Frontiere chiuse e solidarietà. La storia di 66 nigeriane.

foto Flickr/Gareth Williams

Delle sessantasei ragazze nigeriane sbarcate quest’estate sulle coste siciliane e successivamente condotte come “clandestine” nel Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria, a Roma, meno di dieci sono riuscite a ottenere lo status di rifugiate politiche, nonostante probabilmente tutte abbiano avuto a che fare con storie di tratta. Il loro inserimento nei percorsi di protezione previsti dal diritto internazionale e dalle leggi italiane appare al momento molto complesso, in un contesto di politiche europee sempre meno accoglienti nei confronti di migranti in fuga da guerre e persecuzioni. Ne abbiamo parlato con Francesca De Masi, sociologa e operatrice di Be Free, cooperativa sociale che ha uno sportello nel C.I.E. di Ponte Galeria e che da anni si occupa di donne sopravvissute a situazioni di violenza domestica o a tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento sessuale e lavorativo. Proprio in questi giorni la cooperativa ha diffuso un appello rivolto al Presidente del Consiglio dei Ministri in occasione del meeting del Consiglio Europeo sui migranti, che si terrà il 15 e 16 ottobre, per chiedere politiche europee che tengano conto del fatto che la crisi dei rifugiati e dei richiedenti asilo non è affatto neutrale rispetto al genere.

Francesca, tu e la cooperativa Be Free avete avuto un ruolo chiave nella vicenda delle ragazze nigeriane, sui giornali ne sono state date notizie contrastanti e spesso poco chiare. Ci racconti cos’è successo da vicino? 

Queste donne sono state condotte nel C.I.E. di Ponte Galeria il 23 luglio in seguito a un decreto di respingimento emesso dalla prefettura e dalla questura di Agrigento e Siracusa ed erano donne appena sbarcate sulle coste siciliane. Una volta arrivate nel centro hanno fatto richiesta d’asilo e sono state ascoltate dalla commissione a fine agosto. L’elemento dirompente di questa vicenda è stato prima di tutto l’alto numero di donne coinvolte nello stesso momento, poi il fatto che fossero state respinte, quindi che non ci fosse stato un percorso per capire che storie potevano avere, lo scopo era solo quello dell’identificazione e dell’espulsione. Infatti, dopo le audizioni in commissione, per 40-45 di loro sono sono stati subito predisposti i rimpatri. Il 17 settembre è stato organizzato un volo da parte delle istituzioni preposte che le ha deportate a Lagos, in Nigeria. Uso il termine “deportazione”, che è lo stesso che hanno usato le ragazze, perché è indicativo del fatto che sono state prese e rimandate nel paese d’origine senza possibilità di appello o di reazione. Inoltre, non è stato dato il tempo alle ragazze di finire la procedura – che prevede l’audizione in commissione, in caso di diniego la possibilità di ricorso, e in caso di ricorso la possibilità di sospensiva, che è un documento del giudice del tribunale civile che stabilisce che finché non viene presa alcuna decisione sulla protezione della donna, la donna in questione risulta “sospesa” cioè non espellibile, perché in attesa di risposta del tribunale. Quindi, anche se  la prefettura e la questura non sono obbligate ad aspettare i tempi della sospensiva, la tempistica è stata troppo veloce. La volontà di espulsione era infatti chiara dall’inizio, perché quando sono arrivate, le ragazze sono state identificate dall’ambasciata nigeriana nel giro di uno o due giorni proprio ai fini dell’espulsione. L’unica volontà, insomma, era quella di metterle dentro al C.I.E. per rimpatriarle.

Quante sono le ragazze rimaste in Italia e quante quelle che sono state costrette a tornare in Nigeria? 

Tutte e sessantasei hanno fatto richiesta d’asilo, ma solo una decina hanno ottenuto la protezione. Circa cinquanta invece sono state diniegate. Di queste, venti sono state rimpatriate, le altre trenta o sono ancora dentro al C.I.E. oppure gli avvocati hanno lavorato affinché ottenessero la sospensiva e quindi è stato possible farle uscire dal C.I.E. Tante sono state le associazioni, le avvocate e gli avvocati che si sono mossi in questo senso. Solo così è stato possibile farle uscire dal centro con un permesso di soggiorno e iniziare la procedura per la richiesta di asilo.

Qual è stato il tuo ruolo e quello della cooperativa e come siete riuscite a gestire questa complicata vicenda?

Noi, dal 2008, entriamo nel C.I.E. di Ponte Galeria ogni settimana tramite Fuori Giogo che è un progetto di emersione che vede come capofila la Provincia di Roma. Il progetto è finanziato dal Dipartimento per le Pari Opportunità che ha il compito di gestire i progetti di emersione e di prima assistenza per le donne e gli uomini vittime di tratta e anche il cosiddetto “articolo 18”, vale a dire la parte relativa all’accoglienza e all’inserimento sociolavorativo di queste persone[1]. Il ruolo di Be Free è stato proprio quello di intercettare queste ragazze all’interno dello sportello che gestiamo nel centro di Ponte Galeria. È stata una situazione molto difficile, perché erano tantissime e quindi non è stato possibile fare dei colloqui di approfondimento con tutte per comprendere se potessero essere effettivamente vittime di tratta, anche se c’erano tutti gli indicatori che ne fornivano il sospetto. E infatti in alcuni casi è stata la commissione stessa a sospettare che fossero coinvolte nel sistema di tratta e a chiederci di fare dei colloqui approfonditi. Ricevere questo tipo di mandato per noi è stato un elemento nuovo, e anche questo si è rivelato un compito assai difficile, perché stabilire un rapporto di fiducia con le donne sopravvissute a una storia di tratta richiede molto tempo, e noi avevamo invece tempistiche strettissime. Alla fine, 7 ragazze tra le 13 che Be free ha sentito in maniera approfondita hanno ottenuto la protezione e sono state inserite in alcune strutture presenti sul territorio romano.

Sono emerse quindi delle criticità.

Delle criticità molto forti, sì. Una è che queste donne sono state proprio respinte, quindi non hanno avuto solo un decreto di espulsione ma anche un decreto di respingimento, senza che ci sia stato un processo di identificazione virtuoso volto a comprenderne le storie. Tempistiche così strette non risultano compatibili con l’emersione di casi di sfruttamento e di tratta, ci vuole tempo per aprirsi e avere fiducia. E in questo caso c’erano tutti gli elementi per pensare che queste donne, la maggior parte tra i 20 e i 25 anni di età, tutte scarsamente alfabetizzate, avessero alle spalle storie di forte violazione dei diritti umani e quindi non potessero essere ascritte alla semplice categoria di “migranti economiche” – anche se la distinzione tra rifugiati e richiedenti asilo da un lato e migranti economici dall’altro è di per sé poco adeguata. Ci sono state poi delle criticità relative al fatto che si è trattato di detenzione amministrativa: le donne non conoscevano il motivo per cui si trovavano nel centro. Quindi il lavoro iniziale è consistito proprio nel contenere le loro frustrazioni, il loro terrore di essere subito rimpatriate e di non conoscere quale fosse il proprio destino. Abbiamo fatto delle assemblee con queste ragazze dentro al C.I.E.,  nel corso delle quali spiegavamo loro, con l’aiuto anche di altre associazioni, perché si trovavano lì, che cosa stava succedendo e quali potevano essere gli strumenti di tutela per poter evitare il ritorno forzato in Nigeria.

Che tipo di relazione si è instaurata con le ragazze?

Una relazione che tutt’ora ha bisogno di essere costruita e rafforzata. Una ragazza appena sbarcata non si fida dell’operatrice che ha davanti. Prima di tutto perché è bianca. Poi perché non c’è consapevolezza dei ruoli. “Chi è questa persona davanti a me? È un’operatrice? È una poliziotta, una giudice? Una che mi aiuta o una che mi fa rimpatriare?”, si chiede. Scardinare delle aspettative così forti è difficile perché non si è ancora costruita una relazione di fiducia. Con le ragazze che hanno ottenuto la protezione, questo rapporto si è andato fortificando perché hanno visto che noi abbiamo lavorato per loro, con loro, anche con molta difficoltà, e quindi è stato per noi importante andarle a prendere a Ponte Galeria, portarle nei centri preposti e in alcuni casi accompagnarle anche nel percorso di regolarizzazione, quindi in questura, parlare con loro del futuro e di quello che possiamo fare insieme per costruire una vita diversa in Italia. Si è creata poi proprio una rete un po’ formale e un po’ informale, che ha permesso di cercare anche soluzioni alternative. Si sono strette molte relazioni, ad esempio con LasciateCIEntrareLa clinica legale di Roma Tre, le volontarie e le attiviste che si sono spese per accompagnare le donne in questura. È tutto molto in itinere. Il fatto che noi non abbiamo un centro per donne vittime di tratta ci ha portato a inserirle in altri centri in cui però noi vorremmo mantenere il ruolo di filo conduttore rispetto al fatto che siamo quelle che le hanno tolte dal C.I.E., e trovando un equilibrio che faccia capire loro che siamo tutte dalla stessa parte, senza scavalcare il buon lavoro e le competenze delle strutture di protezione, ma cercando di mantenere questo filo anche molto intenso. Penso alla cena organizzata il 12 ottobre da Lucha y siesta per festeggiare le ragazze rimaste in Italia, e devo dire che vederle in una situazione conviviale dove hanno anche cantato e ballato, dopo averle viste imprigionate, è stato molto forte.

Cosa succederà ora alle ragazze rimpatriate?

Di loro si sta occupando La clinica legale di Roma Tre, che sta cercando di seguirle. Il momento del rimpatrio è stato straziante perché non conoscevamo neanche la lista precisa delle donne che dovevano essere rispedite in Nigeria. Tra l’altro si è verificata una situazione particolare che ha visto la presenza di attiviste e attivisti all’aeroporto e nello stesso momento le avvocate e gli avvocati dentro al tribunale che chiedevano ai giudici di ottenere le sospensive. Quello che è accaduto è che con i telefonini venivano mostrate le sospensive in tempo reale e alcune ragazze scendevano di conseguenza dall’aereo.

E a quelle rimaste in Italia?

Per le richiedenti asilo c’è stata una mobilitazione per inserirle nei circuiti dello Sprar (il Sistema di Protezione per i Richiedenti Asilo e Rifugiati). Delle ragazze che invece hanno ottenuto la protezione se ne stanno occupando le nostre avvocate penaliste perché in caso di tratta c’è tutta una procedura da seguire che comprende anche una denuncia-querela. Ma adesso è troppo presto per una denuncia, sia perché le notizie riportate da queste ragazze sono ancora poco dettagliate, sia perché l’interpretazione più diffusa dell’articolo 18 prevede che lo sfruttamento sessuale deve avvenire su suolo italiano, e in questo caso non c’è stato neanche il tempo.

Spesso i trafficanti sono sia nel paese d’origine che in quello di destinazione, cosa rischiano queste donne?

Rischiano tantissimo. Spesso chi le recluta nel loro paese d’origine è la stessa persona che poi loro incontrano in Italia. Oppure si tratta di fratelli, sorelle, cugini o anche delle madri delle persone che le aspettano in Italia. È una rete molto capillare da cui non si sfugge tanto facilmente, anche perché il fenomeno dello sfruttamento si è evoluto, e le nostre leggi invece sono abbastanza vecchie, quindi non si riesce a dare conto delle evoluzioni del fenomeno. Siamo sempre un passo indietro.

C’è il rischio che queste donne vengano sottoposte a ricatti da parte di una rete così capillare?

Loro hanno un debito da pagare, un debito di viaggio, è questo il primo ricatto. E non sanno le cifre esatte. Sono abituate a contare in naira, la moneta nigeriana, e invece una volta in Italia viene detto loro che si tratta anche di 30 o 60 mila euro, cifre assai gonfiate rispetto alle spese dei trafficanti per farle arrivare. Un altro ricatto molto frequente è il rito giùgiù, che viene fatto loro in Nigeria alla presenza di un sacerdote. Vengono prese delle parti del corpo o che sono abitualmente a contatto con il corpo – capelli, peli del pube o delle ascelle, sangue mestruale, slip, unghie delle mani – e messe dentro un sacchetto, e viene fatto un giuramento. La donna deve giurare che mai tradirà chi la sta aiutando ad andare in Italia, pena la morte o la persecuzione. Questo sacchetto lo tiene il sacerdote o il trafficante e funziona come fortissimo deterrente per le ragazze nigeriane, che hanno una paura enorme di questo rito perché le pone di fronte alla minaccia da parte dei trafficanti, che potrebbero quindi fare del male a loro e alle loro famiglie. Quelle che tornano in Nigeria rischiano di essere ritrafficate, o di essere emarginate dalla comunità o anche di essere uccise.

La vicenda delle ragazze nigeriane può essere un’occasione per stimolare la riflessione e l’azione in termini di miglioramento delle politiche?

C’è una questione di interconnessione tra vittime di tratta, richiedenti asilo e rifugiati, ed è ora che questa interconnessione possa essere gestita al meglio in un dialogo sempre più serrato con le istituzioni. E poi ci sono delle domande, a cui secondo me istituzioni e società civile devono trovare delle risposte: quale accoglienza per queste ragazze? Devono essere inserite nelle strutture “articolo 18”? Negli Sprar? Il fatto che non abbiano la consapevolezza di cosa le aspetta, cioè lo sfruttamento, le rende meno vittime di tratta delle altre? Il fatto che abbiano un permesso di soggiorno diverso da quello per protezione sociale cosa comporta? Sono adeguati gli Sprar per le vittime di tratta o si può lavorare per un miglioramento? E se le ragazze scappassero dalle strutture, è giusto far ricadere su di loro la nostra incapacità di adattarci alle loro esigenze e la nostra capacità di combattere i trafficanti? Queste sono le domande che io e le altre operatrici ci siamo fatte.

NOTE

[1] In Italia il sistema  di  assistenza e protezione sociale per le vittime di tratta è previsto dall’art.18 del T.U. delle disposizioni concernenti la disciplina sull’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero (decreto legislativo n. 286/98) e succ. Art. 27 (recante le Norme di attuazione).

Claudia Bruno

13/10/2015 www.ingenere.it

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