dinanzi a movimenti che rappresentano istanze concrete, reali, che andrebbero tradotte in domande politiche da sottoporre a tutti gli elettori. Bisogna costruire un ponte tra società civile e partiti, tra movimenti e partiti, ma l’esaltazione transitoria da un lato e la profonda sordità o incomprensione dall’altro dimostrano che al momento non ci sono presupposti promettenti. Occorre un’ulteriore integrazione, un travaso di opinioni e di forze.

    Giuliano Battiston 

    8/11/2015 www.sbilanciamoci.info

    Intervista apparsa nello speciale sulla Fiom “Democrazia al lavoro”, a cura del manifesto e di Sbilanciamoci

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    Autore: franco.cilenti
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