Ghedi, sempre più inquietante la presenza di bombe nucleari B61-12

La prova della presenza di ordigni nucleari nella base militare di Ghedi risale alla fine del 2018, quando una fotografia apparve, per essere rimossa poco dopo, sulla pagina Facebook non-ufficiale del Sesto Stormo Ghedi “Diavoli Rossi”. Nell’immagine si vedeva un gruppo di militari americani schierati in tre file, un tornado italiano, un camion scuro e una bomba che, stando alle ipotesi, era proprio una testata nucleare B61.

Della presenza di armi nucleari nella base militare di Ghedi se ne parla ormai da tantissimi anni, all’interno come all’esterno dei confini nazionali, ma la prova e la conferma ufficiale non c’era mai stata. La svolta è arrivata l’anno scorso quando alcuni membri dell’Assemblea Parlamentare della Nato, l’11 luglio 2019, hanno pubblicato un documento sulla deterrenza nucleare, finendo per rivelare un segreto che era tenuto nascosto da decenni. Il documento confermerebbe, per la prima a volta, la presenza nella base di Ghedi di testate nucleari americane. Un passaggio del rapporto interno, che è stato successivamente eliminato, tratterebbe esplicitamente delle 150 armi nucleari americane nello specifico bombe B61, che si trovano in Europa e verrebbero esplicitamente menzionate le loro posizioni tra cui la base militare di Ghedi e di Aviano (Friuli Venezia Giulia). Il passaggio è poi stato modificato e nella nuova versione sono stati tolti i riferimenti alle basi italiane e alle esatte posizioni in cui si trovano le armi.

La presenza sul suolo italiano delle testate nucleari sarebbe un retaggio della Guerra Fredda e di quella che gli storici chiamano “americanizzazione dell’Europa”, poiché le bombe servirebbero per bilanciare il “gran numero di armi nucleari” possedute dalla Russia. Nell’ipotesi di un attacco nucleare verrebbero impiegate dai cacciabombardieri Tornado dei “Diavoli Rossi” del 60° stormo dell’Aeronautica militare italiana presenti a Ghedi. Gli stessi che sono stati impegnati in missioni militari tra il Kuwait e l’Iraq.

Nelle basi militari di Ghedi e Aviano, sono custodite circa 40 bombe nucleari americane. E, in caso di incidente, è proprio il Ministero della Difesa a stimare che le persone raggiunte dal fungo radioattivo potrebbero essere dai 2 ai 10 milioni, a seconda della propagazione del vento e dei tempi di intervento. Uno scenario veramente inquietante. Anche se non abbiamo ancora pagato i danni di un disastro nucleare, per la custodia di queste bombe stiamo già pagando un prezzo molto alto.

Greenpeace, con la sua Unità Investigativa è andata a fondo di questa vicenda e ha rivelato il prezzo nascosto della custodia delle armi nucleari nel nostro paese: circa 100 milioni l’anno, che corrispondono a circa 5.000 ventilatori o 4.500 letti di terapia intensiva. Ogni anno il nostro Paese spende quasi 6 miliardi per acquistare portaerei, F-35, elicotteri, missili e, nell’ipotesi che l’Italia rimpiazzi i Tornado di Ghedi con 20 velivoli F-35 ai compiti nucleari, il costo per l’acquisto e l’utilizzo dei nuovi cacciabombardieri lieviterebbe a circa 10 miliardi di euro per i prossimi 30 anni.

Un video, pubblicato il 23 novembre dai Sandia National Laboratories, mostra un test effettuato il 25 agosto 2020 nel poligono di Tonopah nel deserto del Nevada. Un caccia Usa F-35A, volando a velocità supersonica a 3.000 metri di quota, lancia una bomba nucleare B61-12 dotata, per il test, di testata non-nucleare. La bomba, a differenza di quelle di Hiroshima e Nagasaki che cadono verticalmente, plana finché nella sezione di coda si accendono dei razzi che le permettono il moto rotatorio. Guidata da un sistema satellitare, la bomba punta l’obiettivo che colpisce entro 42 secondi. Si tratta della prova di un attacco nucleare che i caccia potranno effettuare a velocità supersonica, con le bombe nucleari collocate nella stiva, per penetrare attraverso le difese nemiche. Una vera e propria perversione.

La B61-12 ha una testata nucleare con quattro opzioni di potenza selezionabili al momento del lancio a seconda dell’obiettivo da colpire; ha la capacità di penetrare nel sottosuolo esplodendo in profondità per distruggere strutture sotterranee; e ha la capacità di distruggere per esempio, se lanciata a Milano, qualsiasi forma vivente in Lombardia. Ovviamente la loro presenza sul nostro territorio è giustificata dal dogma, dalla religio civilis della “sicurezza”.

Tanto per cambiare, di questa bomba è stata ufficialmente annunciata la produzione in serie che comincerà l’1 ottobre 2021. Il programma del Pentagono prevede la costruzione di circa 500 bombe B61-12, con un costo di circa 10 miliardi di dollari.

Più di 3 anni fa, il progetto guerrafondaio varato dall’allora ministra della Difesa Pinotti, prevedeva lo schieramento di almeno 30 caccia F-35A, pronti al decollo per ogni evenienza. Ora, l’inizio dei lavori per la realizzazione dell’aereo-base militare di “quinta generazione” a Ghedi prevederà di ospitare F-35A dell’Aeronautica italiana e della US Air Force, armati delle nuove bombe nucleari statunitensi B61-12 per un valore totale che si aggirerebbe intorno ai 4 miliardi di dollari. Saranno 60 le testate nucleari che verranno ospitate a Ghedi e sostituiranno quelle già esistenti. Ad ora però non si sa quante B61-12 verranno schierate dagli Usa in Italia, Germania, Belgio e Olanda per sostituire le B61, poiché il numero degli ordigni è segreto.

Nel frattempo, nelle basi aeree di Luke in Arizona e Eglin in Florida, alcuni piloti italiani vengono già addestrati all’uso degli F-35A anche per missioni di attacco nucleare sotto comando USA. Come documenta la US Air Force di volo di un F-35A ci costa oltre 42.000 dollari all’ora, ciò significa che solo le 5.000 ore di volo effettuate dagli F-35 di Amendola sono costate agli italiani circa 180 milioni di euro.

Un recente sondaggio Ipsos sugli italiani ha riportato che l’80% degli intervistati è contrario ad ospitare le bombe atomiche americane e ad avere cacciabombardieri in grado di utilizzarle. In più la stragrande maggioranza degli intervistati (8 su 10) vuole che il nostro Paese aderisca al Trattato per la Proibizione delle Armi Nucleari (TPNW), un accordo adottato in sede ONU che gli Stati nucleari e i loro alleati hanno boicottato sin dai lavori preparatori.

Ma cosa farà l’Italia? Si inchinerà ai voleri della NATO, la cui nascita è avvenuta grazie al Patto Atlantico, che negli ultimi mesi è stato elogiati con tutti gli onori dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, sia durante la visita del Segretario di Stato Mike Pompeo, sia nei talk-show, sia in interviste. Sicuramente il Recovery Fund, tanto amato dalla maggioranza di governo, aiuterà l’Italia in questa operazione militare.

L’Italia continuerà a violare l’articolo 11 della nostra Costituzione e continuerà a violare il Trattato di non-proliferazione a cui ha aderito nel 1975 in cui si impegnava a «non ricevere armi nucleari né il controllo su tali armi, direttamente o indirettamente». L’Italia continuerà a rifiutarsi di ratificare il Tratto di Proibizione delle Armi Nucleari dell’ONU del 2017 che entrerà in vigore il 22 gennaio 2021, firmato da 50 Paesi rigorosamente non appartenenti alla NATO, che chiaramente afferma: «Ciascuno Stato che abbia sul proprio territorio armi nucleari, possedute o controllate da un altro Stato, deve assicurare la rapida rimozione di tali armi».

Oltre ai movimenti pacifisti, ai movimenti sociali, ad alcuni sindacati e alla sinistra radicale, solo l’onorevole Sara Cunial (Gruppo Misto) ha presentato una interrogazione a risposta scritta alla Presidenza del Consiglio e ai Ministeri della Difesa e degli Esteri sul tema, pretendendo una presa di posizione.

Lorenzo Poli

Collaboratore redazionale di Lavoro e Salute

10 dicembre 2020

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