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Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Editoria Libera, Politiche di Rifondazione, Storia e Lotte — Novembre 4, 2020 7:51 am

La povertà educativa non è solo minorile. L’Italia occupa la coda delle classifiche Ocse. In più adesso abbiamo bisogno di competenze nuove, digitali e non. 500 mila lavoratori utilizzarono i corsi delle 150 ore poi quel patrimonio sindacale andò disperso. L’occasione del contratto dei metalmeccanici.

Formazione permanente e l’eredità delle 150 ore

Pubblicato da franco.cilenti

La povertà educativa non è solo minorile. L’Italia occupa la coda delle classifiche Ocse. In più adesso abbiamo bisogno di competenze nuove, digitali e non. 500 mila lavoratori utilizzarono i corsi delle 150 ore poi quel patrimonio sindacale andò disperso. L’occasione del contratto dei metalmeccanici.

Sarebbe una buona cosa se col rinnovo del contratto dei metalmeccanici si facessero progressi sulla formazione continua, definita già nel testo del 2016 come “diritto soggettivo” ( la stessa definizione è in una normativa nazionale del 2012, largamente inapplicata, sull’apprendimento permanente) [nota 1]. Diritto soggettivo significa che la formazione sul lavoro è esigibile da tutti i lavoratori, anche  i non coinvolti nelle azioni formative delle aziende. Viene perciò previsto un pacchetto di 24 ore di congedo retribuito utilizzabile anche individualmente. Assicurarne l’attuazione, e anche qualche sviluppo, sarebbe importante.

Sebbene ingabbiato in varie condizionalità ( i lavoratori interessati, per esempio, sono solo quelli a tempo indeterminato ), quel modesto pacchetto di ore fruibile anche a richiesta individuale potrebbe fare da contrappeso  all’avarizia sociale di gran parte delle politiche formative aziendali. Nella definizione vivono infatti due finalità, entrambe strategiche, e nessuna granché apprezzata dalle imprese. La prima, di profilo universalistico, è che alla formazione devono poter accedere tutti i lavoratori, anche quelli che, in tutta la loro vita lavorativa conoscono, se va bene, solo quella obbligatoria sulla sicurezza: i tanti esclusi dai progetti aziendali ( anche concordati col  sindacato) che privilegiano solitamente le figure di livello professionale più alto, dirigenti, quadri, tecnici, impiegati, e poi più i maschi che le femmine,  più le fasce di età centrali che le altre, più i nativi che gli immigrati. La seconda finalità è che la formazione non dovrebbe tradursi solo in adattamento alle trasformazioni organizzative e tecnologiche dell’azienda  ma andare oltre, contribuendo a sviluppare nei lavoratori le competenze, specifiche o trasversali, e spesso anche di base, necessarie a rafforzarne “l’occupabilità”, cioè ad essere più forti e preparati a misurarsi con la  mobilità,  necessitata o scelta,  e con la riconversione professionale. Con le “transizioni”,  le incertezze e gli agguati di un lavoro sempre meno stabile, oltre che con le prospettive, quando ci sono, di carriere interne.

Nell’accordo del  2016 si annunciava infatti anche una campagna per lo sviluppo delle competenze digitali, divenute ormai di base, almeno nel senso che chi non le ha è di sicuro svantaggiato nel mondo del lavoro di oggi.   Possono certo apparire secondari, a fronte di tanti altri problemi, i piccoli passi avanti della contrattazione in materia di formazione ( e, viceversa, lo scarso utilizzo  dei congedi di “diritto allo studio”, che nei contratti ci sono ma vengono  per lo più regalati alle aziende ), ma non lo è. Le politiche attive del lavoro di cui si tanto si parla non hanno a che fare solo con l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, ma dovrebbero essere fatte anche di formazione.  Non solo per chi è stato messo fuori dal lavoro o per chi un lavoro, come si deve non l’ha mai incontrato, ma anche per chi nel lavoro c’è già ma ha buone ragioni per prevedere che sarà prima o poi costretto a cercarne un altro. A sollecitare l’attenzione per i contenuti dell’accordo del 2016, è però anche che è stato ancora una volta il contratto dei metalmeccanici a introdurre per primo qualcosa di innovativo in campo formativo.   

Ancora una volta. E a quasi cinquant’anni dallo storico rinnovo contrattuale  in cui i metalmeccanici, e poi di seguito tutte le altre categorie, comprese quelle del terziario e del lavoro pubblico, conquistarono le “150 ore”.  Cosa sono state e cosa hanno prodotto, perché furono appassionatamente volute, direttamente gestite e infine abbandonate dal sindacato, non lo sa quasi più nessuno. Non lo sanno, e forse neppure  interessa, i delegati e gli operai, e  neppure i sindacalisti che sembrano non sapere cosa farsene di quel congedo formativo retribuito – una riduzione del tempo di lavoro, una irruzione nel tempo di lavoro del tempo di vita –  ha depositato nei contratti. Nate dalle lotte di fabbrica, oggi le “150 ore”, variamente ritoccate in tanti rinnovi contrattuali, vengono infatti utilizzate soprattutto nel pubblico, di solito per via individuale o, per meglio dire, solitaria. E invece in quella lontana esperienza di utilizzo del congedo – collettivo perché ispirato alla volontà di una  emancipazione  collettiva – non c’è solo un pezzo importante della storia  sindacale, sociale, scolastica  degli anni Settanta. Vi sono diritti, idee, pratiche sociali, contenuti utili anche oggi, in un mondo del lavoro pur irriconoscibile  rispetto ad allora. Sarebbe utilissimo, per esempio, tener fermo che la “domanda” dei lavoratori, fosse anche solo di tipo individuale deve, per poter emergere e contare, essere ascoltata, capita, rappresentata, negoziata. Circolarono ai tempi un bel po’ di storie su chi nella Flm, a ridosso dell’Autunno caldo del 1969,  ebbe per primo l’idea, forse anche sulla scorta di esperienze francesi ( e allora è Bruno Trentin il primo indiziato ), di buttare sul tavolo della trattativa anche un congedo retribuito per “studiare”. Sulle reazioni di una controparte ostile e arrogante, e su come gli si seppe rispondere. “Per studiare che cosa ? Gli operai non vorranno mica  imparare  il clavicembalo?”. “Perché no, se lo vogliono? anche il clavicembalo.“

Fu così che lo sconosciuto strumento musicale divenne per anni il logo, fin nei volantini, di una rivendicazione felicemente trasgressiva – una specie di versione operaia dell’immaginazione al potere –  che era stata prima di tutto di libertà, uguaglianza, autonomia. Anche se c’è chi ancora ricorda un corso sul rock di grande successo per giovani delegati, la musica che poi si suonò fu tutta un’altra. Anch’essa indigesta a gran parte del padronato , e ovviamente anche al ministero dell’Istruzione, che cercò di ridurne la portata innovativa tentando di assimilarla a vecchi corsetti di tipo assistenziale per analfabeti. Le richieste su come utilizzare il congedo ( 150 ore non bastavano per i percorsi lunghi e gli operai dovettero aggiungerci un bel pò del proprio tempo di vita ) erano di più tipi. C’era la formazione di livello alto, ma senza riferimento a titoli di studio, come i seminari universitari (ce ne furono tanti, affollati di delegati, che trattarono di economia, diritto, storia, medicina del lavoro… ). E c’era quella di livello intermedio collocabile nel primo biennio della secondaria superiore. Ma il fuoco fu da subito sulla scuola media e sul diritto a concluderla in un anno. Già nel 1973, a trattative ancora aperte, Cgil Cisl e Uil avviarono il negoziato per ottenere in tutto il Paese corsi statali per lavoratori di durata annuale per la licenza media ( e, quando necessario, e in molti casi lo era, anche per la licenza elementare). I corsi, a centinaia, gradualmente si ottennero e, anche grazie a una singolare alleanza con tanti insegnanti affascinati dall’idea di far vivere nella scuola degli operai la scoperta sessantottina del Don Milani della “Lettera a una professoressa”, l’esperimento si sviluppò un po’ ovunque e tenne alla grande per più di una quindicina d’anni.

Solo nei primi dieci, dal 1973 al 1983, i lavoratori coinvolti  furono più di 500 mila. Ma perché proprio la scuola media, perché la Flm non puntò anche , o solo, sulla qualificazione professionale? Si è a lungo sostenuto che  l’identificazione della formazione professionale con “lo strumento del padrone” fosse effetto di un eccesso di ideologia. Di risvolti  ideologici, certo, ce n’erano, in questo e in altri aspetti della vicenda,  ma in quella scelta che suscitò discussioni anche dentro le stanze della Flm, c’era soprattutto altro. Da un lato l’imprescindibile riflesso della distruzione delle professionalità operaie imposta dall’organizzazione fordista della grande fabbrica, dove bastavano due giorni di affiancamento perché gli addetti alla “catena” imparassero i contenuti della prestazione. Dall’altro il bisogno di una proposta adeguata a una classe operaia affamata di uguaglianza, quella che aveva ottenuto l’inquadramento unico e gli aumenti salariali eguali per tutti, quella che rivendicava una sua cultura con cui trasformare  “l’organizzazione capitalista del lavoro”. L’obiettivo, allora, non poteva essere che il  “diritto allo studio”, allora incarnato nella scuola che, cancellato con la riforma del 1962 il doppio binario tra “il ginnasio” dei figli dei ricchi e “l’avviamento professionale” ( o anche niente ) degli altri, era diventata l’emblema dell’istruzione per tutti. L’attuazione, finalmente, degli “almeno otto anni “ di obbligo scolastico scritti in Costituzione, il sapere come via per l’emancipazione sociale, nel lavoro e fuori. Tutti ne avevano diritto, dunque anche gli operai che non avevano potuto avere che pochi anni di scuola elementare, anche loro, proprio come i loro figli. Ma la scuola media degli operai doveva essere un’altra rispetto ai programmi e ai metodi della scuola ordinaria che continuava a bocciare  i figli dei più poveri. Bisognava partire dall’esperienza e dai bisogni dei lavoratori, valorizzare il tanto che già sapevano e avevano imparato insieme, costruire una didattica nuova, conoscere quello che serve per poter trasformare la realtà. Della fabbrica, e anche oltre. Una sfida alta anche per gli insegnanti, che portò spesso a pratiche educative e strumentazioni didattiche, concordate con il sindacato, davvero innovative per l’italia e la scuola del tempo.  

Ma la sfida era evidentemente anche politica, e non poteva restare la stessa quando il vento cominciò a cambiare. Quando, negli anni Ottanta, e dopo la traumatica sconfitta alla Fiat, il sindacalismo industriale dovette misurarsi con le ristrutturazioni e le crisi aziendali. Non resse, in verità, anche al fatto che i corsi 150 ore venivano sempre più frequentati da figure diverse dagli operai-massa della grande fabbrica (anche perché la riforma della scuola media stava poco a poco avendo i suoi benefici effetti, almeno per i più giovani). Tanti operai delle piccole fabbriche dove il sindacato non c’era o non riusciva a far riconoscere il diritto al congedo, tanti artigiani, disoccupati, casalinghe, cassaintegrati, bidelli e commessi del lavoro pubblico, giovani drop out della scuola dell’obbligo. E poi anche i primi immigrati a imparare l’italiano.

Sarebbe potuto essere motivo di orgoglio che una conquista operaia si stesse trasformando in una conquista civile, ma furono in molti a non vederla affatto in questo modo. Le Confederazioni avrebbero potuto, di fronte alle trasformazioni, rilanciare la palla per fare della scuola per i lavoratori il primo nucleo attorno a cui far crescere quel sistema di apprendimento permanente per adulti, lavoratori e non, che in Italia non c’era, e che ancora ci manca. Ma per tanti motivi non andò così. E la gestione dei corsi, passata di fatto ai sindacati Scuola, diventò sempre più questione di organici, concorsi, stabilità e orari del personale. Tra gli effetti indiretti della dismissione, ci fu anche l’appannarsi del ruolo protagonista sul diritto allo studio e sulla scuola che le Confederazioni si erano conquistate negli anni Settanta. Le dismissioni senza alternativa – i sindacati dell’industria sono i primi a saperlo –  lasciano sempre dei brutti segni. 

Fu persa, insomma, un’occasione importante. Non è di sicuro per questo, visti i tanti anni trascorsi, che sulla formazione continua, sulla formazione professionale tra lavoro e non lavoro e da un lavoro all’altro, e più in generale sull’apprendimento permanente, si debbano registrare risultati molto modesti e vistosi ritardi rispetto ad altri grandi Paesi dell’area europea. Ma è certo che da allora il movimento sindacale e quello che a lungo gli si è mosso attorno non ha più saputo sviluppare con continuità iniziative coerenti e lungimiranti su questi temi. E che – in verità paradossalmente, in una fase in cui la formazione per il lavoro e per la cittadinanza attiva ha acquisito un’urgenza che allora non c’era – ha lasciato troppo spazio  a culture sociali miopi e a politiche mediocri, delle imprese come delle istituzioni. Tutt’altro che attente a innalzare il livello di istruzione e di qualificazione della popolazione adulta, a offrire una seconda chance ai tanti giovani inguaiati dagli abbandoni scolastici precoci, a rendere attraente e praticabile la partecipazione all’apprendimento “lungo tutto il corso della vita”. Ad attivare , come prevede la legge del 2012 e come  sollecitato dalle politiche europee, i dispositivi di validazione delle competenze acquisite nel lavoro, nel volontariato, nella vita sociale, come strumento di accorciamento dei percorsi e come incoraggiamento a rientrare in formazione.

Eppure i numeri, confermati anno dopo anno da studi, indagini, comparazioni in area UE e OCSE  dicono con chiarezza la gravità della situazione italiana. La “povertà educativa” di cui  si parla non è solo “minorile”, non riguarda solo le aree più svantaggiate del Paese, i tanti ragazzi con background migratorio, il 22% dei Neet. E non è fatta solo di quel 15% di early school leavers che non concludono i percorsi formali. Nasce anche dal non lavoro, dal lavoro poco qualificato e senza seri processi di qualificazione, dagli apprendistati senza veri investimenti formativi, dai tirocini in cui non si impara niente, da una formazione professionale  inadeguata per numeri e qualità, da interventi per gli occupati che trascurano, più che in altri Paesi, i più deboli. Dall’incapacità o non volontà di giocare la carta della formazione, si tratti del programma europeo “Garanzia Giovani”, del reddito di cittadinanza, della cassa integrazione, e di tanti altri contesti.

Pesa del resto l’ostinata assenza di un sistema effettivo di apprendimento permanente. Ciò di cui disponiamo, in un’Italia che occupa l’ultimo posto nelle classifiche OCSE per possesso delle competenze di base in italiano e matematica degli adulti tra 25 e 64 anni (con gravi carenze anche tra i giovani fino ai 35 anni), è fatto di spezzoni scoordinati che non fanno sistema, di un insieme che non sa mettersi in sintonia con l’intera gamma dei bisogni di istruzione, formazione professionale, educazione in età adulta. E che lascia sistematicamente fuori quelli che, per motivi soggettivi o oggettivi, alla formazione non possono arrivarci da soli.

Il tasso di partecipazione degli adulti alle opportunità formative, comprese quelle non connesse con motivazioni professionali, vede l’Italia al 17° posto in area europea ( 7,9% )  ed è fortemente condizionato per età, genere, titoli di studio, condizione  sociale. I laureati partecipano due volte di più dei diplomati, e sei volte di più dei senza diploma. Ma le responsabilità non stanno solo nella sottovalutazione da parte delle imprese  ( solo il 62% si dichiarano impegnate nella formazione dei dipendenti, contro il 78,7 della media UE, l’84,6 della Germania, l’80,5 della Francia, l’81 del Regno Unito ) e, prima ancora, in un sistema produttivo che esprimendo una domanda di lavoro connotata per lo più da qualificazioni medio-basse, non richiede né intende formare competenze trasversali e specifiche di alto livello. Anche il sistema pubblico è lontano, per quantità, qualità, articolazione dell’offerta, dalla capacità di intercettare l’insieme delle esigenze dei pubblici adulti. 

Non è solo un problema di risorse finanziarie, di investimenti pubblici e privati, che pure c’è rispetto ad altri Paesi europei, perché criticità e limiti ci sono anche per la formazione continua finanziata dai Fondi interprofessionali gestiti dalle parti sociali che non sempre riescono a spendere i 900 milioni di cui dispongono annualmente. Ciò che soprattutto manca è l’investimento politico, e perfino la capacità di dare un’identità e una rappresentanza collettiva alla miriade di bisogni individuali  di tipo formativo. Di capire che cosa rivela il diffuso impegno in questo campo del Terzo settore, dell’associazionismo, del volontariato, cui accedono con le motivazioni più diverse moltissime persone, lavoratori e non, e delle più diverse fasce di età. Anche qui, si direbbe, la distanza tra politica e cittadini ha fatto passi da gigante.  

Note:

1 Riforma del Lavoro Fornero. Ulteriori disposizioni del mercato del lavoro. Legge 92/2012

2 ANPAL,INAPP. IXX Rapporto al Parlamento sulla formazione continua (2020)

Fiorella Farinelli

3/11/2020 https://sbilanciamoci.info

Tags: 150 ore cgil cgil. fiom corsi 150 ore formazione giovani NEET istruzione lavoratori Legge Fornero operai povertà educativa SCUOLA PUBBLICA sindacato
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Autore: franco.cilenti

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