Etno-nazionalismi e liberal-imperialismo: le ideologie della guerra

Le guerre nascono in genere per un complesso di ragioni, siano esse politiche o anche più direttamente economiche, ma devono in un qualche modo essere giustificate e legittimate, almeno da quando la politica è diventata un fatto di massa. Si inseriscono quindi dentro una struttura ideologica in buona parte pre-esistente e vengono combattute a partire da una certa visione del mondo. Questa viene poi elaborata e adattata a seconda delle esigenze imposte dalla propaganda, che richiedono in genere una raffigurazione manichea dei soggetti in campo. D’altra parte quando si chiede di essere disposti a morire e ad uccidere è difficile farlo per qualcosa che sia meno della lotta tra il Bene o il Male o per la stessa difesa esistenziale della propria parte.

Le ideologie messe in campo risentono necessariamente del contesto globale nelle quali avvengono soprattutto quando, come nel caso dell’Ucraina, un conflitto che, dal punto di vista militare, è sostanzialmente localizzato e di portata limitata (ovviamente non dal punto di vista di chi lo vive e lo subisce) assume una dimensione globale per il coinvolgimento di soggetti che si trovano molto lontani dal teatro delle operazioni.

Qual è il contesto nel quale viviamo? Fondamentalmente la crisi del capitalismo globale a carattere neoliberista e a direzione unipolare da parte degli Stati Uniti che si è affermato dopo il crollo dell’Unione Sovietica. Una crisi iniziata una decina di anni fa. Le promesse di quell’assetto mondiale non si sono realizzate, al contrario i perdenti in molti paesi si sono rivelati essere in numero superiore ai vincenti, con lo sviluppo di oligarchie sempre più avide che si appropriano in misura crescente della ricchezza prodotta socialmente.

Crisi dell’”ordine imperiale liberale” dominato dagli Stati Uniti e non analizzabile solo in termini geopolitici ma che deve essere vista anche come crisi dell’assetto sociale sottostante che ha trovate due forme di reazione: una popolare-democratica (ad esempio in America Latina) ed una nazionalista-sciovinista. Come si collocano in questo contesto globale i tre soggetti principali del conflitto in Ucraina? Ovvero la Russia, l’Ucraina e gli Stati Uniti?

La crisi di quell’assetto ha prodotto, tra le varie reazioni, una crescita dei nazionalismi, spesso caratterizzati da una forte impronta etnica. Nazionalismi che, anziché avere un’impronta progressiva come è stato nella fase della formazione degli stati nazionali borghesi dell’800 e dei processi di liberazione dal colonialismo nel terzo mondo negli anni ’50 e ’60 e oltre, hanno assunto sempre più un profilo regressivo. In qualche caso hanno portato al rinascere di politiche di potenza di medio raggio (ad esempio la Turchia) e spesso a conflitti di tipo identitario che hanno messo in discussione gli assetti interni dei paesi (ad esempio l’India dell’estremismo induista di Modi).

Putin e il riemergere di vecchi nazionalismi russi

Nel motivare l’aggressione militare all’Ucraina, che nasce certamente da un conflitto pre-esistente ma che in quel conflitto ha introdotto un grande salto di livello in termini di violenza e di distruzione, Putin ha utilizzato argomentazioni diverse e non sempre coerenti.

Un primo livello è quello più razionale e che avrebbe certamente consentito una qualche forma di soluzione politica, contraddistinto dalla preoccupazione per la trasformazione, già in atto da alcuni anni, dell’Ucraina in una base militare organizzata in funzione di minaccia anti-russa. Il secondo elemento era quello della tutela della consistente minoranza russa e russofona, la cui identità e i cui diritti sono stati messi in discussione in modo crescente soprattutto dopo gli eventi di Maidan del 2014 e il consistente rafforzamento dell’influenza del nazionalismo ucraino estremista.

Queste due questioni che avevano un loro fondamento oggettivo sono state poi avvolte e offuscate dal recupero di temi del nazionalismo russo nelle sue forme più reazionarie. La messa in discussione dell’identità e dell’esistenza dello stato ucraino sulla base di ricostruzioni storiche di comodo, ha potuto dare soddisfazione ad alcune correnti esistenti nella società russa, ma certo ha reso più difficile la ricerca di una soluzione politica ragionevole dei problemi posti.

Esiste una lunga discussione tra gli specialisti occidentali su quali siano i riferimenti ideologici principali del pensiero di Putin. Si è data molta importanza a Dugin, che in realtà sembra assai meno influente di quanto si è voluto far credere, mentre spesso vengono citati pensatori come Ilin o Gumilev. In generale si tratta di teorici anticomunisti, portatori di una visione “essenzialista” dell’identità russa. Il nazionalismo russo non è del tutto omogeneo, tra chi mette al centro una possibile Eurasia, interpretata nello schema del conflitto di civiltà di Huntington, chi punta su una fratellanza slava, o chi vorrebbe ripristinare la Russia imperiale ma dimensionandola sui territori abitati dai soli russi etnici. Esiste anche una variante di nazionalismo “sovietico”, che rifiuta l’ancoraggio etnico ma cerca di salvare l’esperienza storica derivata dalla rivoluzione d’ottobre annegandola in una multi-secolare identità russa, nella quale si dovrebbero trovare affiancati in una comune visione i “rossi” e i “bianchi” che si sono combattuti nella guerra civile.

Lo stesso Putin oscilla tra il richiamo ai “valori millenari” della Russia, contrapposti a quelli dell’Occidente declinante, l’ammiccamento all’identità etnica e la riaffermazione di una vocazione se non globale della Russia, almeno di potenza a medio raggio, in grado di disporre di una propria area di influenza anche come garanzia dall’aggressività altrui. Complicato applicare una visione etnicizzante del conflitto in Ucraina nel momento in cui truppe spesso non russe come i ceceni di Kadyrov sono impegnati a combattere (con effetti distruttivi più che liberatori) in zone abitate prevalentemente da russi o russofoni. Putin ha risposto alla crisi di identità della Russia sofferta sotto la presidenza Eltsin, durante la quale l’Occidente ha cercato di imporre il proprio dominio, costringendo questo paese ad un ruolo di vassallo dominato da oligarchi pronti a svuotare le ricchezze del proprio Paese e a portarle in Europa (Londra in particolare) o in altre parti del mondo.

L’uscita di Lavrov sulle presunte origini ebraiche di Hitler, oltre a costituire uno ”svarione” incredibile per un responsabile della diplomazia ormai navigato qual è, al punto da costringere Putin alle pubbliche scuse con il primo ministro israeliano, ha messo in evidenza una visione inquietante del problema delle “identità”. Il punto non è se Hitler avesse o meno un non identificato ascendente ebreo, quanto l’idea sottostante alla formulazione di Lavrov secondo la quale le identità etniche sono frutto di trasmissione biologica e non di identificazione socio-culturale nella quale il DNA degli antenati non c’entra nulla.

Le difficoltà militari della Russia (anche se non crediamo ad un’intenzione originaria di occupare l’Ucraina e di farne uno stato vassallo, tanto sbandierata dalla propaganda occidentale), sono espressione di vari fattori, incluso quello di pensare di affrontare i nodi derivanti dalla crisi dell’assetto liberal-imperiale a dominanza statunitense basandosi su concezioni ideologiche arcaiche e reazionarie.

L’Ucraina tra “modello Netflix” e revanscismo collaborazionista

Il fatto che l’Ucraina sia indubbiamente vittima di un’aggressione militare (benché con qualche responsabilità propria nell’escalation del conflitto nell’arco di tempo che va dal 2014 al 2022) non esime dal dover esaminare criticamente il retroterra ideologico che è risultato predominante in questo paese nell’ultimo decennio.

Le frequenti esternazioni di Zelensky, attore prima che Presidente, a capo di un partito il cui nucleo centrale è costituito dagli sceneggiatori dei suoi programmi, sono costruiti con un’indubbia abilità comunicativa e sono fondamentalmente prodotti da esportazione. L’obiettivo è evidentemente di sollecitare i governi occidentali e le relative opinioni pubbliche a sentirsi emotivamente coinvolti nel conflitto e quindi ad avallare un crescente coinvolgimento militare a fianco di Kiev.

La narrazione, nelle sue pur evidenti esagerazioni e a volte anche falsificazioni storiche, serve a mobilitare attorno ad una lettura manichea del conflitto (il Bene assoluto contro il Male assoluto), nel quale il retroterra ideologico dominante a Kiev negli ultimi anni viene accuratamente nascosto sotto il tappeto. Cosa che per altro i media occidentali sono generosamente disposti ad assecondare.  Il giorno della vittoria, che era stato trasformato in “giorno del ricordo e della riconciliazione”, ha consentito a Zelensky di ricollocarsi sul fronte della lotta al nazismo per non lasciare questo argomento retorico nelle mani di Putin.

Ha diffuso un video girato convenientemente sul viale Khreshchatyk di Kiev, una delle arterie principali della città. Avrebbe avuto forse qualche imbarazzo in più se avesse scelto come location la non lontanissima via Stepan Bandera, dedicata nel 2016 a quello che il Times of Israel definì allora come il leader di un gruppo nazionalista che sollecitava gli ucraini a “distruggere” gli ebrei e i polacchi (aggiungiamo pure i comunisti e gli antifascisti). D’altra parte nel paese di Zelensky strade, stadi e quant’altro dedicati ai collaboratori del nazismo si sono moltiplicati dopo il 2014. Contemporaneamente le milizie politico-militari dell’estrema destra sono state incorporate non solo nell’esercito, ma anche nella polizia e nei servizi segreti (SBU). Un Influente quotidiano ucraino, in un lungo articolo nel quale cercava di ripulire l’immagine del battaglione Azov, paragonava i movimenti nazionalisti che nella seconda guerra mondiale hanno attivamente partecipato allo sterminio ebraico a fianco dei nazisti al “Sinn Fein” irlandese.

Il Presidente ucraino ha rappresentato la seconda guerra mondiale riconoscendo per fortuna l’importanza della lotta contro il nazismo, ma facendola apparire come se la Germania hitleriana avesse voluto scatenare la guerra contro un paese che in realtà non esisteva. I nazisti lanciarono la loro guerra contro l’Unione Sovietica e contro quello che chiamavano il “giudeo-bolscevismo”. E in questa battaglia trovarono il sostegno fattivo (anche se con rapporti non sempre idilliaci perché i tedeschi erano interessati ad utilizzare il movimento nazionalista secondo i propri obiettivi strategici) delle organizzazioni nazionaliste ucraine.

D’altra parte è difficile rappresentare la storia della seconda guerra mondiale per come è stata, in un paese che con la legge sulla decomunistizzazione, approvata nel 2015, oltre a cercare di impedire qualsiasi presenza politica legale alle forze di ispirazione comunista, ha provveduto ad una sorta di pulizia etnica retroattiva di qualsiasi riferimento a tutta la storia sovietica cambiando nome a decine di migliaia di strade e località.

Zelensky è stato eletto, oltre che per le sue promesse di lotta alla corruzione, anche perché è sembrato mettere un freno al potere dell’ultradestra nazionalista e all’operazione di ricostruzione di un’identità ucraina fondata sulla riabilitazione dei collaborazionisti del nazismo. Questo gli ha consentito di ottenere i voti dell’est contro il più radicale (in senso filo-occidentale) Poroshenko, ma gran parte delle sue promesse sono poi state rapidamente dimenticate.

Con lo scoppio della guerra ha proceduto a chiudere tutti i partiti di opposizione o comunque critici, ad arrestare i principali esponenti dell’opposizione, a rafforzare il controllo sui mezzi di comunicazione (già iniziato nel corso del 2021) e ad approvare una legge che cancella gli ultimi diritti dei lavoratori consegnandoli al libero arbitrio dell’impresa.

Dietro Zelensky, quanto pesa oggi l’oltranzismo nazionalista ucraino? Un nazionalismo che ha avuto sempre problemi ad imporre la propria egemonia al di fuori delle zone occidentali (Leopoli, Ternopil) dove è forte l’estrema destra dalle non nascoste simpatie neonaziste, perché fondamentalmente espressione di minoranze. Un nazionalismo inoltre che ha sempre cercato di imporsi contando sul sostegno militare esterno (volta per volta gli Imperi centrali, la Polonia, la Germania nazista o i servizi segreti occidentali) e al quale non si deve nemmeno la raggiunta indipendenza statale.

Un’identità ucraina separata è stata riconosciuta per la prima volta dai bolscevichi (mentre molto più ostili erano i moderati al potere in Russia dal febbraio all’ottobre del 1917) e la stessa proclamazione dell’indipendenza è avvenuta per decisione della maggioranza comunista del parlamento di Kiev nel 1991. Da questo punto di vista, per il nazionalismo oltranzista, la guerra è la prima vera occasione per cercare di fondare un’identità ucraina depurata dallo storico intreccio con la storia russa.

L’inconfessabile euforia di Washington

Ha titolato il parigino Le Monde, che pure si è schierato senza troppi stati d’animo con le posizioni occidentali nel conflitto, sulla “inconfessabile euforia” degli ambienti della capitale americana per l’andamento della guerra in Ucraina.

Qualche giorno prima avevamo ascoltato il Presidente Biden, in visita alla fabbrica dove si producono i Javelin, i missili anticarro inviati in grande quantità all’esercito ucraino, sollecitare l’entusiasmo degli astanti per l’abbondanza della produzione militare che garantisce “buoni posti di lavoro” ai cittadini degli Stati Uniti.

Queste notizie ci dicono alcune cose sull’ideologia americana, soprattutto quella che orienta questa amministrazione in carica. Innanzitutto che l’idea, acquisita in Europa, e certamente in Italia, secondo la quale la guerra deve essere rimossa come strumento di regolazione dei conflitti internazionali, non appartiene alla cultura dominante degli Stati Uniti. La guerra è uno strumento normale e sempre utilizzabile per gestire i rapporti di forza fra Stati.

Tanto più se si riesce a fare la guerra senza mettere in gioco la vita di cittadini americani. Per questo si è sviluppata la tecnologia militare degli Stati Uniti (droni, missili e altre armi controllate da remoto) ma si è anche aperta la strada al ritorno dei “mercenari” o contractor. In questo caso la morte in guerra può essere conteggiata tra gli incidenti sul lavoro.

L’altro elemento centrale della politica statunitense è l’idea di dover essere il Paese guida del mondo, quello che non dovrebbe più avere nemici di pari livello. Indebolire permanentemente la Russia è l’obiettivo dichiarato anche per evitare di trovarsi con due nemici strategici contemporaneamente (l’altro, va da sé, è la Cina). Gli Stati Uniti a questo fine utilizzano sia la potenza militare che il controllo di alcuni snodi finanziari (preminenza del dollaro, sistemi di trasmissione del denaro e di gestione del commercio) per garantirsi un potere globale di fatto, che prescinde anche da ipotetici organismi internazionali condivisi e superiori agli Stati.

I due elementi insieme, legittimazione della guerra come strumento ordinario di regolazione dei rapporti di forza fra Stati (se non la guerra in atto almeno quella minacciata e sempre incombente) e la rivendicazione di un primato mondiale come potenza dominante e regolatrice, non rappresentano una garanzia di un assetto pacifico e ordinato del mondo, ma al contrario presentano un rischio crescente. Tanto più quando il peso reale dell’economia e della tecnologia degli Stati Uniti non è più così strutturalmente superiore al resto del mondo come invece è stato nei decenni successivi al secondo conflitto mondiale.

Il discorso di Biden in Alabama indica anche come attorno alle armi e alla guerra, l’establishment statunitense cerchi di costruire un consenso anche tra i ceti popolari subalterni. D’altra parte ricordiamo che a battersi per la guerra in Vietnam, contro gli studenti, furono per diversi anni i sindacati americani. La supremazia degli Stati Uniti, rappresentata ideologicamente come una missione di ispirazione divina destinata a difendere il “mondo libero” contro i suoi nemici, è anche una condizione per garantire i livelli di vita interni soddisfacenti a quello che viene definito come il “ceto medio”.

Biden aveva effettivamente promesso una nuova politica estera per questo “ceto medio” malmenato o quanto meno impaurito dalla globalizzazione. Si poteva pensare e sperare che essa si fondasse soprattutto su nuove politiche keynesiane in grado di rilanciare politiche di intervento pubblico tali da ridurre almeno in parte le diseguaglianze sociali esistenti. La competizione (per quanto propagandistica) tra “mondo libero” e stati autoritari poteva avvenire sul terreno della capacità di rispondere ai grandi problemi globali e ai bisogni sociali elementari all’interno. Ora vediamo che, anche per le sconfitte subite da alcune delle proposte economiche di Biden al Senato, probabilmente l’intenzione è di portarla sul terreno della militarizzazione della politica e di una nuova contrapposizione globale.

A Washington l’euforia avanza. Che la guerra continui.

Franco Ferrari

11/5/2022 https://transform-italia.it/

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