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    Blog, Cronache di Lavoro — Giugno 15, 2015 1:25 pm

    In Italia un congedo parentale lungo ha una ricaduta negativa sulle lavoratrici, qualora non venga il più possibile condiviso con il partner. Le donne avendo, infatti, retribuzioni di norma più basse, sono generalmente coloro che usufruiscono di tali congedi, rimanendo quindi più a lungo lontane dal mercato del lavoro, con una ripercussione negativa sulle proprie skill. Questo meccanismo alimenta anche fattori di segregazione orizzontale e verticale e più in generale di discriminazione.

    Essere genitori: I congedi in Italia e in Europa.

    Pubblicato da franco.cilenti

    congedi parentali Italia Europa

    Cosa accade in Europa

    La condivisione dei carichi è una delle premesse per l’esercizio del diritto alla cura. Dal 1992 con la Raccomandazione 92/241/CEE è stata richiesta una maggior partecipazione dei padri nella cura dei figli e la promulgazione di una legislazione che sia gender neutral, al fine di dare ai genitori che lavorano specifici diritti in materia di congedi parentali.

    Con la Direttiva 2010/18/UE le parti sociali europee hanno concluso un accordo quadro sul congedo parentale che ne estende la durata a quattro mesi per ciascun genitore e si applica a tutti i lavoratori e a tutte le tipologie contrattuali.

    Tradizionalmente i congedi tendono a esser visti e analizzati da una prospettiva che considera le donne le principali caregiver, prestando minor attenzione alla situazione dei padri. È, però, importante riflettere sui congedi correlati alle responsabilità di cura anche dal punto di vista dei padri, questo soprattutto nell’ottica del tanto auspicato innalzamento del tasso di occupazione richiesto dalla strategia Europa 2020.

    Grazie alla Direttiva 2010/18/UE, il congedo parentale viene definito come un diritto individuale, i singoli stati membri possono scegliere se mantenerlo tale o metterlo a disposizione di entrambi i genitori.

    Per quanto riguarda, invece, i congedi di paternità, non essendo prevista a livello europeo una legislazione in materia, non esiste una definizione comune. Sulla base di come i congedi di paternità sono implementati, a livello di ciascuno stato membro, essi sono un diritto specifico dei padri che ne possono usufruire contemporaneamente al periodo di congedo obbligatorio spettante alla madre o prima di usufruire dei congedi parentali. In riferimento a questi ultimi, ad esempio, alcuni stati membri prevedono la destinazione di parte dei congedi parentali ai padri in modalità non trasferibile.

    L’International Network on Leave Policies and Research classifica i congedi parentali nell’ambito di alcune categorie: congedi che possono essere divisi tra entrambi i genitori; congedi che possono essere utilizzati da un solo genitore; e congedi misti. In 14 Stati membri i congedi parentali possono essere divisi tra i genitori (tra cui Germania, Danimarca, Cipro). In 12 Stati membri si tratta di un diritto individuale (tra cui Belgio, Francia, Grecia, Italia), mentre in Portogallo, Svezia e Norvegia i congedi parentali comprendono due parti, una che può essere utilizzata in modalità condivisa e un’altra che non può essere condivisa.

    In merito ai congedi di paternità, lo studio Promoting uptake of parental and paternity leave among fathers in the European Union (Eurofound 2015), illustra che in tutti e 28 gli Stati membri sono previsti congedi di paternità con l’eccezione di alcuni, tra cui Austria e Germania. In termini di durata, i congedi di paternità variano considerevolmente dal giorno obbligatorio previsto dall’Italia ai 20 giorni previsti dal Portogallo, ai 30 dalla Lituania. Nella maggioranza dei casi i congedi di paternità sono retribuiti dal sistema di previdenza nazionale; in Romania e nei Paesi Bassi, in cui sono previsti rispettivamente 5 giorni e 2 giorni di congedo di paternità, la retribuzione spetta per intero ai datori di lavoro.

    Laddove i congedi parentali possono essere fruiti in modalità condivisa[1] l’utilizzo che ne fanno i padri è piuttosto basso. Nel caso in cui, però, il congedo sia connotato come diritto individuale e relativamente ben retribuito, i padri ne fanno un uso maggiore. Questo è confermato dalle legislazioni in materia nei paesi del nord Europa come Danimarca, Islanda, Norvegia e Svezia. Essi prevedono il congedo parentale come diritto individuale (quota papà) e un livello di retribuzione che arriva anche al 100% (Norvegia).

    Recentemente in alcuni stati membri sono state promosse iniziative volte ad accrescere l’utilizzo dei congedi parentali e di paternità. Nei sistemi che prevedono congedi parentali che possono essere utilizzati da entrambi i genitori, uno strumento ampiamente usato per promuoverne l’utilizzo da parte dei padri è quello di prevedere un bonus in termini di ampliamento della durata o in termini economici (Austria).

    Un’altra iniziativa attuata per incoraggiare i padri a utilizzare i congedi è quella di offrire l’opzione di usufruire del congedo parentale in modalità part time. Vantaggio di questa opzione è la grande flessibilità. I Paesi Bassi prevedono per legge il congedo parentale part time, il tempo pieno è possibile solo con il pieno accordo del datore di lavoro.

    L’utilizzo del congedo di paternità sta aumentando in quei paesi che hanno introdotto il congedo di paternità obbligatorio (Italia, Portogallo). Il congedo di paternità è comunque su base volontaria nella maggior parte degli stati membri. Grandi differenze tra i paesi UE esistono anche sulla lunghezza massima del congedo di paternità (i padri finlandesi hanno un congedo di paternità di 54 giorni, il più lungo in Europa).

    Quanto sin qui evidenziato, mette in luce degli effetti positivi: garantire il congedo parentale con una quota esclusiva per i padri promuove la paternità soprattutto se il partner non è in congedo nello stesso lasso di tempo, facilita il reingresso della madre nel mercato del lavoro dopo la maternità e dopo il congedo parentale.

    Nel momento in cui, quindi, si vengono a creare le condizioni per una distribuzione più equilibrata dei carichi di cura tra entrambi i genitori, si potrebbe contribuire all’aumento della partecipazione delle donne e degli uomini al mercato del lavoro.

    E in Italia, a che punto siamo?

    Lo scorso 8 aprile è stato presentato alla Camera lo schema di decreto legislativo recante misure per la conciliazione di esigenze di cura, di vita e di lavoro. Oggetto e finalità? Come si legge nell’art.1: “introdurre misure sperimentali volte a tutelare la maternità delle lavoratrici e a favorire le opportunità di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro della generalità dei lavoratori”.

    Dalla lettura del testo emerge, quindi, da subito un non totale allineamento con quelle che sono le indicazioni europee, oltre che uno spostamento di baricentro rispetto agli interventi precedenti in materia. Infatti, la legge n. 92 del 2012 presentava, seppur molto timidamente, una prima apertura al riequilibrio di genere nei carichi di cura, attraverso l’introduzione di uno sperimentale (per un triennio, con termine nel corrente anno) congedo di paternità obbligatorio e facoltativo da fruirsi entro 5 mesi dalla nascita del figlio. Nel Jobs Act, invece, torna al centro la tutela della maternità (negli obiettivi, infatti, come visto non si parla anche di paternità o più generalmente di genitorialità), nell’ottica di favorire per tale via l’occupazione femminile.

    Non stupisce, pertanto, che nel decreto sulla conciliazione vita-lavoro, vi sia la critica assenza di una novella inerente tale congedo, volta a riconoscerne il rango di previsione stabile, o in subordine almeno prorogandone l’attuazione, nonché aumentandone i giorni previsti, per renderlo più in linea con il contesto europeo, rispetto al quale l’Italia è al di sotto della media.

    Inoltre, non è peregrina l’ipotesi che per quanto sia positiva la prevista estensione della possibilità di fruire del congedo parentale fino a 12 anni del bambino, la mancanza di un incentivo economico o comunque di una previsione normativa, che induca a un utilizzo dello stesso il più possibile equo tra i genitori, possa ridurre la portata dell’intervento, soprattutto proprio in quell’ottica di promozione dell’occupazione femminile che si vorrebbe invece favorire.

    È comprovato da studi di settore, che un congedo parentale lungo possa avere una ricaduta negativa sulle lavoratrici, qualora non venga il più possibile condiviso con il partner. Le donne avendo, infatti, retribuzioni di norma più basse, sono generalmente coloro che usufruiscono di tali congedi, rimanendo quindi più a lungo lontane dal mercato del lavoro, con una ripercussione negativa sulle proprie skill. Questo meccanismo alimenta anche fattori di segregazione orizzontale e verticale e più in generale di discriminazione.

    In Italia, dove il lavoro non retribuito e i carichi di cura gravano maggiormente sulle donne, a nostro avviso è fondamentale, affinché gli interventi siano efficaci, promuovere l’aumento dei tassi occupazionali e la permanenza nel mercato del lavoro, favorendo un riequilibrio nei ruoli all’interno dei contesti familiari[2].

    NOTE

    [1] Cfr 10th International Review of Leave Policies and Related Research, 2014

    [2] Per saperne di più su come il riequilibrio dei carichi di cura sia fondamentale per il superamento del gender gap, si veda lo studio a cura delle autrici, I congedi a tutela della genitorialità nell’Unione Europea. Un quadro comparato per rileggere il Jobs Act, Worging paper ADAPT, 10 aprile 2015, n. 175.

    Valeria Viale, Rosita Zucaro

    www.ingenere.it/

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