Educazione alla corsa a ostacoli

Inizio a scrivere questo articolo nei giorni in cui si apre il concorso straordinario per l’assunzione in ruolo nelle scuole secondarie. Nei mesi precedenti, molte questioni legate all’istruzione scolastica – per fare una prima lista parziale e del tutto provvisoria: le misure di protezione sanitaria a scuola, la didattica a distanza (DaD) e la Didattica Digitale Integrata (Ddi), le nuove Graduatorie Provinciali per le Supplenze (Gps), le cosiddette «supplenze Covid, etc. – hanno attirato l’attenzione non soltanto dei lavoratori del settore, ma del dibattito pubblico più generale. 

Questo ha prodotto, da una parte, notevoli esempi di attivismo dal basso, ma anche un dibattito culturale e politico non di rado percepito come «lontano dalla realtà». È stato un dibattito, in altre parole, che non si è sottratto agli effetti del più generale fenomeno di «declino dei competenti» (uno dei primi testi che affronta esplicitamente l’analisi di questo cambiamento, forse epocale, è Radical choc di Raffaello Alberto Ventura, uscito nei mesi scorsi per Einaudi). Si tratta, in fondo, dello stesso processo che ha investito la ricerca scientifica fattasi «materia di talk-show» durante il primo lockdown (ma, a proposito della «confusione e plurivocità della ricerca scientifica», e oltre il mero spunto polemico offerto dai casi mediatici, a metà aprile 2020 si potevano già leggere riflessioni critiche di altro tipo).

Queste prime annotazioni rendono conto di un quadro epistemologicamente complesso, dove l’antinomia appena proposta (alto/basso) dev’essere riconsiderata all’interno di una visione d’insieme più ampia, per non cadere nei tranelli e nelle aporie di uno scontro che, ad esempio, è diventato sempre più materia di conflitto partitico, anziché politico, di divisione ideologica e di polemiche ad personam.

Si può optare, invece, per una strategia più chiara, e più decisamente materialista, cercando di analizzare le condizioni lavorative di chi, nella scuola, si trova quotidianamente a operare. O a voler operare – pensando alle caratteristiche del reclutamento docenti in atto – o ancora a non operare – se si considerano le difficoltà di organico ancora oggi diffuse, a più di un mese dall’inizio delle lezioni.

Partiamo dal reclutamento. Il nuovo concorso scuola, bandito il 28 aprile 2020, prevede due procedure per l’immissione in ruolo – straordinaria (requisito: almeno 36 mesi di servizio pregressi) e ordinaria (requisito: abilitazione e/o 24 cfu aggiuntivi) – e una esclusivamente propedeutica all’abilitazione. Il 22 ottobre 2020 ha infine preso il via il concorso straordinario per il ruolo, in una situazione epidemiologica e, di riflesso, lavorativa – per la maggior parte dei candidati – fortemente preoccupante. 

Questo dato ha spazzato via una buona parte delle polemiche che si sono registrate nei mesi scorsi sull’impronta più o meno «meritocratica» del concorso straordinario, originariamente basata sulla sua strutturazione formale: dopo un’iniziale proposta di circa 80 quesiti a risposta multipla in 80 minuti – apparentemente «facilitante» e in realtà aperta al rischio del «nozionismo», per usare una semplificazione piuttosto nota – si è arrivati a sei quesiti a tema, di cui uno in lingua inglese, in 150 minuti. Posizioni come quelle avanzate nei mesi scorsi, tra gli altri, da Christian Raimo, e che sono state oggetto di varie critiche, sulla necessità intrinsecamente meritocratica di un buon reclutamento sono state superate da un concorso che si sta rivelando una «corsa a ostacoli» pseudo-darwinista. Mi spiego meglio: l’eventualità dello screening epidemiologico per i docenti precari – assai probabile, in queste ultime settimane (e anche nelle prossime, anche con la didattica in presenza decurtata del 75%) – in attesa di tampone ne dispone l’automatica esclusione dalla procedura concorsuale. Non sono previste, al momento, prove suppletive, prassi che, invece, è da considerarsi ampiamente consolidata nel caso dei concorsi pubblici, e in particolare dei concorsi scuola, a ragione della molteplicità di ricorsi di volta in volta presentati. In buona sostanza, oggi la richiesta di screening (che può giungere anche all’ultimo minuto) impedisce la partecipazione al concorso.

A tal proposito, la posizione espressa a più riprese dal Ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina recita, volendo semplificare le varie dichiarazioni rilasciate, che «il concorso scuola non è diverso dagli altri concorsi pubblici in atto». Ciò è tecnicamente vero, anche alla luce dell’ultimo Dpcm, dal quale è stato infine stralciato l’originario divieto di organizzare nuove procedure concorsuali, a favore, invece, della loro prosecuzione, nel rispetto delle misure sanitarie vigenti. Tuttavia, ciò che pare opportuno notare è che nell’obiezione «ci-sono-anche-altri-concorsi» vi è un’implicita asserzione per la quale ogni critica in merito all’organizzazione della procedura concorsuale straordinaria equivale alla rivendicazione di un ingiusto privilegio rispetto a molte altre categorie di lavoratori. Non è un’asserzione né estemporanea né idiosincratica: da molti mesi, negli organi collegiali delle scuole, si agita lo spettro degli «altri lavoratori», rispetto ai quali sarebbe ingiusto avanzare richieste nell’ambito della propria relazione contrattuale. L’obiezione richiede sicuramente un’attenta valutazione, anche a ragione delle tantissime categorie lavorative chiamate in causa dall’ultimo Dpcm. D’altra parte, è un’obiezione che non regge – non dovrebbe poter reggere – in alcuna sede di contrattazione, o in situazioni simili, affinché queste ultime non siano ispirate a un gioco al ribasso, privato di ogni specificità legata alle singole dimensioni lavorative. 

Nel caso in questione, infatti, bisogna tenere in conto le condizioni lavorative dei candidati al concorso: docenti precari presumibilmente già incaricati, in base ai 36 mesi di servizio già maturati, e quindi a contatto giornaliero con centinaia di studenti; candidati, inoltre, che in una situazione di «semi-lockdown» sono costretti a viaggiare, spesso pernottando, in altre città, e a riunirsi poi con altri gruppi di estranei (certo distanziati, ma anch’essi provenienti, presumibilmente, da contesti scolastici, etc). E ancora, questi docenti precari sono indispensabili per l’attuale funzionamento quotidiano del sistema-scuola – come si è visto, in grande difficoltà – ma devono anche poter essere selezionati secondo procedure piene di rischi e contraddizioni, che hanno più a che fare con le statistiche epidemiologiche che non con il supposto «merito» individuale. 

Detto questo, i principali siti d’informazione scolastica – si può prendere ad esempio questo articolo, tra i tanti – si sono affrettati a sottolineare che l’affluenza dei candidati al primo giorno di concorso è stata dell’88%, con una percentuale di «rinunce» da considerarsi, al momento, «in linea» con altri concorsi. Pericolo rientrato? Forse sì – bisognerà aspettare la fine del concorso, per tirare le somme – ma se si considera la fisionomia dei docenti precari appena delineata, la riflessione sembra essere un’altra.

Un contributo decisivo è dato, in questo senso, dalla situazione delle cosiddette «supplenze Covid», regolarmente previste all’inizio dell’anno scolastico 2020/2021 e poi sanate da un recente maxi-emendamento al Decreto Agosto. Fino a quella data, i docenti assunti per supplenze brevi (comprendenti anche le supplenze «fino al termine delle lezioni», che «brevi» di fatto non sono) dalle nuove graduatorie di istituto – in subordine alla chiamata dalle nuove Graduatorie Provinciali per le Supplenze (Gps), la cui gestione è stata peraltro causa di molti equivoci e possibili ricorsi – potevano essere «licenziati per giusta causa» in caso di nuovo lockdown o, comunque, di sospensione delle attività didattiche in presenza. Una norma che non era affatto in contrasto con la fisionomia dei docenti precari delineata più sopra, accentuando, semmai, il lato della disposability (la condizione «usa-e-getta», per semplificare) dei lavoratori sulla loro, pur presente e pressante, necessità.

Anche in questo caso, la gravità della situazione, a un passo dal verificarsi concretamente (il maxi-emendamento è stato presentato e approvato nella seconda settimana di ottobre, cioè una settimana prima del Dpcm che prevedeva didattica a distanza almeno al 75%), resta invariata e costituisce un pericoloso precedente di contratto atipico nel mondo della scuola, che si va a sommare ad altri già esistenti – Messa A Disposizione (Mad) e co.co.co – e ancora lontani dal trovare le giuste protezioni contrattuali.

Queste due situazioni vanno considerate per la loro rilevanza specifica, evitando di inserirle in un gioco al ribasso, che le vedrebbe certo perdenti, in alcuni casi, nel confronto con altre categorie lavorative – sul breve termine, almeno – ma che, in quanto gioco al ribasso, finirebbe per aumentare quella che generalmente, e volgarmente, si chiama «guerra tra poveri» e che, invece, non è altro che l’aumento etero-indotto della conflittualità tra lavoratori. Sempre ed esclusivamente a svantaggio dei lavoratori stessi.

Sembra questo, allora, lo scenario che si delinea in questa lunga corsa a ostacoli che è la faccia nascosta del precariato scolastico, ossia la continuazione e l’approfondimento di quella frammentazione della categoria, già in atto da decenni. Alla frammentazione era stato originariamente contrapposto un nuovo «concorso scuola» che avrebbe dovuto «stabilizzare» i precari, ma che continua a presupporre la necessità e, insieme, la loro disposability delle docenze precarie. Per dirne una, tutt’altra cosa sarebbe stata una stabilizzazione per titoli e servizio dei docenti precari – com’è stato ripetutamente chiesto da più parti, sindacali e non – che avrebbe puntato i riflettori più sulla necessità di questi insegnanti che non sulla loro disposability: la logica di questa stabilizzazione non sarebbe stato certo un «privilegio», derivando, invece, da un’analisi più approfondita rispetto a quella che invece si demanda al feticcio del «merito».

La frammentazione dei docenti – docenti di ruolo e precari, sindacalizzati e non, ma anche docenti di ruolo variamente divisi e l’un contro l’altro armati perché diventati di ruolo con la Ssis, con Tfa, con Pas, con Fit, etc., oppure con il tale concorso che era più selettivo di quell’altro… – è, in fondo, un notevole danno per la stessa offerta formativa delle scuole. La stereotipata eppure sempre presente «frustrazione degli insegnanti», per dirne una, deriva anche da lì e continua oggi a riprodursi, in forme diverse, finendo spesso – sad but true – per danneggiare anche la stessa valutazione degli studenti.

Si tratta, infine, di un problema di pura didattica: parola al centro oggi di molti dibattiti, ma che non si risolve semplicemente nell’essere «in presenza» o «a distanza», né nel set di conoscenze e competenze richieste ai docenti nelle procedure concorsuali. Didattica è anche saper costruire, insieme ai propri studenti, la capacità di dare un’interpretazione del mondo, fatti sociali inclusi, che sia plausibile e approfondita – una visione nella quale non rientra solo «il merito» dei programmi ministeriali, ma anche quello, esistenziale, politico e culturale, della condizione lavorativa e della vita di ciascuno. 

Gli studenti hanno bisogno anche di questo – oltre al «civismo» che anima la recente re-introduzione della materia di Educazione Civica – perché, in fondo, è molto probabile che – magari nell’insegnamento, magari in altri settori – la corsa a ostacoli del precariato diventi poi la loro.

Lorenzo Mari

Insegnante precario, ha recentemente curato Zurita. Quattro poemi (Valigie Rosse, 2019) del poeta cileno Raul Zurita, tradotto da Alberto Masala.

4/11/2020 https://jacobinitalia.it

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