Gli Student Hotel e la creatività del capitale

Amsterdam, Dresda, Berlino, Firenze, Parigi. In alcune città gli Student Hotel sono già sbarcati, in molte altre arriveranno presto, come a Lisbona, Barcellona, Tolosa. In Italia si conta di aprirne almeno altri cinque nei prossimi due anni. Ma cosa sono gli Student Hotel? Stando al nome sembrerebbero dei semplici alloggi per studenti, ma a ben guardare sono molto altro: luoghi che riproducono un preciso modello di città e una precisa concezione di istruzione.

The Student Hotel (Tsh) è uno studentato e al tempo stesso un hotel di lusso, ci si può stare una notte come un anno intero. Al suo interno è composto di camere e spazi comuni: cucine, salotti, aule studio, aule conferenze, biliardi, terrazze con piscina, in alcuni casi saune e idromassaggi. Un design progettato – quando possibile dalla archistars di casa, poiché la visibilità è garantita – per essere casa, ufficio e luogo di ricreazione al tempo stesso. Uno spazio pensato per rendere accettabile che fra lavoro e tempo libero non ci siano confini. Perché se essere perennemente presi nella morsa del processo produttivo significa una camera vista mare, be’, allora non è poi così male. Salvo per i prezzi, che allo studentato si avvicinano proprio poco dato che una camera può costare anche 100 euro a notte. Viene quasi da chiedersi chi siano le persone che possono permettersi una stanza qua. Ce lo spiega il gruppo possessore: Tsh è per giovani creativi, studenti, intellettuali, professionisti e startuppers. Insomma per tutte quelle figure professionali che lavorano sempre pur sembrando non lavorare mai. In fondo, ci dice sempre il gruppo Tsh, si tratta di un’idea semplice, ovvero riunire imprenditori, studenti e viaggiatori sotto un unico tetto, alle parole d’ordine di mescolanza, multiculturalismo e condivisione.

Parole a cui è difficile contrapporsi, perché rimandano le menti a giovani aperti, che conoscono il mondo, che apprendono lingue nuove, a italiani che imparano a cucinare cous-cous, a inglesi che mangiano pasta e pizza, a film in lingua originale, a serate a tema in cui conoscere i costumi degli altri. La «mission» di Tsh è quella che abbiamo assunto essere dell’Erasmus, ovvero creare un contesto stimolante per tutti, in cui si beneficia del contatto con il diverso. A condizione però, che diverso significhi una cosa ben precisa: chi è ricco e creativo in modo diverso da te. Perché è difficile pensare a Tsh come un luogo accessibile agli studenti che, per esempio, non si sono potuti permettere di andare in Erasmus, che devono lavorare come camerieri per mantenersi agli studi, o che non hanno baffi strani o abiti alla moda. È difficile pensarlo anche come il luogo delle tute e delle vestaglie blu, di chi è sporco di farina, petrolio o stanco di un lavoro da ufficio con orari non così flessibili da permettergli di godere dell’happy hours nella vasca idromassaggio. Condividere e mescolarsi certo, ma con la gente giusta, quella che «piace alla gente che piace».

Insomma, gli utenti di Tsh sono tutti diversi ma tutti uguali, tutti «smart». Come dice il suo fondatore, Charlie MacGregor, per soggiornare qui non bisogna per forza essere iscritti all’università, basta essere come studenti: curiosi, avventurosi, con menti intraprendenti, liberi da costrizioni materiali. Singolare: all’essere studente è associata immediatamente una vita bohemienne, incondizionata da costrizioni e obblighi. Pare quasi che oramai, nel nostro immaginario, esista solo lo studente borghese, l’unico di fatto svincolato dalle impellenze materiali. Anche nell’universo di Tsh non c’è spazio per chi è costretto a scendere a patti con le necessità e le costrizioni che sono – chi osa dire il contrario – poco poetiche, poco creative. Ma non c’è spazio nemmeno per la scoperta. Perché l’oggetto della creazione è già noto, così come il contesto. Il multiculturalismo è fra identici: viaggiatori, free lance, artisti del marketing che ricercano il nuovo ma che si aspettano di trovare sempre il vecchio: uno stile di vita già noto, un modo di stare al mondo, una camera vista mare o piscina sul tetto.

Multiculturalismo dei ricchi e debito d’onore dei poveri 

E se per alcuni c’è il Tsh, per altri c’è il debito d’onore, la formula riservata a chi vorrebbe prendersi una laurea ma quei mille euro al mese per una stanza all’hotel di lusso proprio non ce l’ha. E allora, se proprio vuoi studiare ma la tua famiglia non può permettersi di farti vivere in uno studentato dai toni nordici che stimoli la tua creatività, e – vergogna ancora peggiore – non può far fronte alle tasse universitarie, c’è una soluzione anche per te. In un mondo nel quale tutti siamo spronati a essere imprenditori di noi stessi, siamo liberi di studiare anche senza soldi, basta mettere un’ipoteca sulla propria vita, contrarre un debito con la banca – a tassi agevolati, s’intende – ed è fatta. Sì perché la società del debito non si limita ad applicarsi ai mutui, ai prestiti per le automobili e per le cure odontoiatriche. Con la formula del debito d’onore il debito si applica anche alla formazione, ai master – quelli che costano 10mila euro ma che ti garantiscono la possibilità di essere preso in considerazione per il «lavoro dei tuoi sogni» – e all’iscrizione a scuola. Però attenti a non dimenticarsi di essere meritevoli, di vincere nella gara contro il vicino di banco, perché se sarai fuori corso o la tua media non sarà abbastanza alta (perché magari nel frattempo devi anche lavorare), questa fantastica occasione potresti perderla. Relax, spensieratezza e creatività sì, ma non per voi.

Con il debito d’onore quello che in uno stato sociale dovrebbe essere un diritto garantito, come la possibilità che le differenze sociali determinino sempre meno il futuro personale di ognuno, è oggi l’ennesima occasione di profitto. Non è un caso che sia stato pensato e introdotto per gli studenti del sud. In una direzione opposta e contraria rispetto al tentativo di ridurre le disuguaglianze. Colpisce anche che venga introdotto adesso, quando negli Usa, là dove questa maniera di accedere ai servizi è nata, Sanders sta già proponendo di cancellarla. Ma come è possibile che questo cambiamento radicale passi così inosservato? Perché il marketing funziona: basta chiamarlo prestito e non debito, basta dire che non dovrai pagare subito quei soldi ma che potrai farlo una volta finiti gli studi. Basta posticipare al futuro, tanto molti giovani neppure lo vedono, neppure sono capaci di pensare sè stessi in quella dimensione. È un attimo e il messaggio «ma insomma, vorresti pure studiare gratis? Dovresti ringraziare che ti danno questa possibilità» passa indisturbato e mette radici. Ci fossero, almeno, le garanzie che dopo la laurea avrai un lavoro tale per cui ti potrai permettere di restituire alle banche quei soldi. Ma no, un grande numero di laureati resta a lungo senza lavoro. Dunque, o qualcuno può pagare per te (il che pare inverosimile, altrimenti perché mai contrarre un debito?) oppure dovrai farlo tu, in qualche modo, nel mezzo a tutti gli altri debiti che sarai stato costretto a contrarre.

Certo però, sarebbe ingiusto e miope attribuire a Tsh l’inaugurazione di alcunché. Tsh si inserisce e riempie uno spazio già svuotato da anni di progressivi tagli al sistema dell’istruzione, al welfare, alla sanità. Anni in cui tutto ciò che riguarda l’istruzione viene spacchettato e delegato ad altri e altro. Per esempio a Bologna si è ben pensato di creare un mercato apposito per gli studenti Erasmus, facendo convenzioni apposite fra UniBo e Airbnb. Sono lontani i tempi in cui (ammesso che siano mai esistiti) lo studio poteva essere uno strumento per la lotta di classe, un modo per uscire dallo stato di subalternità, raccontare le proprie lotte e non farsi definire dalle narrazioni dominanti. Non c’è in questo panorama la concezione di una scuola e un’università in cui andare per una liberazione personale e collettiva, per provare a ribaltare – citando Alberto Prunetti – torti secolari. Questa concezione di istruzione è stata fagocitata dalla formazione, dall’idea che lo studio dovesse essere funzionale alla carriera, alla sopravvivenza in un mondo del lavoro sempre più spietato, al fine di resistere una notte in più del mio vicino di scrivania nelle camere degli hotel-studentati.

Uno strumento di riproduzione della città   

Avevo parlato in un altro articolo delle caratteristiche della città neo-liberista: gentrificazione, allontanamento dei poveri dal contesto urbano, turismo, urbanistica contrattata. A questa lista potremmo aggiungerci anche la costruzione di hotel che si dicono studentati, pensati anche per un pubblico di viaggiatori e professionisti. Non è un caso che Tsh privilegi sbarcare in città già caratterizzate dai processi di cui sopra, e che, dunque, le città italiane siano meta ambita, come ammette il fondatore. Per esempio, a Firenze, oltre al già esistente Tsh in Via Spartaco Lavagnini (nelle immediate vicinanze del centro storico) entro il 2021 si prevede di aprirne altri due, uno a Firenze Belfiore, l’altro nelle aree dismesse dell’ex manifattura Tabacchi. Firenze è infatti proprio una città considerata «top» per molte delle figure che interessano Tsh: i viaggiatori, i creativi – insomma i ricchi – di tutto il mondo. Ma di questo, d’altronde, se ne erano già accorti i residenti – i pochi rimasti – a cui il turismo predatorio ha mangiato piazze e parchi, che si sono visti distretti sanitari e case popolari rimpiazzate da catene di slow food, localini «urban» e botteghine biologiche.

Ed è proprio nel rapporto con la città che Tsh svela quello che in realtà è: non un luogo di connessione ma uno strumento di espulsione, non un canale di realizzazione dei propri desideri ma di delegittimazione di volontà – personali e collettive – che esulano da quelle preconfezionate. È il tentativo, l’ennesimo, di appropriarsi dell’esperienza urbana e farla coincidere con un’esperienza di consumo. Chi entra ha un punto di partenza e di arrivo già dato: rendere produttivo e markettizzabile il tempo libero, riprodurre un’idea egemonica di città e di quello che la collettività dovrebbe essere: un gruppo di creativi vicini di scrivania, seduti in spazi molto «open» ma soli nella competizione a chi la spunta.

Non stupisce allora che Tsh compri palazzi storici in quartieri in cui ci sarebbe bisogno di servizi, e ci metta un presidio del lusso. Dovremmo saperlo ormai, la città non è per i poveri, per gli studenti che avrebbero diritto alla borsa di studio, non è per i dissidenti, per i movimenti, per chi contesta, non è uno spazio politico e sociale. È una città di individui in gara. Ecco perché, dicevo, non stupisce che per esempio a Bologna Tsh sorgerà proprio nell’edificio dell’ex Telecom, occupato nel 2015 da famiglie senza casa organizzate dal Social Log. Inclusione, condivisione, a patto che non riguardi i poveri. Per loro ci sono sgomberi e manganelli, i quartieri sempre più lontani dal centro, co-abitazioni forzate e, di certo, nessuna università o creazione. Ma anche in questo caso, prima che questo lo facesse Tsh lo aveva già fatto il mercato.

Per una condivisione orizzontale e sovversiva

Se proviamo ad andare al di là dell’operazione di marketing con la quale Tsh viene presentato, questo hotel-studentato appare per quello che è: l’ennesimo spazio che riproduce un modello urbano, economico e politico al quale siamo già socializzati da decenni. È un’altra struttura nella quale la retorica della meritocrazia, del saccheggio del tempo libero e del lavoro pervasivo si concretizza nei corpi e nelle abitudini. Tsh non aumenta le possibilità di chi non ne ha, ma moltiplica le occasioni per scegliere una strada a chi quella strada già l’ha intrapresa. Insomma, non aggiunge niente di quello di cui avremmo veramente bisogno. Non crea discontinuità entra in un contesto già confezionato per accoglierlo, in cui il diritto allo studio – e tutti i servizi necessari per renderlo effettivo, come per esempio l’accesso a uno studentato – era già diventato una promessa mancata, uno strumento retorico e nulla più. Se i Tsh sono il dito, la politica è la luna: prima che arrivassero gli Student Hotel e le banche a permetterci di indebitarci per entrare in questo sistema, il sistema ci aveva già escluso.

A ben guardare davvero però, in Tsh c’è anche del buono. Un luogo in cui si realizza la condivisione nella forma del co-working e del bere insieme spritz e campari rende questo modello visibile e quindi ribaltabile. Mette noi che da quelle porte siamo fuori di fronte all’urgenza di praticare una condivisione che sia radicale e diversa, che non si limiti alla scrivania, alla cucina o all’aperitivo. Una condivisione insomma che non sia funzionale all’accettazione del dilatarsi dei tempi di lavoro, ma che serva per contrastarla, che connetta le solitudini e che provi a superarle. Questo per riappropriarci dei luoghi di bellezza oggi privati, escludenti ed esclusivi ma anche di un’idea di cultura, di scuola e istruzione. Per impedire alla retorica dominante di rendere le relazioni umane strumento di competizione e farle essere altro: orizzontali e sovversive.

Carlotta Caciagli

*Carlotta Caciagli è dottoressa di ricerca in sociologia e scienza politica presso la Scuola Normale Superiore. Si occupa di movimenti urbani e resistenze al neoliberismo.

22/7/2019 https://jacobinitalia.it

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