Gli effetti di un’uscita dall’euro su crescita, occupazione e salari.

1. Con l’austerity l’euro non regge

È dalla fine del 2007 che l’eurozona ha smesso di crescere e i processi di divergenza tra i Paesi centrali e quelli periferici si fanno sempre più impetuosi[1]. Continuando con le politiche economiche di austerità imposte dai Trattati la crisi dell’eurozona è solo questione di tempo[2]. D’altra parte, la permanenza dei paesi periferici nell’euro, nel quadro delle politiche restrittive, produce effetti sociali ed economici drammatici. Il caso italiano è eloquente: stiamo assistendo a un lento, progressivo, declino; con una economia ampiamente decresciuta, la disoccupazione dilagante, una distribuzione del reddito sempre più diseguale, la ritirata dello stato sociale. Certo, cambiare il segno delle politiche europee sarebbe senz’altro l’opzione migliore. Ma si tratta di una soluzione politicamente sempre meno probabile, dal momento che la Germania e i suoi paesi-satellite continuano a respingere ogni apertura in tal senso. Bisogna quindi domandarsi quali potrebbero essere le conseguenze di una fuoriuscita dall’euro.

Naturalmente, non è semplice prevedere gli scenari successivi a una crisi dell’euro. Anche perché molto dipenderebbe dalla possibilità che l’euroexit coinvolga uno o più Paesi, e grande rilievo avrebbe il “peso” economico-politico di tali paesi. Ancora, le cose cambierebbero molto se le fuoriuscite fossero o meno coordinate e se sfociassero o meno in uno o più accordi di cambio. Ed è inutile dire che su tutto ciò per adesso si brancola nel buio.

Qualche passo avanti tuttavia possiamo farlo, a patto di scansare la trappola degli opposti furori ideologici. Evitando insomma sia di cadere nell’irrazionalismo catastrofista dei sostenitori dell’euro a tutti i costi sia nell’ingenua idea che l’euro sia l’origine di tutti i mali, per cui l’uscita dall’eurozona risolverebbe tutti i mali. Rimanendo saldamente nel campo degli approcci scientifici, alcuni economisti sono al lavoro su complessi modelli previsionali. Ma questa modellistica ha spesso in passato dato prova di limiti, dipendenti dalle ipotesi più o meno “eroiche” su cui i modelli poggiano. D’altronde la teoria economica non fornisce risposte univoche. Infatti, i fondamenti di teoria economica ci insegnano che la fuoriuscita di un paese dall’euro e il ritorno alla vecchia moneta, con un cambio iniziale di uno a uno, dovrebbe portare subito a un deprezzamento della moneta rinata, che diverrebbe così più a buon mercato rispetto alle altre valute. Ciò dovrebbe favorire le esportazioni del Paese e limitarne le importazioni, migliorando il saldo della bilancia commerciale, spingendo la crescita e una maggiore occupazione. In che misura però l’abbandono degli accordi di cambio e le svalutazioni aumentino effettivamente la crescita è oggetto di infinite dispute. La svalutazione aumenta il costo dei beni importati e per questa via tende a incrementare il livello dei prezzi interni (quindi il prezzo delle stesse esportazioni), riducendo il vantaggio competitivo. A complicare le cose, si aggiungono gli effetti redistributivi della svalutazione, sui quali pure vi è ampio dibattito. L’aumento del livello generale dei prezzi interni che tende a seguire la svalutazione tende ad esempio a ridurre il potere di acquisto dei salari monetari. La riduzione dei salari reali può generare (in presenza di meccanismi di adeguamento dei salari ai prezzi o per la reazione dei sindacati) una pressione al rialzo dei salari monetari e ciò potrebbe accentuare l’inflazione, erodendo ulteriormente il vantaggio competitivo della svalutazione. Inoltre, la caduta della quota salari sul pil (wage share) può determinare una riduzione della domanda interna di beni di consumo e ciò tenderebbe a ridurre la crescita. Per non parlare dei potenziali effetti sul costo del debito pubblico e sul rischio-fallimento di quei soggetti che hanno elevate quote di debito in valute estere, il cui costo con la svalutazione evidentemente si impenna.

Andiamo allora al di là delle dispute teoriche e, considerata la debolezza intrinseca dei modelli previsionali, rivolgiamoci all’esperienza storica di cui siamo in possesso. Infatti, per quanto mai si sia registrata la rottura di una esperienza simile all’euro, alcune importanti indicazioni possono essere tratte dalle crisi valutarie del passato che più si avvicinano al nostro caso.

A questo scopo, prendiamo in considerazione quelle crisi valutarie che nella storia recente hanno comportato ampie svalutazioni del tasso di cambio e che si siano accompagnate ad abbandoni di precedenti accordi o sistemi di cambio[3]. Concentrando l’attenzione sulle crisi valutarie successive al 1980, esistono ben 28 casi di ampie svalutazioni – superiori al 25% rispetto al corso del dollaro[4] – che hanno comportato l’abbandono dei precedenti sistemi di cambio[5]. Di questi, 7 casi hanno convolto paesi ad alto reddito pro capite (Australia 1985, Finlandia 1993, Islanda 1985, Italia 1993, Corea del Sud 1998, Spagna 1983 e Svezia 1993) e 21 casi hanno interessato paesi a basso reddito pro capite (Argentina 2002, Bielorussia 1999, Brasile 1999, Cile 1982, Costa Rica 1981 e 1991, Egitto 2003, Guatemala 1990, Honduras 1990, Indonesia 1998, Kazakistan 1999, Messico 1995, Paraguay 1989, Perù 1988, Polonia 1990, Romania 1990, Sud Africa 1984, Suriname 1994, Turchia 1999, Uruguay 1982 e 2002).

Alla luce delle statistiche descrittive riportate qui di seguito, vediamo cosa insegna l’esperienza storica delle maggiori crisi valutarie cui abbiano fatto seguito svalutazioni importanti e connessi abbandoni dei precedenti sistemi di cambio.

2. L’inflazione erode progressivamente il vantaggio delle svalutazioni

La prima cosa da verificare è in che misura le crisi valutarie tendano ad innescare processi inflazionistici e quanto questi ultimi possano vanificare gli effetti positivi della svalutazione. Per sviluppare l’analisi, consideriamo i deprezzamenti rispetto al dollaro nei nostri 28 casi e poi il differenziale tra l’inflazione USA e quello di ciascun Paese.

Ebbene, nell’esperienza storica che stiamo considerando si è avuto un valore medio delle svalutazioni rispetto al dollaro addirittura pari al 558%, il che significa che le crisi valutarie hanno portato a un deprezzamento delle valute interessate dalla crisi di circa cinque volte e mezzo rispetto al dollaro (Tabella 1). Ma è bene tenere l’attenzione principalmente su cosa è accaduto nei paesi ad alto reddito, che evidentemente ci forniscono le maggiori indicazioni per il nostro caso, anche perché la differenza con le dinamiche dei paesi a basso reddito è rilevante. Infatti, il deprezzamento delle valute nei paesi ad alto reddito è stato contenuto intorno al 32%. Ad esempio, la lira italiana si deprezzò, nel 1993, del 27,69% rispetto al dollaro[6].

Ma ciò che più conta è la diversa reattività dell’inflazione, che viene descritta in letteratura con il coefficiente di trasmissione del cambio all’inflazione (pass-through). Infatti, come conferma l’esperienza storica, le svalutazioni danno spesso luogo a processi inflazionistici significativi. Basti notare che nell’anno della crisi valutaria si registra complessivamente un differenziale di inflazione di circa il 58% rispetto agli USA (si veda ancora la Tabella 1), ed entro soli due anni il differenziale di inflazione risulta essere intorno al 450%, mangiando così l’80% del guadagno competitivo legato alla svalutazione. Anche in questo caso però, vi è una differenza non trascurabile tra l’esperienza dei paesi ad alto reddito e quelli a basso reddito. Infatti, nei paesi ad alto reddito il differenziale di inflazione è pari al 6% nel primo anno e non raggiunge il 16% dopo tre anni. Si conferma quindi che le svalutazioni tendono a innescare significativi processi inflazionistici, che risultano però più attenuati nei paesi ad alto reddito, dove entro due anni dalla crisi l’inflazione erode l’effetto della svalutazione in una misura che sfiora il 50%.

Ma stabilire regole rigide è impossibile. Guardando infatti ai casi specifici dei Paesi ad alto reddito, si osserva che la casistica è eterogenea. In alcuni casi, infatti, nonostante un deprezzamento superiore al 25% rispetto al dollaro non si registra un divario di inflazione significativo con gli USA (Finlandia, Corea, Svezia); in altri casi, la fiammata inflazionistica è contenuta (come l’Italia del 1993 nella quale, dopo tre anni, il differenziale inflazionistico cumulato si limitava al 5,7%); in altri ancora, è piuttosto spiccata (Australia, Spagna e soprattutto la piccola Islanda, unico caso tra i paesi ad alto reddito in cui dopo tre anni il differenziale di inflazione supera il valore della svalutazione)[7].

Tabella 1
Svalutazioni e differenziali di inflazione nei 28 casi di crisi valutarie (anni 1980-2013)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Banca Mondiale

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3. La bilancia commerciale migliora 

C’è quindi da attendersi che un primo positivo effetto di un abbandono dell’euro riguarderebbe il miglioramento della bilancia commerciale, legato alla crescita delle esportazioni e alla tendenziale riduzione delle importazioni.

Per avere le idee più chiare riprendiamo la nostra casistica storica e operiamo un confronto tra la media del saldo della bilancia commerciale (esportazioni meno importazioni) rispetto al Pil nei due e tre anni precedenti e successivi alle crisi valutarie. In realtà, come si osserva nella Tabella 2, i paesi a basso reddito non hanno tratto grandi vantaggi dalle svalutazioni, considerato che i saldi della bilancia commerciale si muovono in media molto poco. Ben diversa la conclusione per i paesi ad alto reddito, nei quali evidentemente le crisi valutarie tendono a non avere gli effetti rovinosi (anche sugli assetti istituzionali e politici) sperimentati nei paesi a basso reddito. Infatti, nei paesi ad alto reddito il saldo della bilancia commerciale migliora vistosamente, mediamente di oltre tre punti di pil prendendo come riferimenti temporali i due anni e i tre[8]. Con una sola eccezione (Australia 1985), la bilancia commerciale migliora all’indomani delle svalutazioni.

Tabella 2
Saldo della bilancia commerciale – Valori medi rispetto al Pil nei due e tre anni precedenti e successivi alla crisi (anni 1980-2013)
Fonte: nostre elaborazioni su dati Ameco – Commissione Europea e dati Banca Mondiale

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4. Le esportazioni spingono la crescita, ma non sempre

I miglioramenti della bilancia commerciale che seguirebbero l’uscita dall’euro dovrebbero impattare positivamente sulla crescita. Questo almeno è ciò che l’analisti storica tende a mostrarci, una volta che mettiamo a confronto il tasso medio di crescita registrato nei due e nei tre anni precedenti alla crisi con quello registrato nei due e tre anni successivi.

In realtà, per l’insieme dei 28 casi storici considerati, non si registrano risultati positivi. Tuttavia, disaggregando i paesi ad alto reddito da quelli a basso reddito, ancora una volta possiamo verificare effetti molto diversi (Tabella 3). Infatti, diversamente da quanto accade nei paesi a basso reddito, nei paesi ad alto reddito il tasso medio di crescita aumenta in maniera apprezzabile, passando dall’1,2% dei due anni antecedenti alla svalutazione al 2,2% dei due anni successivi. Una accelerazione della crescita ancora più marcata si ha nell’orizzonte dei tre anni precedenti e successivi, allorché la crescita passa mediamente dall’1,4% al 3,2%. Complessivamente, quindi, i paesi ad alto reddito, spinti dalla bilancia commerciale (che viceversa non migliora nei paesi a basso reddito), hanno aumentato significativamente i ritmi di crescita. Ma a riguardo, l’esperienza storica induce prudenza nelle valutazioni. Infatti, è opportuno notare che non tutti i paesi ad alto reddito hanno registrato aumenti del tasso di crescita. Tra questi l’Italia, benché avesse incassato dopo la svalutazione un aumento del saldo della bilancia commerciale superiore ai tre punti di pil.

Tabella 3
Tasso di crescita del Pil – Valori medi nei due e tre anni precedenti e successivi alla crisi (anni 1980-2013)
Fonte: Ameco – Commissione Europea, Banca Mondiale

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5. L’occupazione spesso non cresce

A fronte di queste indicazioni per alcuni aspetti positive sulla competitività, sul saldo della bilancia commerciale e sulla crescita, gli effetti occupazioni non sono rassicuranti.

Prendendo l’insieme dei 28 casi storici considerati, si osserva che dopo la crisi valutaria il tasso di disoccupazione progressivamente si contrae, riducendosi in media di un punto entro tre anni dallo scoppio della crisi valutaria (Tabella 4). Tuttavia, il calo della disoccupazione interessa in media solo i paesi a basso reddito. Infatti, nei paesi ad alto reddito il tasso di disoccupazione è perfettamente stazionario. Addirittura nell’esperienza di alcuni paesi, come l’Italia, il tasso di disoccupazione è cresciuto piuttosto significativamente. È chiaro quindi che nei paesi ad alto reddito storicamente la crescita dopo le crisi valutarie è stata garantita da un più intenso grado di utilizzo del capitale industriale e del lavoro. Tuttavia, anche su questo aspetto sussistono differenze significative tra i paesi ad alto reddito, segno che i diversi assetti dei mercati del lavoro (istituzionali e normativi) e le diverse politiche economiche adottate hanno inciso significativamente sugli impatti occupazionali.

Tabella 4
La disoccupazione dopo la crisi valutaria – Tasso di disoccupazione negli anni successivi alla crisi (anni 1980-2013)
Fonte: Ameco – Commissione Europea, Banca Mondiale, Eclac CepalStat

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6. Il pericolo della deflazione salariale

Per comprendere cosa potrebbe inceppare una ripresa occupazionale all’indomani di una uscita dall’euro, nonostante il tendenziale miglioramento della bilancia commerciale, occorre esaminare cosa potrebbe accadere sul fronte dei salari.

Qui vi è la preoccupazione maggiore che emerge da questa analisi. Infatti, l’esperienza storica mostra inequivocabilmente che gli effetti delle crisi valutarie sui salari possono essere particolarmente gravi. Per verificare queste conclusioni, consideriamo sia i salari reali (cioè il potere di acquisto dei salari monetari medi dei lavoratori) sia la quota dei salari sul pil (wage share), che mostra quale sia la quota percentuale del prodotto interno lordo che va ai percettori di redditi da lavoro. Come si osserva nella Tabella 5, nei primi tre anni dopo la svalutazione nei 28 casi considerati mediamente si assiste a un calo drastico dei salari reali e della quota salari sul pil, che appare essere principalmente la conseguenza deiprocessi inflazionistici che generano una redistribuzione dai salari ai profitti e alle rendite.

Naturalmente, ancora una volta è opportuno separare il caso dei paesi ad alto reddito dagli altri. Ebbene, l’effetto è pesante anche considerando solo i paesi ad alto reddito dove – escludendo dall’analisi l’eccezione della piccola Islanda (dove si registrò un forte aumento dei salari reali) – si osserva che i salari reali dopo tre anni continuano ad essere inferiori rispetto al valore registrato nell’anno della crisi valutaria. Soprattutto nei paesi ad alto reddito cade la quota salari del 7,8% in soli tre anni, con un repentino e massiccio effetto redistributivo a danno dei lavoratori. È facile dedurre che la caduta dei salari abbia contribuito a tenere bassa la domanda di beni di consumo interna, a danno dei settori più tradizionali, e ciò abbia frenato significativamente la ripresa occupazionale.

A riguardo può essere significativo ricordare il caso italiano. Come noto, dopo la crisi valutaria del 1993 furono messe in atto politiche salariali restrittive. Ciò limitò evidentemente la spinta inflazionistica, e quindi permise alle esportazioni di continuare a crescere, ma determinò una caduta dei salari dopo tre anni di oltre il 4% e un crollo della quota salari che sfiorò il 9%. Il che spiega il calo della domanda interna e la mancata crescita del nostro paese in quegli anni, oltre alla maggiore disoccupazione. In altre parole, alla luce dei dati sulla crescita del saldo della bilancia commerciale e della diminuzione dei salari reali, è chiaro che in Italia l’aumento della domanda estera è stato sostanzialmente compensato dal ristagno di quella interna con effetti nulli sulla crescita. Si tratta degli effetti complessivi delle politiche di contenimento salariale di allora.

Tabella 5
Salari reali e quota salari sul pil – Valori cumulati nei tre anni successivi alla crisi valutaria (anni 1984-2013)
Fonte: Nostre elaborazioni su dati Banca Mondiale

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7. Per concludere: l’euroexit non è un toccasana 

La crisi dell’eurozona potrebbe comportare fuoriuscite singole o multiple, autonome o concertate, di paesi piccoli o più grandi, e portare o meno a nuovi accordi di cambio. Naturalmente, non c’è teoria economica o esperienza storica che possa gettare luce con certezza sugli scenari possibili che le diverse combinazioni di queste opzioni determinerebbero. Al tempo stesso, l’esperienza storica ci dice che l’abbandono dell’eurozona da parte di un paese periferico potrebbe costituire una occasione per tornare a crescere. Ma l’euroexit non è un toccasana.

È chiaro che una uscita dall’euro potrebbe aumentare la competitività del paese in questione soprattutto nel breve-medio periodo; poi un po’ per volta l’inflazione eroderebbe il vantaggio competitivo del cambio. Al tempo stesso, i miglioramenti del saldo della bilancia commerciale dovrebbero favorire la crescita, ma è più difficile che aumentino l’occupazione. Molto dipenderebbe dagli assetti del mercato del lavoro, dalle politiche salariali e più in generale dalle politiche economiche poste in essere. Nei casi in cui i salari fossero in qualche misura protetti dall’inflazione, la domanda interna potrebbe non perdere molto smalto e ciò sosterrebbe la crescita e l’occupazione. Laddove, viceversa, i salari non fossero protetti, l’economia verrebbe ad essere maggiormente trainata dalle esportazioni, ma il mercato interno potrebbe risentirne vistosamente, e così anche l’occupazione che molto dipende dai settori tradizionali che soddisfano la domanda interna. In questo caso, l’aumento delle esportazioni genererebbe maggiori profitti, con il rischio di non assistere ad alcun ampliamento dei livelli occupazionali. Al tempo stesso, una svalutazione che si accompagnasse a politiche di sostegno dei salari e a politiche industriali incisive potrebbe sostenere la domanda interna e creare le condizioni per una crescita strutturale della competitività.

Insomma, a meno di un auspicabile cambiamento in senso espansivo e redistributivo delle politiche europee, con l’abbandono dell’austerità, l’uscita dall’euro potrebbe essere la soluzione scelta da alcuni paesi in un futuro non lontano. E ciò potrebbe anche rianimare l’economia. Ma non è sufficiente un ritorno alla sovranità monetaria e alle manovre di cambio per cancellare, come d’incanto, i problemi legati alle inadeguatezze degli apparati produttivi o alla sottodotazione di infrastrutture materiali e immateriali. La lezione più importante che possiamo trarre dall’esperienza storica è che i risultati in termini di crescita, distribuzione e occupazione dipendono da come si resta nell’euro e, più che dall’abbandono del vecchio sistema di cambio in sé, dalla qualità delle politiche economiche che si varano una volta tornati in possesso delle leve monetarie e fiscali.

 

[1] Rinviamo chi avesse dubbi a riguardo al nostro recente articolo su “Eurocrisi, il conto alla rovescia non si è fermato”, www.economiaepolitica.it, del 2 dicembre 2014.
[2] Questa è anche la previsione del “monito degli economisti”, pubblicato nel 2013 dal Financial Times.
[3] Sviluppiamo in tal senso l’impostazione suggerita da Emiliano Brancaccio e Nadia Garbellini in “Uscire o no dall’euro, gli effetti sui salari”, www.economiaepolitica.it del 19 maggio 2014, e approfondita dai due autori in “Sugli effetti salariali e distributivi delle crisi dei regimi di cambio”, Rivista di Politica Economica, luglio-settembre 2014; e “Currency regime crises, real wages, functional income distribution and production”, European Journal of Economics and Economic Policies: Intervention, di prossima pubblicazione.
[4] Questo il valore-soglia cui si fa generalmente riferimento in letteratura.
[5] Il riferimento è alla classificazione dei regimi di tasso di cambio elaborata dal FMI.
[6] Viceversa i paesi a basso reddito hanno sperimentato un deprezzamento superiore al 700%; un valore che però scende intorno al 150% se si esclude dall’analisi la super-deprezzamento messo a segno dallo Suriname nel 1994.
[7] Interessante notare che nei paesi ad alto reddito dopo 5 anni dalla crisi valutaria il differenziale di inflazione erode mediamente il 78% della svalutazione.
[8] A conclusione analogo si giunge prendendo anche in considerazione la media del saldo delle esportazioni nette rispetto al pil nei cinque anni precedenti la crisi valutaria e nei cinque anni successivi. E ciò dimostra che nei paesi ad alto reddito gli effetti positivi della svalutazione tendono ad essere persistenti anche nel medio periodo.

Riccardo Realfonzo e Angelantonio Viscione

22 gennaio 2015 www.economiaepolitica.it/

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