Gli Usa verso il voto, tra pandemia e rivolta

Thomas Ferguson analizza il ruolo dei soldi nella politica statunitense da oltre quattro decenni. Insieme ai suoi collaboratori, ha mappato l’evoluzione dei blocchi oscillanti di investitori che sostengono i partiti democratici e repubblicani.

Negli ultimi mesi, la politica statunitense è apparsa più inquieta che mai, dalle primarie democratiche alla pandemia di Coronavirus fino alla rivolta contro la violenza della polizia a seguito dell’omicidio di George Floyd. Tuttavia, come sostiene Ferguson, questi eventi sono stati spesso influenzati da forze che conosciamo bene. Il potere delle grandi imprese ha plasmato tutto, dalla spericolata spinta per riportare il paese in attività alle risposte alle rivolte. Di tutto questo discute con Paul Heideman di Jacobin.

Il mondo vacilla sotto il peso della pandemia di Covid-19; l’uccisione di George Floyd a Minneapolis ha scatenato una vasta ondata di proteste legate a Black Lives Matter; e gli Stati uniti sono nel mezzo di un voto presidenziale molto teso. Ognuno di questi eventi è importante di per sé; nel loro insieme, sono quasi travolgenti. Come pensi che dovremmo analizzare il modo in cui agiscono tutti insieme?

Spiegare l’intero contesto dell’ondata di proteste chiarisce molte cose. Sono esplose nel momento in cui nel giro di poche settimane, non di mesi o anni, l’economia è precipitata ai livelli della depressione. La disoccupazione è cresciuta vertiginosamente. È ovvio che la maggior parte dei benefici del salvataggio e dei giganteschi interventi della Federal Reserve sui mercati finanziari sono andati ai più ricchi. I lavori entry-level per giovani e neolaureati si sono completamente dissolti. Molti disoccupati non possono accedere agli aiuti che erano stati loro promessi, i diversi stati perseguono politiche di assistenza radicalmente diverse e alcuni importanti aiuti pubblici a breve termine decadranno quest’estate. Molte persone fanno affidamento sulle banche alimentari per almeno una parte del loro sostentamento.

Ma questa non è nemmeno metà della storia. Ci sono due fatti politici di grande rilievo rispetto alla tempistica di queste proteste. Il primo è che le amministrazioni a tutti i livelli hanno fallito nella gestione della pandemia. Dopo la prima guerra del Golfo, la pianificazione delle pandemie fu brevemente trattata negli Stati uniti come questione di sicurezza nazionale. Ma il sistema sanitario americano orientato al profitto – ora sovralimentato dalle acquisizioni da parte di società di private equity – ha visto i letti di riserva in ospedale o gli accumuli di scorte come minacce ai propri utili. Con l’arrivo della pandemia, le autorità pubbliche del presidente hanno minimizzato la sua gravità. Praticamente nessuno in qualsiasi posizione di autorità ha fatto una seria pianificazione o ha cercato di stanziare rifornimenti o coordinare le risposte. A volte, il livello di malafede e il grottesco calcolo partigiano è stato straordinario. Il caso molto discusso del senatore della Carolina del Nord, Richard Burr dimostra che i leader politici in alcuni casi dicevano ai donatori una cosa e agli elettori ordinari un’altra. Anche gli esperti che avrebbero dovuto conoscere meglio la situazione hanno fallito. All’inizio, ci hanno detto che le mascherine non ci avrebbero protetto; alla fine, è apparso ovvio che questi discorsi servivano solo a nascondere la cattiva gestione degli eventi. Mentre i pazienti si riversavano negli ospedali, i professionisti medici che si lamentavano di inadeguate garanzie per i lavoratori ospedalieri venivano licenziati o minacciati di licenziamento se avessero parlato con la stampa; alle infermiere che portavano le loro mascherine al lavoro veniva detto di toglierle. Nessuno sembra aver monitorato le case di cura, anche quando gli ospedali le usavano come aree di parcheggio per malati gravi in sovrannumero. Le comunità nere e latine, con un accesso generalmente inferiore all’assistenza sanitaria, ai posti di lavoro e spesso esposti a gravi rischi ambientali, sono state colpite in modo particolarmente duro, così come gli statunitensi più poveri.

L’altro fatto politico critico che ha dato forma alle proteste è stato il risultato delle primarie democratiche. Quando è arrivata la pandemia, la lotta tra Joe Biden e Bernie Sanders, e in secondo luogo, Elizabeth Warren e gli altri, era sostanzialmente finita. Ma l’avvento della «peste» ha sottolineato come nient’altro l’importanza dei temi sollevati da Sanders: Medicare for all, il salario minimo, garanzie come la retribuzione per malattia, in modo che i lavoratori infetti potessero permettersi di rimanere a casa senza diffondere il contagio. Dubito comunque che molte persone abbiano colto l’ironia di quanto velocemente la Fed e il ministero del tesoro abbiano messo insieme un sistema sanitario a pagamento unico per la finanza e le grandi imprese. Metti insieme tutti questi fatti ed è facile capire perché, per molti statunitensi, in particolare giovani, tutte le alternative all’interno del sistema politico stabilito parevano esaurite. Erano davvero esausti: nessun candidato o gruppo politico aveva molto da offrire ai comuni cittadini. Quindi era tempo di scendere in piazza, proprio come avevano fatto i gilet gialli in Francia, o i manifestanti nel Regno Unito, dove il governo fa politiche che somigliano fortemente a quelle degli Stati uniti.

E adesso?

Innanzitutto, dai un’occhiata alla posizione molto equivoca della leadership democratica. Un piccolo dettaglio è importante. Un emendamento inserito nel gennaio 2015 durante la legislatura dell’anatra-zoppa [ossia con una maggioranza in una delle due camere diversa da quella che sostiene il Presidente, Ndr] ha sancito l’indebolimento dello «Swaps Pushout» della legge sulla riforma finanziaria Dodd-Frank e reso più facile per i grandi donatori versare somme di denaro molto più grandi nei comitati nazionali di partito. Ciò, a mio avviso, ha reso ancora più facile il controllo di questi comitati da parte di grandi gruppi di donatori, anche se a volte aumentano i piccoli contributi. Non solo nel 2018, ma anche nelle primarie del 2020, penso che questo abbia avuto il suo peso. Di conseguenza, il Comitato nazionale democratico non è stato subordinato alla campagna di Biden, almeno non ancora. L’ondata di primarie democratiche del sud che ha fermato il boom di Sanders ha coinvolto molti grandi donatori democratici insieme a molti deputati e donne neri, insieme alle reti politiche e finanziarie dell’ex presidente Barack Obama e dei Clinton. Tutto l’establishment democratico si è unito per fermare Sanders. I leader neri al Congresso dunque sono stati fortemente identificati anche con il movimento «Stop Sanders».

Ma è il collasso economico combinato alla pandemia che rivela il fallimento dell’establishment tradizionale, tutta la dirigenza del partito ha dovuto agitarsi. Il modo in cui hanno risposto è molto interessante. Grazie alla diffusione di così tanti video, in molti si sono resi conto del razzismo che i non bianchi devono affrontare, e non solo da parte di molte delle forze di polizia. La repulsione verso tutto ciò è profonda e reale. Come risposta, l’establishment democratico sta prendendo esempio dal passato, ma non alla fine degli anni Sessanta, quando i gruppi fortemente critici nei confronti dei democratici divennero importanti, ma all’inizio degli anni di quel decennio. Io e Joel Rogers abbiamo descritto il processo nel nostro libro Right Turn. Quando è emerso il movimento per i diritti civili, importanti fondazioni, importanti imprenditori delle maggiori multinazionali e fondazioni a esse alleate hanno appoggiato fortemente la base del movimento. John F. Kennedy notoriamente chiamò Martin Luther King quando era in prigione, mentre importanti avvocati di Wall Street volarono a sud o aiutarono in altro modo per difende gli attivisti per i diritti civili che erano sotto attacco legale. Sta accadendo in questo momento, con gruppi strettamente alleati al Partito democratico che aiutano a raccogliere fondi. Ci saranno tensioni ora, come c’erano allora, tra il partito e il movimento, ma le cose stanno prendendo questa direzione.

Quindi, che ruolo ha tutto questo nelle elezioni?

Penso che la sceneggiatura di base di ognuna delle parti in campo sia evidente. I democratici sperano in una ripetizione del 2008. In quella elezione, la politica della leadership repubblicana è stata irrimediabilmente confusa. Dopo che Lehman Brothers è fallita, nessuno in opposizione ha dovuto dire molto. I democratici potevano semplicemente sedersi e guardare John McCain agitarsi impotente.

Donald Trump, al contrario, sta chiaramente copiando la sceneggiatura di Nixon, ma siccome è al potere, il suo 1972 assomiglia di più al 1968. I forti appelli della sua amministrazione a «legge e ordine» sono ovvi, come i modi in cui cerca di colpire i manifestanti. Il mantra «legge e ordine» è debole, in parte perché i video e le proteste colpiscono gran parte dell’opinione pubblica. Ma è evidente anche che le forze armate statunitensi non vogliono partecipare alla repressione delle proteste interne, quindi è probabile che l’unica cosa che Trump sarà in grado di fare è cercare di irritare i manifestanti e sperare in forti reazioni pubbliche. Anche il procuratore generale William Barr si presenta, in modo spettacolare. Inoltre, la Casa Bianca è alla ricerca di un modo per far riprendere l’economia. Nel 1972, Richard Nixon fece affidamento su Arthur Burns alla Fed per pianificare un ciclo economico-politico leggendario. Di sicuro la Fed di oggi reagisce alle pressioni di Trump, ma la situazione mondiale radicalmente diversa limita fortemente il suo spazio di manovra. Difficilmente può fare di più di quanto abbia fatto, anche se lo volesse.

Questo è il motivo per cui il presidente e il vicepresidente stanno cercando così disperatamente di minimizzare la pandemia. Vogliono riportare le persone al lavoro e far crescere il Pil. Il vicepresidente Mike Pence sta chiaramente incoraggiando i leader statali a parlare dei loro successi e minimizzare le cattive notizie, tra cui l’impennata di contagi al sud e all’ovest. La Casa Bianca pensa che se non riparte l’economia Trump sarà fatto fuori a novembre.

Cosa cambia rispetto a quello che l’amministrazione Trump stava facendo prima?

Trump e il suo campo raddoppiano gli sforzi rispetto alle politiche che avevano promosso in precedenza. Con l’arrivo della pandemia, in tutto il mondo sviluppato figure di spicco del business ed economisti conservatori hanno messo in guardia dai pericoli di un lungo blocco. Alcuni, tra cui un banchiere centrale, hanno persino suggerito a voce bassa che politiche del genere avrebbero alleggerito gli obblighi pensionistici statali. Negli Stati uniti, nel Regno unito e in altri paesi europei, hanno parlato dell’idea di «immunità di gregge». Il cerchio ristretto di Trump, composto da figure di spicco del business, inclusi eminenti gestori di private equity, è stato più volte citato per aver spinto il presidente ad allentare il  lockdown. Dopo la pubblicazione delle stime dell’Imperial College sui tassi di mortalità, queste scelte sono diventate impopolari. Il Regno unito ha cambiato politica. Ciò ha sicuramente influenzato gli atteggiamenti dell’amministrazione Trump. Ha contribuito, insieme alla spaventosa realtà di ciò che stava accadendo in particolare nelle coste orientali e occidentali degli Stati uniti, a costringere l’amministrazione ad accettare i blocchi e le zone rosse. Sia negli Stati uniti che nel Regno unito, tuttavia, le pressioni dei gruppi imprenditoriali per una rapida riapertura sono rimaste molto forti. I conservatori hanno persino sollecitato la riapertura senza pianificare un modello di test praticabile, che è esattamente ciò che l’amministrazione ha fatto ora.

Si stanno definendo schieramenti espliciti all’interno del mondo degli affari, e questi sembrano infiltrarsi nella politica. Molte piccole aziende i cui modelli di business poggiano su bassi salari, insieme ai finanziatori – che significa in primo luogo il private equity – le cui strategie dipendono dall’acquisto e dalla demolizione di imprese, continuano a impegnarsi per una rapida riapertura. Al contrario, molte aziende nel resto della finanza, e specialmente in settori ad alta tecnologia e ad alta intensità di capitale le cui strategie non si basano su salari bassi, sono più sensibili ai pericoli di una rapida apertura. Molte aziende tecnologiche promuovono con entusiasmo i loro prodotti come soluzioni ai problemi che la pandemia crea – come è ovvio in molte aziende di Internet e software. Robert Rubin ha chiesto tavoli congiunti di professionisti, medici ed economisti, per decidere quando fosse possibile la riapertura e per la mappatura dei contatti; è stata proposta anche l’assistenza automatizzata.

Ma la prova del nove ha a che fare con la questione cruciale della sicurezza dei lavoratori. Trump ha smantellato l’Agenzia per la sicurezza e della salute sul lavoro (Osha). Non solo il numero di ispettori è molto basso, ma i dirigenti sono chiaramente disinteressati a regolamentare la questione. Mi sembra che qui ci sia un’intersezione potenzialmente fatale tra il movimento che cresce da Minneapolis e i Democratici. Gli appelli a riaprire rapidamente sono richieste fondamentalmente da ricchi dirigenti che possono lavorare a casa. Vogliono rimandare al lavoro gli operai in condizioni che gli alti dirigenti non accetterebbero. È importante aggiungere che molti dei colletti blu sono neri o latini.

Anche se non lo saprai mai dalla lettura di importanti giornali, da Minneapolis gli scioperi, anche quelli a gatto selvaggio, sono aumentati moltissimo. Ce ne sono letteralmente centinaia e centinaia, come documenta il sito Payday Report di Mike Elk. Le proteste hanno ispirato molti lavoratori neri e latini a chiedere condizioni di lavoro sicure.

Non ho molto da dire sui classici salvataggi finanziari perseguiti dagli Stati uniti: proteggono la ricchezza di coloro che già ce l’hanno, mentre il governo fa qualcosa, ma non molto, per proteggere il sostentamento dei cittadini medi. Ma sarebbe molto sensato utilizzare il bilancio nazionale per investire in riprogettazione del lavoro e renderlo sicuro. Sarebbe un buon uso delle risorse pubbliche.

Quindi, come si ripercuote tutto ciò sulle elezioni?

In questo momento, i casi di Covid-19 sono alle stelle in molti stati del sud e dell’ovest, i cui governatori repubblicani avevano seguito l’esempio della Casa Bianca e hanno fatto finta che la pandemia fosse finita o che in qualche modo non li avrebbe mai raggiunti. Di conseguenza, il supporto a Trump sta conoscendo sommovimenti tellurici: è sceso sotto il 40%, la mitica soglia di consenso a suo favore che la gente pensava che non si potesse mai violare.

Ma ricordo molto bene il 1988, quando alla fine dell’estate Michael Dukakis era quasi 20 punti avanti rispetto a George H. W. Bush. Può succedere molto per cambiare quello che sembra un vantaggio quasi insormontabile. Bisogna ricordare che Biden brilla solo se accostato a Trump; di per sé il candidato democratico non genera molto entusiasmo negli elettori. Come la campagna Biden possa sfruttare l’energia che ha alimentato Sanders e, in una certa misura, Warren, non è ancora chiaro. Le condizioni tra gli schieramenti sono ancora in fase di elaborazione e lo sforzo potrebbe non riuscire. Se le élite democratiche sono abbastanza stupide da credere alle affermazioni che così tanti hanno fatto che la sconfitta del 2016 non ha nulla a che fare con l’economia, potrebbero ripetere quel disastro.

Ad esempio, guardando a come il governo sta permettendo agli assicuratori di sfuggire alla copertura dei costi dei test Covid ho difficoltà a considerare che le persone senza lavoro saranno spinte a votare Biden senza qualcosa di molto più forte di una public option per la salute invece di Medicare for All.

Molto altro può andare storto. Mettiamo da parte la possibilità di una crisi estera, in particolare nel mar cinese meridionale, poiché è chiaro che Trump in questo momento spera ancora che possa arrivare un grande accordo commerciale con la Cina. Altrimenti, ci sono i vecchi sistemi del Gop: sforzi per contenere l’affluenza degli elettori e flussi giganteschi di grandi somme di denaro. Quest’anno, poi, c’è una increspatura rispetto alla prima questione. La campagna di Trump contro il servizio postale potrebbe essere iniziata come una lotta con Amazon, ma in questo momento è chiaramente diventata qualcos’altro. Le prove empiriche fornite dalle primarie del Wisconsin mostrano chiaramente che il voto di persona ha portato a diverse ondate di nuove infezioni Covid. Di conseguenza, l’interesse per le votazioni a distanza è in forte aumento. Certo, i repubblicani sono per lo più contrari, sebbene prove empiriche fino a ora non suggeriscano che le votazioni per corrispondenza diano vantaggi in un senso o nell’altro. Ma, naturalmente, un servizio postale devastato non fornirà quasi nulla. La mia ipotesi è che vedremo Trump approfondire ancora di più questo problema con l’avvicinarsi del giorno delle elezioni.

Il che ci porta alla questione del denaro. Qui, non ho molto da aggiungere a ciò che i miei colleghi Paul Jorgensen, Jie Chen e io abbiamo scritto all’inizio dell’anno. Nel 2016, abbiamo scoperto che Trump è stato spinto alla vittoria da una grande ondata di soldi da parte di grandi società di private equity, tra gli altri. Abbiamo anche ipotizzato che la perfetta correlazione per la prima volta nella storia statunitense tra il successo repubblicano alle elezioni del senato e il risultato del voto presidenziale negli stati non sia stato un incidente. Ciò si è rivelato vero. Trump ha fatto meglio negli stati in cui si correva per il senato. Abbiamo dimostrato in che modo i finanziamenti abbiano influenzato quelle sfide, quando le prospettive a poche settimane dalle elezioni sembravano senza speranza. Questo esempio dice molte cose. I candidati democratici che hanno perso le elezioni in quegli ultimi giorni mi hanno detto che hanno visto l’afflusso di denaro invertire quella che pareva una situazione favorevole. Penso che i problemi con il conteggio dei voti tenderanno a rendere il 2020 molto teso, indipendentemente da ciò che dicono i sondaggi adesso o magari il giorno prima del voto. A quel punto capiremo se viviamo in un’era pre o post-apocalittica.

Thomas Ferguson è professore emerito di scienze politiche alla University of Massachusetts, Boston.

Paul Heideman è PhD in American studies alla Rutgers University–Newark.

Questa intervista è uscita su JacobinMag.

La traduzione è di Giuliano Santoro.

6/7/2020 https://jacobinitalia.it

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