FASE 3: LE DIFFICOLTA’ DA BRUXELLES A ROMA

Il malato europeo

Le misure promosse dalla Comissione Europea, dopo il consueto vertice Merkel-Macron, hanno sdoganato il Recovery Found producendo le proteste onerose dei paesi “virtuosi” e del gruppo di Visengrad, i mal di pancia a Weidmann della Deutsche Banck e l’amara soddisfazione di paesi come la Grecia che delle vecchie politiche neoliberiste dei tedeschi sono stati il primo agnello sacrificale.
E’ una vittoria del vanesio Conte e dell’Italia?
Assolutamente no. In questo momento Italia e Spagna sono da salvare a prescindere dei governi che li guidano e delle loro storiche incapacità: fuori questi due dall’Unione, Europa economica crollerebbe distruggendo le singole ambizioni nazionaliste francese e tedesca.
Qualsiasi politico sensato sa che senza il sistema del Mercato Unico europeo la Germania vedrebbe il suo PIL dimezzato, mentre la Francia verrebbe distrutta dall’inflazione, dalle rivolte sociali per essere ridimensionata politicamente.
In un mondo devastato dalla recessione più grave dal 1929 solo gli stati di stazza continentale riusciranno a non affogare, dovendo tener testa come entità politiche- economiche agli appetiti dei grandi player multinazionali e ai giochi speculativi dei mercati finanziari.
Ancor più di ieri, solo un’unione politica del vecchio continente può rallentarne il suo inesorabile declino. Il problema è che questa unione è oggi duramente contrastata da USA, Gran Bretagna, Cina e Russia. E non è così perseguita nemmeno dalla maggioranza dei paesi europei.

Guardiamo allora cosa accade.

Gli USA sono ormai nella fase di perdita della loro leadership economica sul mondo. Gli rimane la supremazia aereo-navale che cercano di brandire come un manganello sul resto del pianeta, usandola contro quelle nazioni o alleanze di paesi che ne rimettono continuamente in discussione il ruolo, per contro terzi (Corea del Nord e Iran, ad es.).
La guerra commerciale americana contro la Cina e l’Europa, le minacce militari sempre più pesanti verso gli alleati della Cina e della Russia, segnano pesantemente questo contesto di crisi economica recessiva provocata dal Covid.

Beninteso, il Covid ha accelerato quello che già stava accadendo. Ci stavamo tranquillamente avviando verso una fase di stagnazione lunga e generalizzata, in ragione di unaingombrante eccedenza di liquidità (o di capitali) nel mondo.
Eccedenza che va ben oltre la classica massa di cartamoneta circolante a livello globale e di quella accumulata nei caveaux delle banche, sovrastandola a livello nominale o di contabilità.
In termini classici diremmo che siamo in piena crisi di sovraccumulazione, non risolvibile con alcuna politica economica fin qui praticata, né monetarista (stretta del credito con l’aumento degli interessi), né keynesiana (apertura del credito con l’azzeramento degli interessi e l’aumento della cartamoneta circolante).
In un caso e nell’altro i capitali in abbondanza stagnano. Non vengono investiti sufficientemente nell’economia reale e questa, rimanendo privata del suo alimento principale, gradualmente si ferma.
Infatti i capitali in questo periodo si tengono ben lontani dalla produzione e dalla circolazione delle merci. Prediligono i mercati finanziari, i giochi di borsa, gli investimenti fruttiferi di lungo o medio periodo, sempre più redditizi del concreto rischio di impresa.

La virtù della ricetta keynesiana rimane la migliore, poiché permette di allungare la vita gravosa di un malato senza mai guarirlo del tutto, sperando che qualche avvenimento esterno “ne salvi la vita”. La politica monetarista invece uccide subito i pazienti, liberando il campo a favore dei più sani. E’ una politica tipicamente darwiniana, che fa numerosi morti
e feriti.
L’Europa si barcamena fra questi due estremi.
Oggi sceglie, per la prima volta, una politica keynesiana di grandi investimenti a fondo perduto, dando un segnale preciso agli investitori privati con il salvataggio pubblico dell’economia dell’euro e del mercato unico, facendo finta di essere una sorta di stato unico che non è, e che forse non lo sarà mai.

I soldi buttati sul tavolo sono tanti, ma non sufficienti per uscire contemporaneamente dal trauma del lokdown e perseguire grandi riforme strutturali (green economy, rivoluzione digitale, alleggerimento normativo e burocratico dello stato, giustizia, scuola e sanità).

Con quei soldi ci si ferma subito all’antipasto.
Conseguentemente il passo da gigante dello gnomo si ferma sulla soglia della politica.
Hai voglia ad invocare Khol o Mitterand (qui ci vorrebbe la forza di un Federico II o di un Napoleone, oppure la sapienza certosina di un Cavour) quando a breve saremo costretti a rimpiangere Merkel e Macron. Giusto per dire che queste misure sono pensate per durare il tempo dei brevi mandati dei governi e dei parlamenti che le hanno ordinate.
Dopo di che rischieremo di finire nelle mani del nuovo che avanza. Sperando che sia la sinistra europea della link tedesca, dei gruen e dei movimenti, non i Le Pen, gli Orban e i Salvini.

Se dunque il quadro che si prospetta è questo, è abbastanza chiaro che oggi possiamo brindare perché arriveranno dei soldi in Italia da Bruxelles, per una cifra sostanziosa corrispondente quasi al 10% del nostro PIL normale.
Se spesi male rischiano di non farci recuperare il calo del prodotto interno del 11 % previsto dall’OCSE per il 2020 (Gualtieri parla del 8,5%), in un contesto nel quale si aggrava il peso del nostro debito pubblico, da cui dovremmo rientrare in dieci anni per una cifra pari al nostro intero PIL, a partire dal 2021 o dal 2022, data nella quale rientrerà in funzione il patto di stabilità (*).

Se la ormai prossima crisi sociale verrà affrontata con le consuete mezze misure e con i bei annunci tipici di questo governo, nessuno ci risparmierà il duo comico Meloni-Salvini e una tragica involuzione autoritaria.
A meno che non insorgano dalla società civile delle novità, come un nuovo movimento di carattere libertario e antifascista, capace di cambiare i giochi e gli attori in campo, rinnovando parte dello sclerotizzato panorama politico della sinistra nostrana, così come sta già avvenendo negli USA con il movimento antirazzista Black Lives Matter che sta sotterrando Trump e i circoli sovranisti, scavalcando il moderatismo incolore di Biden ridettandogli l’agenda politica.

Le mobilitazioni dei giovani italiani e figli di immigrati nelle nostre piazze delle settimane passate contro il razzismo globale possono farci ben sperare.
Un altra variabile da considerare riguarderà l’oggettiva gravosità degli scenari internazionali sul quadro europeo.
A livello globale si prospettano due possibili risvolti legati all’elezione del presidente USA a novembre. O la rottura irreversibile del sistema globale con la rielezione di Trump o una sua parziale restaurazione, con tentativi di maggior dialogo fra le diverse grandi aree economiche del pianeta. Nel caso di una probabile ripresa in autunno-inverno della pandemia vi sarà un ulteriore caduta del PIL, con danni economici immediati e di prospettiva ancor più pesanti (per l’Italia l’OCSE parla di una flessione del Pil fino al 14% nel 2020).

Consideriamo che la politica espressa dalla UE è ancora condizionata dai dogmi neoliberisti, limitandosi ancora a un’idea di stimolo pubblico dell’economia, senza troppo dirigismo. Rimaniamo ben lontani dai modelli del capitalismo di stato delle autocrazie orientali e delle vecchie socialdemocrazie degli anni 70-80.La sacralità del libero mercato che spontaneamente si autoregola rimane intangibile.
Ma la stessa dinamica della crisi spinge verso un maggior ruolo protagonista della parte pubblica, cioè politica, nel vecchio continente. Per ora in ordine sparso.
Occorrerebbe avere un maggiore salto politico in economia, ovvero un passo deciso verso l’ulteriore sottrazione di sovranità ai paesi membri dell’Unione.
Attualmente questa possibilità sembra immaginabile, pensando alla Francia, o alla Germania o ai paesi dell’Est europeo, troppo filo-americani.
L’originalità storica dell’esperimento dell’Unione Europea rimane tale anche nell’incertezza del suo esito finale: ci si frantuma o ci si fonde?
Il salto politico avrebbe un prezzo enorme per l’autonomia delle diverse nazioni componenti della UE: fisco unico, politica estera unica, governo unico, parlamento più decisionale con sottomissione della BCE alla politica non più decisa nelle sedi delle grandi banche.

Un dato certo rimane: a livello europeo le organizzazioni maggiormente rappresentative del mondo salariato sono meno solidali e unite delle classi dominanti. Sindacati e sinistra politica continuano a riflettere divisioni e interessi derivanti dalle nazioni di appartenenza.
Purtroppo anche questo non aiuta il salto politico dell’alleanza economica europea.

Il paziente italiano

Se guardiamo in Italia di adesso ci sono poche speranze.
Sembra di osservare un vecchio di quasi 180 anni appena dimesso dall’ospedale, con gravi patologie di base, al quale si chiede di ritornare a giocare una partita a pallone.
Il nostro paese registra un progressivo declino dagli anni 90.
Abbiamo perso terreno sul piano la produttività di sistema (TFP, produttività totale dei fattori) avviandoci verso un progressivo declassamento economico e sociale.
Per tale ragione le classi imprenditoriali ci hanno chiesto ciclicamente la riduzione dei salari (cancellando i contratti, derogarli pesantemente, ecc) quale azione più facile e immediata per recuperare competitività nel contesto del mercato internazionale.
In entrambi gli scenari l’Europa rimarrà in affanno, ancora troppo divisa economicamente e politicamente incapace di perseguire una linea comune estera.
Nel 93 per “entrare in Europa” vi fu un accordo di sistema fra sindacati, aziende e governo.
Per quell’accordo Trentin si dimise. Venne cancellata la scala mobile e tutti gli automatismi contrattuali per ridurre l’incidenza dei salari sull’inflazione e favorire così l’entrata dell’Italia nel sistema della moneta unica (basato su un sistema di cambi fissi fra le monete fondatrici premessa necessaria al passaggio della moneta unica). Ma quel accordo prevedeva altri due impegni: per le imprese l’investimento in ricerca e sviluppo, guardando alla innovazione dei processi e dei prodotti e alla formazione continua del personale; per il governo il controllo della dinamica dei prezzi e dell’equità fiscale.
Ovviamente questi due punti non vennero rispettati, imprese e governi tradirono il patto.
Il sistema fiscale divenne più iniquo continuando a perseguire l’abbandono della forte progressività, iniziata nel 1982. Il controllo sui prezzi non venne mai attuato e le imprese continuarono ad investire i loro capitali all’estero nei paradisi fiscali o nelle borse.
Gli unici a fare sacrifici rimasero i lavoratori dipendenti.
Da allora molti dei mali storici del paese già presenti nell’Italia liberale di Giolitti, persistenti nell’Italia fascista e nell’Italia della prima e seconda repubblica, sono ancora in buona parte al loro posto.

Abbiamo da sempre uno stato burocratico incline al clientelismo, una classe politica immorale soggetta al trasformismo e all’infedeltà politica, una classe economica imprenditoriale corrotta e corruttrice, incapace di navigare nel libero mercato internazionale, protezionista e liberista a seconda della convenienza, una classe di lavoratori dipendenti socialmente e politicamente frantumata, scoordinata, disorganizzata, incline agli adattamenti familisti, localisti, corporativi.
Infine coltiviamo da sempre la presenza di un esercito di piccole imprese, in maggioranza individuali, ostile a qualsiasi cambiamento, capace di organizzarsi per bloccare ogni tentativo di modernizzazione che ne metta a rischio ruolo ed esistenza.
Questo milieu sociale è l’alimento fondamentale del gattopardismo, il nostro male nazionale, che genera ciclicamente gli stessi soggetti nella recita delle stesse parti, soprattutto quando emerge di necessità l’urgenza di un cambiamento.

Negli anni 90 con la costruzione dell’Unione Europea la nostra classe politica ha coscientemente abdicato a qualsiasi scelta di cambiamento, delegando opportunisticamente agli eurocrati qualsiasi responsabilità. Da allora questa classe si è sempre più provincializzata, trasformandosi in un ceto politico di rentiers in pre-pensionamento.Tanto da farsi così codarda da delegare ai governi tecnici le periodiche “scelte difficili” che andavano a colpire le classi popolari lasciando illese le elites economiche.
E sono state la classiche cure che non eliminano mai il male, aggravando lo stato di salute del paziente. Abbiamo avuto Amato, Ciampi, Dini e poi Monti col risultato che oggi siamo più poveri e indebitati di prima. Dopo il Jobs Act di Renzi i precari sono aumentati, i capitali esteri sono rientrati per riuscire, la mafia è diventata uno dei maggiori finanziatori occulti delle imprese al Nord come al Sud, il lavoro si è ulteriormente impoverito.

Il Covid è stato quindi la nuova mazzata sul moribondo.
Ora il finanziamento dell’Europa condizionato a un programma di riforme strutturali esplicitate nei titoli (green, digitale, amministrazione agile) arriverà solo per il 2021.
Conte deve industriarsi a trovare i liquidi per garantire i finanziamenti a pioggia promessi a tutti nei vari decreti legge (lavoratori, famiglie e imprese). Così come deve garantire le coperture per riformare la sanità sul fronte dell’assistenza territoriale e delle nuove rianimazioni. I soldi se non vengono dall’Europa dovranno venire da nuove tasse, dunque da un sistema riformato in termini fortemente progressivi e da una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Impresa titanica a prova di Mes (sanità), Sure (ammortizzatori sociali), Bei (finanziamento delle imprese).

Quale programma?

In attesa di risolvere i problemi d’urgenza, Conte si prende tempo e scena con l’invenzione degli inutili Stati Generali, per dettagliare un piano già definito da Bruxelles, dopo aver archiviato miserabilmente lo scombinato piano Colao che è piaciuto solo a Confindustria e Salvini.
Dietro alla convocazione degli Stati Generali si riconferma la debolezza di questo governo, accentuata dalla lacuna di idee e dalla difficoltà a conciliare opposti interessi sociali esacerbati dalla crisi pandemica.

Fare sistema, come chiede Landini in questo contesto, potrebbe sembrare una cosa giusta, se non risultasse impossibile per una Confindustria sempre più arroccata su rivendicazioni insostenibili. Da poco insediato, Bonomi le ha sparate tutte: scudo legale sulla sicurezza anti-covid, sblocco dei licenziamenti, deroga ai contratti nazionali, finanziamento senza condizioni alle imprese, meno tasse, alleggerimento della normativa a vantaggio dell’iniziativa privata, come sugli appalti, la sicurezza, l’ambiente, caricare sulla collettività le spese della ricerca e gli investimenti infrastrutturali, lasciare mano libera alle imprese su tutto il resto.

Le proposte di Confindustria identiche da 40 anni sono solo più brutali: ridurre i costi delle imprese. Il piano Colao riprende in tal senso molti elementi del pacchetto confindustriale come l’ampio utilizzo di condoni, sanatorie, agevolazioni a favore delle imprese. Una modalità da sempre usata per legittimare l’elusione della legge e svilire la legalità.

Ricordiamo che il nostro rimane il primo paese in Europa in fatto di lavoro sommerso, corruzione e assenza dello Stato di Diritto.
Ma questo problema centrale per l’elite economica non esiste o è marginale, non esiste un problema di controlli e di maggiori sanzioni, bensì di elaborazione di condoni ciclici, colpi di spugna, legalizzazione dell’evasione, del lavoro nero e della mafia.
Questo è il pensiero di questi industriali.
Pensare a delle riforme condivise diventa difficile se non in presenza di sanzioni pesanti per chi non rispetta gli accordi.
L’elenco della spesa è lungo e noto. Su questo i nostri ministri hanno fatto il buon ripasso nel Casino di Villa Panphili.
A noi qui, basterebbe ricordarne almeno due, tralasciando il resto. Perché sono in questa breve congiuntura i primi della lista, i più urgenti: sanità pubblica e scuola pubbliche, da rimettere in piedi e risanare.

Una sanità che ritorni ad essere completamente pubblica, non più regionalizzata, centralizzata nella pianificazione e decentrata nei servizi, a partire dai territori, potenziando laprevenzione ambulatoriale e l’assistenza domiciliare

(attualmente lasciata in mano al terzo settore al Nord e inesistente al Sud), responsabilizzando e potenziando il ruolo dei medici di medicina generale e di famiglia a partire da un maggiore aggiornamento formativo e clinico continui.
Ben vengano gli infermieri di comunità, ma non con i contratti precari come prevede il DL Rilancio.
Mentre sugli ospedali urge avviare un piano nazionale di ammodernamento e messa in sicurezza, rispetto alla gestione delle pandemie come di altro (esiste ancora il problema dell’amianto), a partire dall’organizzazione degli spazi, della logistica, del risparmio energetico, del rapporto col territorio..
Così per la scuola pubblica, diventata la Cenerentola durante tutto il lockdown, andrebbe riorganizzata radicalmente tutelandone il servizio pubblico, con il miglioramento e il potenziamento della didattica (in aula come a distanza), sia con un sensato piano di prevenzione che rispetti il carattere umano ed empatico dell’insegnamento.
E’ chiaro che I soldi messi a disposizione dal governo fino ad oggi sono del tutto insufficienti.
Non a caso fino ad oggi non hanno elaborato un vero piano di riorganizzazione della scuola per la riapertura di settembre.
Occorrerebbe assumere più insegnanti stabilizzando i precari attuali, raddoppiare le classi e aumentare gli spazi comunitari e le aule.
Ma evidentemente questo governo ascolta ancora troppo la voce degli imprenditori…
Un primo sciopero dei sindacati della scuola è stato proclamato contro la gestione farraginosa della Azzolina, giusto per allargargli le orecchie.
Ed è tutto dire per un governo che vorrebbe scommettere sul futuro, ma che casca dimenticandosi dei giovani, quelli fra i più penalizzati dal covid dopo gli anziani, colpiti duramente proprio nel periodo più delicato della loro crescita, quello della formazione, un diritto tutelato dalla Costituzione.

(*) Si parla di 172,7 miliardi di prestiti dall’Europa, di cui solo 82 sono a fondo perduto. Il nostro PIL 2019 è di 1800 miliardi, il nostro debito andrà oltre il 160% del PIL (180% se si conta la flessione del 10% a 1630 miliardi)

Marco Prina

CGIL Moncalieri (TO)

Pubblicato sul numero di giugno del mensile Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

Puoi leggerlo anche in formato interattivo

https://www.blog-lavoroesalute.org/lavoro-e-salute-giugno-2020/

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