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Fermiamo il corporatismo dei lavoratori della salute. La precarizzazione del lavoro dei professionisti della salute, sta avendo un impatto profondo su queste figure e mina la struttura del Servizio Sanitario. La soluzione passa per la presa di coscienza collettiva del proprio ruolo sociale

Fermiamo il corporatismo dei lavoratori della salute

Pubblicato da franco.cilenti

Corporatismo. Inizio da questa parola, per provare a mettere insieme un po’ di pezzi che in questo momento risultano sfuggenti.

Corporatismo viene dal latino corpus. Si tratta di una parola primordiale, che da un lato indica la sostanzialità dell’oggetto, dall’altro la sua unitarietà. Nella storia è stata usata in vari modi, ma l’utilizzo più affascinante è quello che ne fa Agrippa, per normalizzare la secessione plebea sull’Aventino. Il corpo è dunque qualcosa le cui parti si muovono all’unisono, presuppone unità fisica, ma anche e soprattutto unità di intenti. Credo (ma sicuramente è stato detto da altri prima di me) che il corporatismo vada inteso proprio in questo modo, a partire da quell’uso che ne fece Agrippa (mutuandolo da Esopo): nel senso di unitarietà di intenti di un soggetto sociale. Fu usato, ma questo è ben noto, da Bismarck per normalizzare, ancora una volta, la forza organizzata dei nascenti soggetti comunisti, sindacali e politici. Unita la Germania territorialmente, Bismarck la unì socialmente anche attraverso il corporatismo, risolvendo una serie di problemi materiali (malattia, infortuni, pensione, salute) per i lavoratori e la loro famiglia ristretta, spegnendo quindi sul nascere l’autorganizzazione di classe, che stava provando a costruire da sé, contro lo stato, questa struttura. Tagliando con l’accetta, al contrario dei modelli di welfare universalistici, infatti, il corporatismo legava, e lega ancora oggi, la fruizione di diritti al lavoro, unendo nello stesso soggetto giuridico ed economico dall’ultimo degli operai al dirigente, e legandoli insieme nella rivendicazione dei loro, e solo dei loro, diritti. Contrapposto al corporatismo verticale, abbiamo il sindacalismo, orizzontale, che riunisce i lavoratori sì per categoria e tipologia di contratto, ma in battaglie di carattere generale e politico, non soltanto nella difesa dei propri interessi di categoria.

Portato alla ribalta europea dall’esperienza della Grande Guerra, dove soprattutto in Inghilterra lo sforzo bellico richiese il coinvolgimento dei lavoratori nelle scelte di uno stato sempre più protagonista, il corporatismo è stato poi un cardine dei regimi fascisti (in Italia si parlò di corporativismo, e sulla base delle corporazioni si riformò la Camera, anche se tutta la faccenda rimase largamente sulla carta – pur influenzando i regimi iberici e poi sudamericani); in generale, la retorica fascista è stata spesso ossessionata dall’unitarietà di intenti della massa del popolo racchiusa nella nazione. Il corporatismo nasce ben prima dei fascismi (e del capitalismo stesso, almeno per come lo conosciamo dalle rivoluzioni industriali a oggi), li sorregge attivamente, e ai fascismi di stato è sopravvissuto. Oggi ad esempio è alla base dei cosiddetti modelli di welfare di tipo “Bismarck”, appunto, corporativi.

L’ho presa un po’ alla larga, ma questa introduzione serve per capire le lenti che applico all’analisi.

Come ogni anno in questo periodo, all’avvicinarsi del Concorso Nazionale per l’accesso alle Scuole di Specializzazione Mediche, si riapre, in maniera chiaramente disordinata e a partire da post di singole persone che diventano virali tramite i meccanismi dei social, la discussione non solo sul numero delle borse di studio – insufficienti oramai da un decennio, con le specializzazioni che in generale soffrono di tantissimi altri problemi (affrontati nel Coordinamento Chi si Cura di Te) – ma soprattutto sul numero chiuso alla facoltà di Medicina (quest’anno alimentata dalle solite dichiarazioni dei ministri).

In pratica in pochissimo tempo, a partire dai gruppi principali di discussione e confronto sui social in ambito medico, si riapre l’annosa questione sul se mancano i medici o  gli specialisti, e si susseguono post, iniziative autoproclamate, ma anche offese, fino alla solita violenza verbale a cui il web oramai ci ha abituato.

Per capirci sulla portata, le principali pagine raccolgono diverse centinaia di migliaia di “mi piace”, e i gruppi che le alimentano vedono partecipare diverse decine di migliaia di persone, principalmente studenti di medicina e neolaureati, con centinaia di commenti che si susseguono quando nascono i principali flame. Considerando una certa sovrapposizione nel pubblico, ma anche l’esiguità della nostra popolazione di riferimento (tra studenti di medicina e medici fino ai trent’anni stiamo parlando di circa centomila persone), si può capire bene come questi luoghi in realtà alimentino, anche al livello inconscio, una certa pressione sui giovani colleghi e futuri tali, che spesso eccedono i gruppi riaccendendo gli animi di una categoria che ultimamente si ritrova spesso al centro dell’attenzione.

Tralasciando la questione (a scanso di equivoci, per me mancano medici – servono più posti a Medicina, il doppio delle borse di specializzazione, nessun doppio canale formativo post-laurea, accesso sicuro al lavoro nel Servizio Sanitario pubblico – e lo abbiamo spiegato qui), il dibattito si polarizza in un attimo, e compaiono meme, accuse e sfoghi, e in filigrana non è troppo complicato leggere un substrato profondo e ancestrale, appunto, di corporatismo. Si tratta infatti di difendere la propria categoria (o futura tale, nel caso degli studenti di Medicina), da un attacco esterno, come il ministro di turno, il parlamentare che parla di cose che non sa, ma anche lo studente di altre facoltà, che di solito viene delegittimato e sminuito, o ancora il paziente, che vuole dire la sua ma che non avendo la laurea non può capire. Ma anche da nemici interni, additati come causa principale di tutti i mali, capro espiatorio delle colpe e degli errori, e quindi nemico a sua volta. Qui il discorso diventa scivoloso, perché il nemico interno destabilizza l’unità di intenti del corpo, mostra le crepe. Tutti sono rei di attaccare il corpo intero, lo spirito della professione, il ruolo e il prestigio del proprio essere medici.

Senza entrare in un’altra, ancor più complicata contesa, da una simile chiave di lettura è possibile spiegarsi anche gran parte della polemica sui vaccini, almeno per quanto riguarda quello che si vede in generale sui social.

Il risultato è che, per ora, la categoria dei medici viene spazzata via pezzo pezzo dal neoliberismo, e assieme ad essa il nostro Servizio Sanitario Nazionale, e la responsabilità non è di certo delle pagine facebook per medici o futuri tali. Abbiamo subito un decennio di politiche di blocco del turn over, una costante erosione dei salari, un continuo ritrovarci soli di fronte all’esplosione dei contenziosi legali (e dei premi delle assicurazioni, che spesso dobbiamo pagarci autonomamente), subiamo ogni giorno soprusi, precariato, svilimento della professione e dei nostri studi, e vediamo quelli appena più grandi di noi arrancare nelle paludi delle cooperative e dei medici a gettone. E la risposta, purtroppo, quella facile, è proprio chiudersi nel corporatismo.

Il perché è facilmente spiegabile anche dal fatto che il Corso di Laurea Magistrale in Medicina e Chirurgia serve a una sola cosa, e cioè formare medici. Giurisprudenza non forma solo avvocati, Lettere non forma solo docenti, e gli ingegneri oramai non si iscrivono più all’ordine professionale. Medicina forma medici, e cioè gente che sarà (non solo forse farà) quella cosa per tutta la vita. Lo studente di Medicina è assolutamente incardinato in questa visione, anche perchè molti hanno almeno uno, se non tutti e due, i genitori medici, e la deriva corporativa è sempre dietro l’angolo.

C’è una soluzione? Sì, si chiama sempre sindacalismo. È piuttosto facile, e come professionisti della salute dovremmo essere capaci di capirlo meglio e prima di tanti altri: non per noi ma per tutti e tutte. Vuol dire lavorare, lottare, studiare, con la consapevolezza che i diritti, le conquiste, o sono di tutti, o non sono. Vuol dire, specie nel caso dei medici, mettersi a servizio della popolazione e chiamarla a sè nella strenua difesa del diritto alla salute, in tutte le sue declinazioni, anche e soprattutto sociali o ambientali. Vuol dire sapere che se chiedo più soldi e orari dignitosi, o anche solo dei diritti contrattuali (tipo la maternità), non è solo perchè faccio un mestiere altamente specializzato, ma perchè lavoro meglio, e lavorando meglio miglioro la vita di tutti. E io sto bene in una società che sta bene.

La risposta può essere solo questa, ma prima di tutto, oggi, dobbiamo fermare il corporatismo in tutte le sue forme, da quelle organizzate delle assicurazioni sociali (nel cui tranello è caduto anche il sindacato), a quelle striscianti e sotterranee nel modo di leggere i rapporti che mediano la nostra vita professionale. Tornando al discorso generale, questo criterio, come dimostra il dibattito sul salario minimo, va applicato anche ad altri ambiti, perché non sono solo i medici a manifestare un tendenza al corporatismo. Nel momento in cui la società intermedia, quella cioè dei lavoratori, e dei professionisti, decide di riorganizzarsi attorno a corpi intermedi corporativi, le cose di solito non finiscono bene, e in questa fase calante del capitalismo se ne sono viste abbastanza di cose per continuare a fare finta che le forze storiche non siano ancora tutte in gioco, e pronte a scontrarsi con violenza.

Lorenzo Paglione

Medico specializzando in sanità pubblica, fa parte dell’esecutivo nazionale del coordinamento “Chi si cura di te”.

8/7/2019 https://jacobinitalia.it

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Autore: franco.cilenti
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