Gaza un anno dopo le bombe: il ricordo di un medico.

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Roma, 1 luglio 2015, Nena News – Durante la guerra dello scorso anno gli ospedali della Striscia di Gaza si sono trasformati in una palude di morti viventi e non sono sfuggiti ai mirini degli F 16 israeliani che, in violazione del diritto internazionale, umanitario e di guerra, hanno sganciato bombe della portata di una tonnellata.

Anche le ambulanze sono state colpite. Uno dei medici in servizio durante l’operazione israeliana “Margine Protettivo” è stato Saher Abughali, un cardiochirurgo dell’ospedale di Khan Younis, che ha vissuto per oltre 10 anni a Torino e si è laureato con una specializzazione in cardiochirurgia. Quando sono cominciati i bombardamenti Saher  era di turno ed è rimasto intrappolato nell’ospedale per 15 giorni, non potendo raggiungere i due bambini e la moglie a Rafah. Le linee telefoniche erano in disuso. L’ospedale era stracolmo di uomini, donne e bambini martoriati dalle bombe. “La gente arrivava in ospedale in condizioni disumane, alcuni con gli arti tritati, altri con l’intestino che ciondolava dalle ferite”.

I medici e gli infermieri degli ospedali della Striscia non godono di nessun tipo di supporto psicologico per affrontare simili emergenze. “Un giorno è arrivata in ospedale la sorella di un mio caro collega, che era di turno. Aveva le gambe completamente macinate perché era rimasta intrappolata sotto le macerie della propria casa. Mi diceva di non avvertire il fratello – che era in servizio con me – poiché non voleva che la vedesse e di lasciarla morire. Nel frattempo è arrivato il mio collega. L’abbiamo sistemata su una barella nel pronto soccorso, stracolmo, ed abbiamo tentato di cucire dove possibile. La gamba sinistra era senza dubbio da amputare. Ed abbiamo proceduto. Poco dopo l’operazione, la donna è morta e qualche minuto dopo è arrivato il suo bambino avvolto in lenzuolo, a pezzi”.

Durante i bombardamenti della scorsa estate arrivavano all’ospedale bambini morti, storpiati dalle esplosioni, ed erano talmente tanti che i medici furono costretti a sistemare i cadaveri nei frigoriferi delle mense. “Operavamo senza pausa ed ogni paziente aveva ovviamente necessità diverse – continua il medico -. Mi sentivo un macellaio. Tagliavo, cucivo, amputavo. Fino alla settimana prima, ero ‘semplicemente’ un cardiochirurgo. Tutto il personale ospedaliero era in stato di shock. Nessuno era al sicuro. Alcuni colleghi sono morti in ambulanza”.

Il dottor Abugali abita a Rafah. A 20 metri da casa sua un missile ha distrutto un intero palazzo. “Siamo vivi per miracolo – spiega -. Perché non eravamo in casa al momento dell’esplosione”. A Rafah è stato bombardato anche un parco giochi per bambini. I genitori avevano portato i loro piccoli al parco, per tentare di offrirgli qualche minuto di svago durante quelle giornate di terrore. Era una giornata di “festa” per i palestinesi, vista la fine del Ramadan. Quella mattina le bombe sono cadute sulla testa di quei genitori e di quei bambini.

Perfino la Croce Rossa Internazionale ha ceduto alla guerra, abbandonando interi villaggi che non sono stati soccorsi. “Quando le bombe hanno distrutto l’impianto idrico ed elettrico dell’ospedale – spiega Abugali – abbiamo richiesto un intervento di estrema urgenza della CRI, ma non abbiamo neanche avuto risposta”. Non c’erano acqua, elettricità, fognature. A causa dei bombardamenti l’impianto idrico e quello elettrico avevano subito danni molto gravi ma grazie all’intervento di alcune ONG sono attualmente funzionanti. Alcuni infermieri fanno ancora fatica a parlare di quelle giornate ed ogni raid aereo da parte dell’esercito è una tortura mentale e spirituale. “Ogni volta che vediamo volare F-16 sulle nostre teste, temiamo che possa ripetersi l’orrore disumano di quei giorni”.

Eleonora Pochi

Nena News

 

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