G8: A Napoli c’hanno spiegato come funziona Genova

Illustrazioni di Arcangela Dicesare

Mauro passeggia nervoso sul ballatoio, il copione è quasi illegibile tanto è stato gualcito dalle sue mani sudate. Si ferma, mette a fuoco le parole, riparte parlando e gesticolando. Gli è toccata la parte del protagonista, un lavoratore impiegato presso McDonald’s, un crew1. Posso soltanto immaginare il suo disagio, la difficoltà di presentarsi agli occhi degli occupanti come un attore di una compagnia teatrale improvvisata. Lui è il leader, ci tiene alla perfomance pubblica di guida politica e raramente ho visto esporre suo lato umano, mortale. Penso lo consideri un segno di debolezza. Nonostante ci rivolga sorrisi di dissimulazione, il suo nervosismo ha rotto gli argini.

Lo osservo, prima divertito, poi inizio ad avvertire il contagio: al primo piano devo entrare in scena io, faccio il coatto. Sono l’uomo dei luoghi comuni, dell’ “importante è che se magna veloce e a dù sordi”, con tanto di capezza di finto oro al collo. “Ti viene naturale”, aveva detto Roberta sbrigativa mentre distribuiva i compiti. Sono agitato, ma fortunamente mi toccano poche battute, recitate in un dialetto romano forzato. Luca, suo malgrado, fa il “padroncino”, ricopre il ruolo di swing2. Sulla scena, è una tacca sopra Mauro e questo provoca tra i due una competizione feroce.

In sostanza, Mauro è inizialmente entusiasta di aver trovato un’occupazione. Prende poi lentamente e dolorosamente cosicenza degli effetti della globalizzazione sulla cultura alimentare, sugli stili di vita e, soprattutto, sul lavoro sempre più precario. Lui e Luca capiranno, solo in seguito, la relazione tra i loro destini: l’essere parte di “un impianto di produzione e consumo mortiferi per l’umanità e il pianeta”, così dice il copione. Stringeranno un patto, un’alleanza per resistere ai turni massacranti e ritrovare una relazione più umana e addiritura di fraternità. Ogni occupante ha un ruolo da attore, le scene sono distribuite sui diversi piani della scuola occupata tre anni fa nel quartiere di Tormarancia. C’è chi fa la comparsa, chi il semplice acquirente di hamburger e chi, invece, si occupa delle luci e degli stacchi musicali. L’atmosfera è allegra. Tra il pubblico, i bambini faticano ad accettare la disciplina del silenzio, non resistono vedendo i propri genitori in abiti inusuali gironzolare nella sala prima di buttarsi dietro le quinte per iniziare lo spettacolo.

Sotto la rigida regia di Roberta, una delle prime militanti del nostro movimento per il diritto alla casa, l’intero spazio dell’immobile si trasforma in un teatro. Ci stiamo preparando alla tre giorni di Genova: coinvolgiamo le famiglie e i giovani che vivono nell’occupazione per parlare di globalizzazione attraverso la drammatizzazione della vita dentro un fastfood della multinazionale. L’idea di Roberta, presentanta in assemblea un mese prima, era subito piaciuta: un modo originale e non frontale di far passare il senso della lotta alla globalizzazione. Il controvertice si preparava anche con la cultura, diceva Roberta, e McDonald’s era diventata il simbolo negativo della Globalizzazione.

La rappresentazione teatrale si esaurisce al piano terra con una grande festa di comunità internazionale, le provenienze nazionali degli occupanti si rappresentano attraverso il cibo e la convivialità senza confini. La folta comunità peruviana presente nelle nostre occupazioni si è presentata con teglie strapiene di papa alla huancaina (un piatto a base di peperoncino giallo peruviano, uova, papate e formaggio), le famiglie Eritree di Tormarancia hanno preparato lo Zighinì, mentre quelle curde la Dolma, verdure ripiene di riso alla con carne di agnello (avevano esagerato, tutti pensarono e qualcuno si era lamentato: l’animale era stato portato vivo nell’occupazione di San Lorenzo e sgozzato nei bagni collettivi. L’odore brutale del massacro si era sentita dalla strada). Ida capeggia il fronte culinario italiano. Insieme ad altre famiglie, ha cucinato la caponata e gli involtini di carne “Tutto biologico sennò chi se la sente Roberta”. Festeggiamo fino a tardi con la musica della banda musicale nata nell’ambito della nostra comunità. Inizia a fare buio, ci ritroviamo nell’ampio cortile della scuola e, dal prefabbricato fatiscente che abbiamo recuperato all’abbandono, arrivano le voci delle famiglie che si preparano alla notte. Si sentono i televisori, qualcuno che continua a festeggiare nelle proprie stanze con fisarmoniche, chitarre e gli immancabili, per me odiosi, bonghi.

Con Luca, Roberta, Mauro, Paola e altri ragazzi che vivono nelle occupazioni ci ritroviamo a commentare soddisfatti ed esausti il successo della manifestazione culturale. Ci gongoliamo, scambiandoci battute sugli errori scenici, frasi intere dimenticate e improvvisate, le conseguenze tecniche della fretta di mettere in scena lo spettacolo. Soprattutto Roberta non sta nella pelle, è soddisfatta e non smette di sottolineare l’importanza di quello che è appena successo. “Vi rendete conto? Sta succendendo veramente. Sono anni che ci sbattiamo per far partecipare le famiglie alle manifestazioni e ora è tutto così facile”. Roberta ha un ruolo importante nella nostra comunità, è la figura dell’organizzazione concreta dei picchetti antisfratto e delle liste da stilare per organizzare nuove occupazioni di stabili abbandonati, l’unica a poter riuscire nell’impresa appena realizzata.

Mancano due mesi al controvertice e i preparativi assumono decine di forme diverse tra loro. Assemblee nelle scuole e nei centri sociali. In molti luoghi di lavoro, i sindacati, soprattutto quelli di base, portano il loro contributo mettendo l’accento sulle leggi che indeboliscono il potere contrattuale dei lavoratori. Dal mondo della sinistra più radicale, a parti importanti della Chiesa, fino alla società civile, ognuno interpeta il ruolo da assumere dentro quella che sta diventando una mobilitazione internazionale e trasversale3.

È ormai mezzanotte passata quando alcune famiglie escono alla spicciolata dallo stabile per far ritorno alle proprie case. Ida è con loro, il figlio piccolo in braccio e l’altro a fianco. Esce dallo stabile per dirigersi verso la macchina. “Non fa tardi che domattina sennò non te sveji manco co le bombe”, mi fa ironica, ma con quella voce che sembra portare sempre un sottofondo di rimprovero. Il faro che dal tetto dell’occupazione spara verso il cancello esterno la irraggia. I tatuaggi che le coprono, disseminati, gli avambracci fino al polso, illuminati da quella luce si manifestano inquietanti. Figure umane e animali stilizzati, simili a graffiti preistorici, si alternano sulla pelle tesa dallo sforzo.

Alcuni disegni sono malamente coperti da altri tratti con fattezze più delicate e artisticamente più evolute. Una tigre che richiama il simbolo della resistenza di Momprachem le riempie l’avambraccio esterno destro, una donna armata di un mitra Sten, presumibilmente una partigiana, con un basco nero e la stella rossa al centro, quello sinistro. Su di lei due, tre vite si davano il cambio, una che provava a prevaricare sull’altra, a affermarsi su quella precedente. Mentre si allontana, arrivata quasi al cancello, ci dà la buona notte, dopo aver rifiutato l’ennesimo nostro invito a restare a bere con noi. Prima di andarsene non riesce a rinunciare a quello che abbiamo cominciato a definire ironicamente “la lezione di vita di Ida”, che suona come un vaticinio. “Oggi è stato bello. Siete stati bravi. Ce voleva proprio. Ma ricordatevi che pochi giorni fa, hanno fatto il massacro a Napoli4. Me posso sbaja, ma a Napoli c’hanno spiegato come funziona Genova”. Sipario Genova

Ida la strega, la veggente, la visionaria pazza, la provocatrice, annunciatrice di sventure. Ida e i suoi cani scomparsi per dare corpo a chissà quali rituali. La sua figura si era circondata di mistero nella nostra comunità. Aveva vissuto in macchina per anni, insieme ai suoi figli, rifiutando l’assistenza alloggiativa del Comune. Poi si era presentata ai nostri sportelli, quelli dai quali componevamo le liste di chi aveva diritto a una casa e il coraggio di andarsela a prendere. Era disposta a occupare una casa, ma non a farsi mettere in un centro insieme ad altre persone assistite. Una separazione alle spalle e forse il carcere. Non amava parlare di sé, o almeno preferiva farlo a modo suo, sentenziando come una fattucchiera.

Aveva ragione, a Napoli ci avevano spiegato come sarebbe andata a Genova. Ora siamo immersi fino al collo nella sua visione. Paola perde sangue dallo zigomo gonfio e livido. Ha bisogno di punti di sutura. Dice di vedere appannato con l’occhio destro. È rimasta lucida fino a quando il nostro salvatore ci ha condotto al riparo, nello scantinato. Sergio si chiama. Da quando ci ha raccolto al cancello si è espresso soltanto a gesti per indicare la strada. Poi, dopo aver aperto la cantina, ha fatto, a voce bassa, come se i muri avessero orecchie o le spie nemiche fossero in agguato, “Rimanete qui, ora vi portiamo da bere”. Poi è sparito. Paola ora sembra smarrita, confusa. I suoi piani sono saltati, deve essere questo. Chiede del suo zaino, sembra ci sia qualcosa di prezioso là dentro. Lo teneva stretto a sé senza accorgersene. Ha bisogno di un medico, urgentemente. La cantina che ci fa da riparo impedisce al telefono cellulare di Mauro di ricevere informazioni dal campo base che ora è il Carlini, dove stanno tornando tutti i dispersi dalle cariche.

L’ultima notizia che ha ricevuto prima di perdere campo riguarda Luca e altri ragazzi feriti. Ora si aggira per lo spazio semibuio con il telefono in mano e il braccio teso a cercare la tacchetta che ci rimetta in contatto col mondo. Molti di quelli che sono stati portati in ospedale sono spariti nel nulla. Qui sotto si respira meglio, la temperatura si è abbassata, per via dei muri spessi. Ci sediamo ognuno dove può. Ci sono cassette di plastica, che possono fare da sedie. Io mi poggio schiena al muro e sguardo verso la porta. È la paura a tenermi vigile, mi aspetto il peggio.

Mi guardo intorno, gli occhi prendono confidenza con l’ambiente che, lentamente, si rischiara. La mia curiosità è selettiva, si concentra sugli oggetti che possono esserci utili qualora la polizia dovesse fare irruzione. La prigione è l’esito meno nefasto, mi ritrovo a pensare. È la storia di questa giornata, delle notizie arrivate a Mauro, del trattamento che ci hanno riservato pochi istanti fa. È saltato tutto, bisogna soltanto capire dove vogliono arrivare. Nelle esperienze passate, anche le più dure, c’è sempre stato un momento in cui la furia della violenza si deposita. La soddisfazione dell’ordine ristabilito, la misura degli arresti, la piazza riconquistata: c’è sempre un momento in cui la politica, o la tecnica, decidono che bisogna mettere un punto all’applicazione della violenza. Ma qui non c’è più argine alla prevaricazione. Siamo stremati e la scomparsa di Luca ci fa precipitare nell’angoscia. Non ce lo diciamo subito, ma nelle nostre fantasie si affacciano le memorie e le immagini peggiori del passato. Sta accadendo qualcosa di straordinario: la Polizia e i Carabinieri non si fermano davanti a nulla.

Rumori di ferraglia, il montante della porta fa resistenza, qualcuno da fuori sta forzando per entrare. Paola si ripara dietro una liberia con gli scaffali pieni di scatole di cartone. Matteo impungna un rastrello poggiato al muro a pochi passi da lui. Sto per dirigermi verso l’entrata e mi guardo intorno per capire se ci sono mobili da usare per bloccarla. Due manate vigorose e la porta si apre. La luce entra insieme alle sagome di due signori anziani, un uomo e una donna, dietro di loro una ragazza, poco più di una adolescente.

Tiriamo un sospiro di sollievo. Riconosco l’uomo anziano, è Sergio. Prendo il vassoio che ha tra le mani, lo deposito a terra e lo abbraccio con vigore. “Ehi tutto bene qui dentro?” Fa la signora, con voce sommessa. Non può saperlo, ma quella domanda ordinaria ci riconsegna una normalità che non pensavamo più possibile. Li assediamo con le domande, siamo affamati, ma nessuno tocca neanche un tozzo di pane. Ci scambiamo le bottiglie d’acqua, bagnandoci il viso, i capelli, i polsi. Il liquido a contatto con i vestiti ravviva l’odore acre dei lacrimogeni e brucia sulla pelle.

Vogliamo sapere cosa sta avvenendo in città e soprattutto chiediamo del ragazzo ucciso. Sergio ci dice che al telegiornale hanno parlato di un ragazzo di venti anni, forse spagnolo, colpito da un proiettile in fronte e di un’altra manifestante ferita gravemente. Anche un Carabiniere sarebbe grave. Descrive filmati in cui manifestanti vestiti di nero sfasciano vetrine, assaltano banche. Anche il carcere di Marassi è diventato bersalgio della loro azione. I black block diventano protagonisti della costruzione mediatica del caos. Racconta, ancora, di quello che hanno visto dalle finestre, dei pestaggi di ragazzi disarmati. Scene che abbiamo vissuto sulla nostra pelle.

Marta, la ragazza, riporta le notizie raccolte da RadioGap5: il corteo che abbiamo lasciato è tornato allo stadio Carlini, caricato durante tutta la ritirata, e in città altri gruppi di manifestanti continuano a scontrarsi con le forze dell’ordine. Dice che dalla radio arrivano notizie allarmanti sui fermati e sulle violenze che stanno subendo. Anche il blocco più pacifico, quello in cui c’era la Rete Lilliput e altri movimenti non violenti, era stato selvaggiamente attaccato dalle forze dell’ordine. Intanto mi avvicino a Paola: Matteo e Francesca provano a farla bere. Troveremo il modo di tornare allo stadio, le dico. Ancora una volta sento che le parole mi escono incerte, mi guarda, con uno sguardo che non le avevo mai visto. Sono gli occhi di una persona arresa: lì dentro la luce che debolmente arriva dalla porta, sembra essere risucchiata e mortificata dalla tristezza.

Mi chiede della ferita. Provo a distrarla dicendo che chi ci ospita troverà il modo di portarci in salvo. Sergio interviene, alcune famiglie del palazzo sanno della nostra presenza e il suo vicino di pianerottolo è infermiere, sicuramente non si tirerà indietro. Date le notizie ricevute da Mauro, portarla in ospedale può essere pericoloso e le cure necessarie devono essere portate dove ci troviamo.

Dopo aver parlato tra di noi arriviamo alla conclusione che dobbiamo separarci: provare a superare insieme lo schieramento delle forze dell’ordine per tornare al Carlini è l’idea peggiore e il progetto di raggiungere la zona rossa deve essere abbandonato, conveniamo. Soltanto Paola non è d’accordo, si accende alle nostre parole di resa, torna a dire che siamo venuti a Genova per raggiungere il vertice del G8. Ma è soltanto un lamento.

Marta propone di accompagnarci al Carlini, usando il suo motorino. Dice che le forze dell’ordine lasciano passare i residenti, anche se i controlli sono molto accurati e capillari. Mauro propone che sia io ad uscire per raggiungere gli altri allo Stadio. Uscendo ti fai un’idea del clima in città e se è opportuno muoverci da qui.

Camionette di carabinieri e Polizia sfrecciano a sirene spiegate sulle strade deserte. Non sembrano far caso ad una sedicenne e a un ragazzo in abiti eleganti a cavallo di una vespa vecchio tipo. I vestiti erano state concessioni di Tiziana, la moglie di Sergio. Quelli vestiti bene neanche li fermano, aveva detto in un dialetto appena comprensibile. Marta guida con prudenza nella città deserta, disseminata dai segni della battaglia che sembra essersi ritirata. Mentre il buio inizia ad avvolgere Genova, i lampioni si accendono all’unisono sulle nostre teste. Superiamo la sede di una banca incendiata, i pompieri sono ancora alle prese con gli ultimi focolai. Fra cinque minuti dovremmo essere arrivati, dice accelerando. In lontananza ancora il boato di una bomba carta. Gli elicotteri vigilano a bassa quota, alimentando ancora di più la sensazione dell’assedio. In fondo alla via si intravede lo stadio, ammucchiati, intorno, palazzoni tutti uguali, e all’orizzonte montagne coperte di un verde intenso. Tra pochi istanti, superato lo schieramento di Polizia che ci separa dalla meta, potrò riabbracciare i miei compagni e dare informazioni utili a chi è rimasto nel limbo dello scantinato. Avverto una sensazione che provo a respingere. La vergogna di interrogarmi su chi, tra me e loro, sia stato più fortunato.


1Il Crew è l’operatore basilare del Mc donald’s. Il tutto fare. Il crew, al momento dell’ assunzione, viene formato in ogni mansione con le precise procedure Mc Donald’s valide in tutto il mondo.

2Swing è un assistente del manager, una sorta di capo turno, si occupa di affidare le mansioni ai crew e non solo; si occupa anche di ordini merce, dirige i lavori mantenendo un equilibrio tra la cucina e la vendita in cassa ha insomma un titolo forte di responsabilità.

3 Tra gli aderenti al Genoa Social Forum compaiono sigle storiche e movimenti recenti del panorama politico e sociale italiano: associazioni di carattere nazionale Arci e Acli, partiti politici della sinistra (Rifondazione Comunista, Verdi, Partito Comunista Italiano), Sindacati (Fiom, Cobas, SinCobas e altri sindacati di base), associazioni studentesche, movimenti femministi, movimenti di carattere religioso (tra cui Pax Cristi, e realtà che si richiamano alla Teologia della liberazione), Associazioni ambientaliste, il panorma dei Centri Sociali occupati e autogestiti, il movimento di occupazione delle case, la Rete Lilliput (che riunisce diversi soggetti impeganti nella cooperazione con il Sud del mondo), Attac, la Chiesta Protestante (unica Chiesa che approva, attraverso il suo Sinodo, una dichiarazione di fede anticapitalista ed ecologista).

4 Il 17 Marzo del 2001 a Napoli si tenne la prima grande manifestazione internazionale contro la globalizzazione neoliberista. Il movimento “No Global” fece il suo ingresso sulla scena nazionale e internazionale, con una serie di manifestazioni ampiamente partecipate. Si protesta contro un vertice di natura politica tra i leader di Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada, e Russia. Si scese in piazza contro il Global Forum, patrocinato dall’ONU e organizzato dall’Italia stessa. Il tema era “l’applicazione delle tecnologie digitali alla pubblica amministrazione”. Il Forum era previsto per il 17 marzo presso Palazzo Reale. Il movimento organizzò le prime iniziative di protesta già il 14. Si aspettava una presenza di qualche migliaio di persone, ne arrivarono più di 30.000, non soltanto da Napoli e dalle altre città italiane, ma anche dalla Germania, Olanda, Francia, Svizzera. Le violenze iniziarono il 24, ma fu soprattutto il 17 marzo che alcuni reparti di Polizia e Carabinieri diedero vita ad una azione represssiva senza precedenti. Violenze in piazza e torture nei luoghi di segregazione dei manifestanti fermati, sono diventati oggetto di inchieste da parte del movimento e della Magistratura.

Cfr. http://www.osservatoriorepressione.info/17-marzo-2001-napoli/

5Global Audio Project è stata la radio che ha informato su tutti gli avvenimenti relativi al controG8/Genova. E’ stato un’esperimento di radio comunitaria diffusa via rete e via etere. E’ nata in vista delle giornate di luglio dalla collaborazione tra Radio Black Out (Torino), Radio Ciroma (Cosenza), Radio Città 103-Radio Fujiko (Bologna), Radio K Centrale (Bologna), Radio Onda d’Urto (Brescia e Milano), Radio Onda Rossa (Roma), Agenzia AMISnet (Roma), Agenzia MMC 2000 (Firenze) e agenzie di informazione e legate alla comunicazione dei movimenti antiglobalizzazione economica.

Gianluca Peciola

19/5/2021 https://www.intersezionale.com

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