Essere un medico ed essere madre

43 anni. Donna. Un figlio, un lavoro, un compagno. Nata ad Asolo, nel Trevigiano. Terza di quattro fratelli.

Mia madre (quinta di 8 fratelli, 5 maschi e due femmine) ha terminato la quinta elementare e poi è stata mandata al lavoro: versava lo stipendio ai genitori per costruire la casa da lasciare ai tre figli maschi. Mio padre, secondo di quattro fratelli maschi, è nato nello stesso paese di mia madre. Finita la formazione professionale pagata dai preti è stato spedito all’estero perché doveva mandare a casa le rimesse.

Da qui sono nata. Volevo essere madre come mia madre con tanti figli, volevo essere padre come mio padre con un senso di rivalsa sul mondo e la voglia di farcela da sola. Volevo essere donna ma come un uomo, senza dovere niente agli uomini.

Quando mi sono iscritta a medicina, mio padre mi disse che non aveva nessuna intenzione di continuare a mantenermi – ancora non gli andava giù che noi avessimo, grazie a lui, quelle possibilità che lui non aveva avuto. Per lui il nostro studiare era insieme una conquista e un’umiliazione. Per cui ho sempre lavorato nei fine settimana durante tutto il corso di studi. Per la verità ho lavorato anche dopo la laurea, fino all’esame di stato, che mi ha permesso di lavorare come medico.

Uno sceglie le direzioni della sua vita ma davvero non sa perché lo sta facendo. Penso che in medicina ci fossero insieme un che di cura, di materno e un senso di rivincita sul mondo, sul maschilismo, sulla povertà.

Qualcosa di mio, qualcosa che avevo ereditato.

Mi è piaciuto molto il corso di studi e tutta l’università che ho fatto senza difficoltà, mirando non alla lode ma a finire il prima possibile, per poter essere finalmente economicamente indipendente. Per dire, mi sarebbe piaciuto fare storia o filosofia, ma quelle sono cose che non danno da mangiare subito, non hai un lavoro chiaro che ti aspetta alla fine, e io avevo un sacrosanto psicologico bisogno della mia stabilità.

Al termine della laurea ho fatto il corso di medicina di base e l’ho trovato povero scientificamente, quindi mi sono iscritta alla Scuola di Specialità di Malattie Infettive quando ancora la maternità non era prevista, erano 800 euro al mese. Ho rincorso prima il titolo di specialista e poi il lavoro fisso (in malattie infettive), per potermi garantire la solidità economica, per farcela da sola anche avendo dei figli senza dipendere dal compagno o da nessun altro, ma volendo pure la realizzazione professionale. Quando nel 2009 sono uscita dalla scuola di specialità sono stata con un contratto a progetto per circa un anno, senza certezze, e poi ho iniziato a fare concorsi e a girare per l’Italia. Quello era un momento in cui avrei voluto dei figli, ma è difficile con un contratto a progetto, con i tempi determinati che scadono e ti lasciano nel nulla. Essere donna è diverso che esser uomo. Quando vai a parlare con i primari (che si sa, i concorsi sono pilotati), pretenderebbero che a 30 anni avessi dei figli di 20, così i figli non li devi fare più e sono già grandi e tu non chiederai permessi, congedi, malattie, maternità. Qualcuno osa chiedertelo, “lei ha in progetto una gravidanza?”. Qualcuno spera che tu sia sterile.

Poi il lavoro l’ho trovato, quello a tempo indeterminato. A 500 km da casa mia. Ero assunta da qualche mese e sono rimasta incinta. Lavoravo in malattie infettive, non ho avuto il coraggio di dirlo e quindi la pancia è cresciuta fino al quarto mese mentre facevo turni di giorno, di notte, mentre visitavo tubercolosi e Aids.

Quando l’ho detto mi sono presa la mia maternità, ma non sono stata sostituita. Quello che doveva essere il mio lavoro è gravato sulle spalle di altri. Blocco del turnover. Umanamente potresti anche essere felice per una che resta incinta, ma se poi ti trovi a lavorare due/tre fine settimana in un mese invece che uno, fai più pomeriggi, più turni di notte, allora ti rode. E rode al tuo primario.

In teoria il nostro contratto ci protegge: al rientro ho sfruttato i permessi allattamento, i congedi e le malattie. Solo che quando al compimento dei tre anni di mio figlio ho trovato un lavoro al nord vicino a mia madre e ho chiesto il trasferimento (dovevo cominciare a fare le notti e le guardie di fine settimana, il mio compagno non era sempre a casa e avevo bisogno di un luogo dove lasciare mio figlio tranquilla), il mio primario non mi ha più rivolto la parola, l’unica frase compiuta è stata “sei venuta qui a fare un  figlio e adesso te ne vai”. Lì avevo lavorato 3 anni e la decisione di andare via è stata perché lì non avevo famiglia allargata, anche con un solo figlio, se si lavora in due, è dura. Lo stato non si occupa di questo, e il tuo primario ti accusa di aver premeditato tutto, di aver preso il posto solo per avere la maternità pagata.

So che ha assunto dopo di me una persona a tempo indeterminato e le ha chiesto senza mezzi termini se avesse intenzione di fare figli: lei poveretta aveva già fatto Fivet, aborti e soffriva di endometriosi.

Quella che ha assunto successivamente non è mai stata a tempo indeterminato…aveva un figlio, voleva fare il secondo, guarda caso non è riuscito ad assumerla tramite concorsi.

Funziona così: prima decidi e poi fai il concorso dove assumi chi hai deciso di prendere. Non sempre, forse, ma molto spesso è così.

Quindi ho cambiato ospedale e sono tornata, dopo 10 anni, al nord (compagno e figlio al seguito). Il colloquio con il primario – il posto era mio in termini legali in quando ero stata pescata da una graduatoria utilizzata in altro ospedale – è stato questo “io vengo ma sto cercando di avere un altro figlio, se è un problema me ne sto dove sono…”. Non dovevo dirlo, non avevo nessun obbligo, ma non avevo voglia di qualcuno che mi volesse male per questo. La risposta del primario è stata “Lo capisco, grazie per la sincerità, vieni e son contento…solo non dirlo ai tuoi colleghi”.

Una settimana  dopo l’assunzione ho incrociato un altro primario che conoscevo, “ah lavori qui, beh non è che adesso gli fai la sorpresa del secondo figlio?” così a gratis, le uniche parole che mi sono state dette. Invece di “complimenti!”.

Io nel frattempo avevo iniziato il percorso Fivet, perché ‘sto secondo figlio proprio non voleva venire. Sono riuscita a fare tutto tra mille difficoltà (non ho detto niente a nessuno al lavoro ovviamente) chiedendo mille cambi pomeriggi, notti, fine settimana. Perché, per chi l’ha fatto, il tentativo di fecondazione assistita è tutto un punto di domanda: non sai che effetto avranno su di te gli ormoni, quando ovulerai, quante volte di dovranno fare l’ecografia, quando farai il pick up in Day Hospital e quando faranno il transfert, immaginate questa dinamica in un mondo come il mio, dove hai guardie e turni che vanno da un mese all’altro, dove devi comunicare i giorni in cui sarai indisponile per il mese successivo entro il 10 del mese precedente. Io ovviamente, poi, non volevo che nessuno sapesse nulla. Insomma, ho raggiunto l’apice quando sono andata a fare il turno di notte dopo il ricovero in day hospital lo stesso giorno, dopo l’anestesia e il pick up, in teoria non avrei dovuto nemmeno guidare la macchina. Poi ho preso giorni di ferie per gli ipotetici transfer… e poi nessuno è andato bene.

In tutto questo le battutine dei colleghi uomini non sono mai mancate: “come sei stanca stamattina, hai fatto festa stanotte, attenta a non farci la sorpresa, mi raccomando prendi la pillola”. Sembrano battute innocue, simpatiche, ma nessuno ne considera il peso psicologico. Perché è una guerra fra poveri, fra di noi che siamo sotto personale costantemente…nessuno è cattivo, no? Lo sanno tutti, dai, le gravidanze e i figli non vanno d’accordo con i turni in ospedale.

Una mia collega, in questi duri giorni di post Covid, è rimasta incinta del terzo figlio. L’ha comunicato subito perché non voleva rischiare. In tutto il reparto è iniziato un brusio di malumore per niente celato (terzo figlio, addirittura, dopo che ne aveva già due?), perché abbiamo dovuto cambiare tutti i turni e i fine settimana e le notti. Perché eravamo già stremati. Perché se fai una notte di turno al mese o un fine settimana al mese fare qualcosa in più non è così pesante, ma se sei già oberato e sai che la collega non verrà sostituita diventa un incubo.

La cosa assurda è che anche a me pesano quei turni in più, anche a me, che so quanto vorrei un secondo figlio e quanto considero un sacrosanto diritto poter andare in maternità tranquillamente tutte le volte che si vuole, tutte le volte che capita, anche a me quel terzo figlio della collega ha provocato un momento di scoramento.

Di diritto puoi stare a casa se tuo figlio ha la febbre…ma a me è capitato una domenica che ero di turno, non ho potuto portarlo, come organizzato, a mia madre che assume farmaci immunosoppressivi, la babysitter di domenica era già organizzata e mi ha mollato, il mio compagno lavorava fuori, la mia amica era in gita, mio fratello era via, i miei colleghi non hanno potuto sostituirmi…ho portato mio figlio di 5 anni nella stanza del medico di guardia, l’ho messo a letto, aveva la febbre a 40, e ogni tanto andavo a controllarlo tra un paziente e l’altro….

Essere donna non è come essere uomo, la parità dei sessi deve considerare la disparità delle necessità.

Giuliana Battagin

3/9/2020 http://www.ingenere.it

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