Guestbook. Un diario di viaggio molto speciale

È usanza che nei villaggi africani si trovi un libro degli ospiti, un guestbook o, per dirla in swahili,kitabu cha wageni.  E chi passa di lì, per starci un giorno o per fermarsi nel tempo, mette un segno della propria presenza. Si registrano così partenze, passaggi, arrivi, persone, ma solo si possono immaginare le storie che portano con sé.

Prende spunto da questa tradizione africana il blog che la ong Medici con l’Africa Cuamm ha ideato insieme al SISM – Segretariato Italiano Studenti di Medicina: un diario online che ci racconta l’Africa vista con gli occhi degli studenti che decidono di trascorrere un mese della propria carriera universitaria in uno dei progetti di cooperazione sanitaria internazionale del Cuamm. Da Tosamaganga, in Tanzania, o da Wolisso, in Etiopia, da aprile dello scorso anno raccontiamo quest’Africa “del SISM”: giovane, energica, con desiderio di imparare e di cambiare le cose, a volte arrabbiata e altre volte impotente, certi giorni spaesata di fronte a un luogo “altro” dove la medicina si fa con pochi mezzi, poche risorse e tanta volontà.

Il mese trascorso negli ospedali del Cuamm è un vero e proprio progetto di formazione sul campo, noto come Wolisso Project e riconosciuto dalle Università italiane: un periodo che per gli studenti diventa una palestra di Salute globale, spesso il primo luogo in cui ci si mette in gioco davvero, scoprendosi medici e riconoscendo la responsabilità che questo comporta.

In questi primi dieci anni di Wolisso Project sono stati 208 gli studenti partiti con il Cuamm, provenienti da oltre 20 università italiane. E per celebrare questo decennale, oltre al blog, si è deciso di dar sempre più voce a queste storie con un concorso. A dicembre, per una decina di giorni, gli studenti di ogni parte d’Italia hanno votato i post più belli tra gli 80 pubblicati e qui vi presentiamo le 3 storie che hanno raggiunto il maggior numero di like.

  1. GiuliaBrighenti

    Guida semiseria per riconoscere un medico italiano e un medico africano, di Giulia Brighenti, 26 anni, neolaureata Università di Verona. Era a Wolisso, Etiopia.

24/06/2015Un mese trascorso in Africa a guardare la salute con altri occhi, a scoprire l’assistenza sanitaria dall’altra parte del mondo. E mi sono chiesta quali sono poi le differenze tra un medico in Italia e un medico in Africa.
La formazione innanzitutto: il medico in Africa deve sapere “un po’ di tutto” e si dedica da un punto di vista epidemiologico a patologie anche molto diverse da quelle che ci sono in Italia. L’inquadramento della malattia, come fare diagnosi e come impostare la terapia devono essere ben chiari nel tuo cervello e nella tua memoria. Spesso non c’è internet che può aiutarti, non ci sono mille specialisti a cui richiedere consulti. Ci sei tu, la tua preparazione, e perché no, anche dei bellissimi libroni da consultare quando non sai dove sbattere la testa. Ci sono medici con una preparazione poliedrica, chirurghi che sanno gestire quasi ogni situazione.
Le risorse: un medico in Africa ha risorse strumentali, laboratoristiche, terapeutiche molto diverse e limitate rispetto a quelle che ha disposizione il medico in Italia. L’anamnesi e l’esame obiettivo sono fondamentali per poter inquadrare un paziente poiché spesso le metodiche diagnostiche sono carenti e se ci sono anche il loro utilizzo non è scevro da difficoltà. La macchina per i raggi X è rotta per mesi perché deve arrivare il tecnico dalla capitale, i reagenti per l’emocromo sono finiti e chissà quando arriveranno. I farmaci sono pochi e costosi. Devi affrontare situazioni anche molto pesanti da un punto di vista emotivo, pazienti che sono destinati a morire perché non c’è una cura disponibile; una cura che magari in Italia potremmo recuperare con relativa semplicità. Basti pensare agli antibiotici. E lì capisci di non avere nessun merito, di essere solo nato per caso o per fortuna nella parte più ricca del mondo.
Il rapporto col paziente: il rapporto di fiducia è molto più concreto e motivato, spesso determinante per l’efficacia della diagnosi e della cura. Sai che se non porti il paziente a fidarsi di te lo perderai, non seguirà la terapia, non farà il follow up. In Italia invece si ha più paura dei risvolti medico-legali.
L’emozione: il medico africano è un medico con un cuore enorme, che arriva a mettersi in gioco da ogni punto di vista. Quel medico è anche una persona che deve imparare a dominare quel cuore, a non lasciarsi coinvolgere troppo per non farsi distruggere. In Africa i colori sono amplificati, la luce sembra essere più luminosa, il caldo più caldo. E così anche per le emozioni: il dolore può essere fortissimo e la gioia immensa. Essere medico in Africa non è semplice, fa mettere in discussione le proprie priorità e scala di valori.
Lasci in Africa un pezzo di cuore e porti a casa un pezzo di Africa.

  1. Margherita Bonanni

    Etiopia 2008, anche nel 2015, di Margherita Bonanni, 26 anni, neolaureata Università di Udine. Era a Wolisso, Etiopia.

 

20/10/2015 – Il primo giorno qua non è stato proprio facile, ho girato per il reparto con le mani conserte, con poca voglia di toccare quello che mi succedeva intorno.
Non me la sentivo di farmi “contaminare” da quest’Africa che avevo così tanto desiderato abbracciare.

Questo comportamento istintivo mi ha stupito! A chi da casa mi chiedeva “come va?” rispondevo “non lo so, son un po’ confusa, qua è tutto diverso”.
Diverso. Diverso è l’orario etiope e il calendario – qua siamo nel 2008 e mezzogiorno sono le 6 del mattino. Diverso da come me l’aspettavo probabilmente, speravo che un ospedale buono come, per gli standard africani, è quello di Wolisso, fosse una struttura più pulita, meno caotica, soprattutto con meno morti insensate.

Continuavo a fare paragoni tra qui e l’Italia, ma presto ho capito che non era un buon punto di vista e che non mi avrebbe portato da nessuna parte. S’intrecciano così tante storie qui che non sai davvero dove metterle, e devi imparare a guardarle e riuscire a respirare. Evidentemente c’è qualcosa di più profondo e nascosto in tutto questo, e con un po’ di pazienza, lasciando entrare le immagini e uscire le emozioni, lavorando sui tuoi schemi mentali e sui tuoi pregiudizi, riuscirai a cogliere quel sapore misto di injera e dolcezza che è la vita etiope.

E allora capisci che sei davvero partito!

  1. Letizia Sangoi

    When the child smile it is stime to discharge him, di Letizia Sangoi, 25 anni, 5° anno di Medicina, Università di Trieste. Era a Tosamaganga, Tanzania.

29/04/2015 Con queste parole siamo entrati per la prima volta nella stanza che accoglie bambini malnutriti.
L’impatto è forte: l’odore è quello di F75, latte arricchito, scaldato in una tazza di plastica sulla stufa elettrica; il clima è tropicale anche se fuori c’è qualche nuvola e un po’ di vento, l’ipotermia è un rischio; all’udito c’è silenzio, pochi lamenti e qualche parola di swahili; aprendo gli occhi mi passa davanti l’immagine del libro di storia del ‘900, la fame ha sempre lo stesso volto. Ogni bambino ha la sua fisionomia che povertà ed educazione fanno diventare Marasma o Kwashiorkor.
Marasma non ti inganna, ha gli occhi infossati, le mani deboli, le ossa sporgenti e spesso resta steso. Kwashiorkor invece è paffuto, ha un viso bello tondo, le mani e i piedi grossi, aspetta seduto.

La terapia è semplice, in grafica troviamo:

  1. EAT: prima di arrivare in ospedale il menù tipico prevedeva “farina di mais setacciata in acqua bollente con aggiunta di sale q.b. cotta in tegame di allumino a fuoco lento mescolando energicamente fino al raggiungimento di consistenza densa ” . Quella che noi chiamiamo polenta e mangiamo assieme a carne, pesce o formaggio qui si chiama ugali e si mangia con ugali. In una terra dove piove per diversi mesi all’anno, c’è quel che serve per costruire una perfetta piramide alimentare ma manca in alcuni casi il fondamento dell’educazione alla base.
  2. PLAY: Marasma e Kwashiorkor sembrano essersi dimenticati la cosa che i bambini sanno fare meglio, mancano le forze per stare seduti, figurarsi quelle per lanciare una palla.
  3. SMILE: quando questo obiettivo è raggiunto la dimissione è assicurata.

Marasma e Kwashiorkoir hanno riacquistato la loro identità e Joyce, Ester, Augustino, John, Godlack, Batuli, Benedetta, Alfred, non si somigliano più.
Nella mia mente le immagini in bianco e nero del libro di storia lasciano spazio a una foto colorata che cerco di catturare con gli occhi invece che con la macchina fotografica.
“When they smile it is time to discharge them.”

Chiara Di Benedetto

Medici con l’Africa Cuamm

5/4/2016 www.saluteinternazionale.info

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