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Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sinistra Europea, Cronache Sociali, Culture, Politiche di Rifondazione, Storia e Lotte — Gennaio 18, 2020 10:00 am

Dalla Thatcher a Blair, il welfare è stato progressivamente trasformato in workfare. Oggi la nuova insidia per i soggetti a rischio povertà del Regno Unito è la digitalizzazione del metodo di erogazione dei contributi sociali

Gli algoritmi smantellano lo stato sociale britannico

Pubblicato da franco.cilenti
 

In principio era la Thatcher. Durante gli anni Ottanta, la prima ondata di neoliberismo si abbatteva con violenza sul Regno Unito. La lady di ferro presentava allora un ventaglio di misure restrittive e punitive, chiamato letteralmente Stricter Benefit Regime; un primo, durissimo attacco al modello Beveridge, dal 1942 padre del Welfare State britannico. Fu in quegli anni che le maglie degli ammortizzatori sociali cominciarono a restringersi, allungando i tempi di attesa e i periodi di prova per chi cercava lavoro.

I sussidi di disoccupazione [Jobseekers Allowance, Jsa] in vigore dal 1996, servirono infatti a restringere tanto i contributi economici quanto i criteri di eleggibilità, forzando i disoccupati in contratti sottopagati e indirizzandoli in programmi governativi. I cosiddetti jobseekers agreements richiedevano ai beneficiari del sussidio un’attiva ricerca dell’impiego, e la compilazione obbligatoria di un resoconto che comprovasse l’impegno costante nel cercare lavoro [Jobsearch Diary]. Un potente strumento di coercizione che arrivava a inibire il sussidio ai beneficiari qualora si rifiutassero di prendere parte in schemi lavorativi governativi, o se schiacciati dalla difficoltà dei processi di ammissione.

Le politiche neoliberali del partito Conservatore riuscirono a cooptare i sentimenti lavoristi del paese e persino a convincere l’opposizione, dal ‘94 guidata da Tony Blair. Nello stesso anno, Blair faceva pubblicare infatti il report della Commissione sulla Giustizia Sociale, in cui venivano delineati i primi tentativi del New Labour di unire «l’etica della comunità alla dinamica dei mercati», verso la costruzione di una società in cui il lavoro diventasse sempre più centrale nelle politiche di welfare, fino a sostituirle, e in cui il capitale umano venisse sfruttato al meglio negli impieghi più utili alla crescita economica. In fin dei conti, ci ricordava Blair, «il lavoro va al più qualificato», ed è importante fornire agli individui gli strumenti adatti per affrontare il mercato del lavoro.

La propaganda in favore di una compulsiva difesa del lavoro, più o meno retribuito, imbevuta di una forte retorica di comunitarismo, fece vincere le elezioni nel ‘97 al New Labour di Blair, che in tutta continuità con quanto fatto dai tories prima di lui esponeva al paese la responsabilità collettiva della lotta alla disoccupazione.

La Terza Via del Labour non fece altro che adottare il modello conservatore, cercando di riconciliare le politiche economiche neoliberali in favore delle imprese con un’idea di fondo basata sulla giustizia sociale. Fallendo miseramente: combinava infatti politiche interventiste e progressiste con l’attenzione tipica della destra verso la deregolamentazione del mercato del lavoro, con lo scopo di unire i servizi per l’impiego alle politiche sociali in un’unica agenda, il Jobcentre Plus.

Il Jobcentre Plus si regge ancora oggi sull’idea che il cittadino sia un cliente a cui vendere un prodotto, e che la parola chiave in risposta alla disoccupazione e alla povertà non sia «redistribuzione» ma «opportunità». E, per dirlo con le parole dello stesso Blair durante il suo discorso di insediamento, se il Governo ha il dovere di offrire delle opportunità, ai cittadini spetta la responsabilità sociale di accettarle, o per meglio dire, di accettare le condizioni lavorative che gli vengono sottoposte. Tra il 2005 e il 2006, ben 700.000 persone sono state spinte a tornare al lavoro, volontariamente o forzatamente. Con il Jobcentre Plus voluto dal New Labour, le work-focused interviews che attestano il diritto ai sussidi e l’inabilità lavorativa diventano infatti  molto più rigide e più intrusive, rendendo i sussidi di disabilità più difficili da ottenere.

La politica di welfare del New Labour è dunque un sistema centralizzato basato esclusivamente su principi di condizionalità e obblighi lavorativi, che oggi rendono chiaro il triste sposalizio tra politiche del lavoro e neoliberismo. Il trentennio d’oro del liberismo, nella sua accezione economico-ideologica, non ha infatti soltanto divulgato il culto del libero mercato, dei valori imprenditoriali, dell’empowerment individuale e della resilienza del mercato che si auto-regola; ha permesso, sulla base di questi princìpi, di rimpiazzare il diritto al welfare con l’obbligo al workfare. Una partecipazione forzata a un contratto di lavoro scadente e opprimente come condizione necessaria del supporto statale. Un’estensione della prigione, un Panopticon che per Wendy Brown e Loic Wacquant si estende ormai a tutte le sfere del welfare, dal mondo sociale a quello sanitario.

Ma uno stato che punisce, uno stato che sorveglia, non è necessariamente uno stato che non si innova. E infatti la novità del tardo neoliberismo non è tanto la produzione di disuguaglianze economiche, di stigma sociale e l’introduzione di regimi comportamentali, ma piuttosto la loro automazione. Nel 2010 infatti è stato introdotto nel Regno Unito il Credito Universale (Uc), disegnato dal segretario di stato del Dipartimento Lavoro e Pensioni (Dwp) Sir Ian Duncan Smith per sostituire e automatizzare i sei maggiori contributi sociali nel paese, informatizzando i servizi che fino al 2011 venivano offerti dal Jobcentre Plus. Così facendo, secondo i tories, l’Uc dovrebbe spingere più persone a cercare lavoro, riducendo frodi, errori e costi amministrativi, il tutto oliato dalla digitalizzazione del sistema di compilazione dei moduli della richiesta e dell’analisi del candidato.

Mentre i collettivi cittadini si sono mossi tempestivamente, giornali e istituzioni hanno adottato una strategia più cauta nella denuncia di questi automatismi, fino a che i bias del sistema non sono divenuti troppo grandi da nascondere. Nel 2018, la Commissione sui Diritti Umani delle Nazioni Unite si è sbilanciata nel definire i sistemi digitali di protezione sociale britannici un’ulteriore minaccia per gli individui già a rischio di povertà.

Gli investimenti governativi milionari versati nello sviluppo delle intelligenze artificiali danno un’idea delle priorità dell’amministrazione tory degli ultimi anni. Il «digitale di default» implica infatti il concreto rischio di lasciare indietro coloro che contano di più sui servizi di welfare e che dal digitale tendono a essere più esclusi. Solo il 47% dei richiedenti assistenza con reddito minimo ha una banda larga a casa; un individuo su cinque è considerato «analfabeta informatico» e circa il 50% dei beneficiari dell’Universal Credit ha delle difficoltà nel compilare i moduli di assistenza online.

L’opacità intrinseca degli algoritmi rende gli errori amministrativi sempre più endemici e capaci di riprodursi. La poca possibilità di revisione dell’errore deresponsabilizza l’amministrazione pubblica, che diviene ormai un’entità astratta. Se i dettagli del beneficiario risultano in più pratiche, l’algoritmo fa saltare i benefici, senza tenere conto dell’errore umano. Se alcuni dati vengono riportati erroneamente, i sussidi vengono sospesi. E se il beneficiario fosse registrato come disoccupato, l’algoritmo potrebbe arrivare a negargli i benefici, qualora controllandone i social media risultasse «in vacanza». Il Dwp ha rifiutato di spiegare in che modo e in quale misura vengono raccolti i dati sui cittadini, riferendo solo che si tratta di una «misura olistica» che raccoglie informazioni da agenzie statali e organizzazioni private.

Il problema, con cui i data scientists si stanno già confrontando, è dunque di natura epistemologica. Se lo stato sociale del dopoguerra sta per essere interamente cancellato dalla logica degli algoritmi, la colpa è anche della fede, tipica delle élites economiche e culturali, in una techné imparziale ed efficiente. Tutto è quantificabile, tutto è oggettivo, tutto è dimostrabile, tranne il fatto che un operaio metallurgico malato di asbestosi sia effettivamente impossibilitato a lavorare, perché anche alcuni casi di «fit to work» vengono analizzati da una macchina. Per Cathy O’Neil, non è una coincidenza che le masse vengano amministrate sempre di più da algoritmi, mentre le élites possono godersi il privilegio di un servizio offerto da umani. Al tempo dell’austerity, si tratta di una precisa volontà politica.

Emergono inoltre problemi di natura strutturale. I casi di povertà più estrema tendono a colpire maggiormente le minoranze: il 52% dei nuclei familiari afro-caraibici e il 47% di quelli bangladesi guadagnano meno di trecento sterline a settimana. I tagli alla spesa pubblica e ai sussidi non fanno altro che rinforzare il divario economico che esiste già tra gruppi etnici africani e asiatici, in un circolo vizioso fortemente intersezionale, poiché razza, genere e disabilità non possono essere considerate avulse dalla classe di appartenenza. Se per esempio una donna con diritto di sussidio si trasferisce a casa di un partner che già gode degli stessi benefici, questi ultimi vengono interrotti: il capofamiglia, unico beneficiario del sussidio, viene necessariamente identificato come un uomo. L’Uc penalizza inoltre le famiglie più numerose – statisticamente più probabili di appartenere a minoranze etniche – che vedono i loro benefici condensati in un unico pagamento ridotto, esponendo i minori a ulteriore povertà. Due figli sono il limite massimo per queste famiglie, e non ricevono assistenza per il terzo figlio neanche le donne che partoriscono in seguito a uno stupro.

Il tutto si riversa in una geografia sociale che i sistemi di welfare digitale debilitano sempre di più, andando a colpire proprio gli spazi urbani e concettuali in cui queste vulnerabilità tendono a concentrarsi e a cementificarsi.

Il Regno Unito ha accolto con interesse la scienza dei dati all’interno dell’amministrazione pubblica, atomizzando l’individuo in un soggetto arbitrario e facilmente controllabile. Un neocolonialismo interno che si basa sull’estrazione di dati sensibili crudi, di risorse trovate in «natura», out there, nelle periferie e nelle fragilità umane, che non fanno altro che aumentare la frattura tra coloro che hanno (sempre) meno competenze digitali e chi questi corpi invece li amministra.

In campagna elettorale, Corbyn e Johnson hanno duellato anche su questo tema. Il Labour Party ha dichiarato di volersi disfare delle clausole disumane dell’Uc, investendo tre miliardi di sterline nelle reti di assistenza economica e introducendo pagamenti cuscinetto per aiutare le persone durante le canoniche cinque settimane di attesa dei pagamenti. Tuttavia, la narrativa tossica anti-welfare dei Conservatori e le leggi disciplinari tipiche dell’austerity hanno convinto un paese in cui ci sono più food banks che McDonalds. Quello dell’automazione delle disuguaglianze è diventato a tutti gli effetti un problema globale, che rivela la pratica di tradurre precise scelte politiche nell’innovazione tecnologica. Il neoliberismo è riuscito infatti, come direbbero Stuart Hall e Ruth Wilson Gilmore, ad accoppiare fatalmente scienza, mercato e politiche sociali. E i prossimi anni di Johnson al governo non promettono nulla di buono da questo punto di vista.

Tommaso Grossi

Studente di Master alla London School of Economics.

16/1/2019 jacobinitalia.it

Tags: algoritmo austerity Blair Boris Johnson Brexit emigrazione italiana food banks Generazione Erasmus Jeremy Corbyn jobseekers agreements Labour party lavoratori britannici Neoliberismo precariato sfruttamento lavoro sistema sanitario inglese Thatcher Tommaso Grossi Unione Europea welfare workfare ’empowerment
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Autore: franco.cilenti
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