I falchi volano sulla no fly zone

Nonostante giochi con il fuoco, la campagna per una «no-fly zone» in Ucraina sembra prendere slancio: all’inizio di questa settimana ventisette esperti di politica estera hanno sottoscritto una lettera chiedendo all’amministrazione di Joe Biden di istituirne una limitata, per proteggere i corridoi umanitari recentemente concordati nei colloqui Russia-Ucraina. La lettera è già stata ampiamente citata dalla stampa, conferendo a questa proposta disastrosa maggiore legittimità. Quello di cui non si parla è il ruolo dietro le quinte dei produttori di armi, dei combustibili fossili e di alcuni oligarchi nel promuovere questi interessi.

Parlare di no-fly zone significa utilizzare un eufemismo subdolo e intelligente per la guerra, che contempla l’abbattimento di veivoli e la distruzione delle difese aeree russe. Non appena le forze statunitensi distruggeranno un aereo russo, uccidendone il pilota, l’invasione di Mosca muterà da guerra regionale a qualcosa di più vicino a una guerra mondiale, solo che questa volta coinvolgerebbe scorte di centinaia e migliaia di armi nucleari, che non esistevano quando Adolf Hitler invase la Polonia. Anche un falco come Marco Rubio dice una cosa del genere per contrastare questa prospettiva.

Dato questo esito, forse non sorprende che numerosi nomi sulla lettera siano intrecciati finanziariamente con l’industria della difesa o lavorino per organizzazioni da essa finanziate.

Ian Brzezinski ha lavorato per cinque anni come direttore in Booz Allen Hamilton, un contractor del Pentagono, prima di dirigere il Gruppo Brzezinski, che si presenta come «società di consulenza strategica al servizio di clienti commerciali statunitensi e internazionali nei settori finanziario, energetico e della difesa». John Kornblum è un consulente senior presso il Center for Strategic and International Studies (Csis), un think tank che ha Northrop Grumman come uno dei suoi due maggiori finanziatori e che riceve anche donazioni da aziende come General Atomics, Lockheed Martin e Boeing.

Sia Ben Hodges che Kurt Volker fanno parte del Center for European Policy Analysis (Cepa), un think tank che nel 2021 ha annoverato le società di difesa Bae Systems, General Dynamics, General Atomics e Lockheed nel suo elenco di contributori. Volker è anche amministratore delegato internazionale e copresidente del comitato consultivo di Bgr Group, che «rappresenta le principali società aerospaziali e della difesa, fornitori aerospaziali, fornitori di servizi governativi, organizzazioni senza scopo di lucro e stati e comuni interessati alla difesa della politica degli Stati uniti».

Philip Breedlove fa parte del consiglio di amministrazione del Center for a New American Security (Cnas), un think tank liberale aggressivo che è stato utilizzato per il personale delle amministrazioni democratiche, inclusa questa. Oltre al Pentagono, Northrop Grumman è il principale finanziatore del Cnas, con Raytheon, Palantir, Bee, Boeing, Booz Allen, Lockheed e General Dynamics tra gli altri sostenitori.

Evelyn Farkas, nel frattempo, è un ex funzionario del Pentagono e analista della sicurezza nazionale a capo della alquanto misteriosa Farkas Global Strategies, che si descrive vagamente come impegnata nella «crescita strategica di alcune delle più grandi società del mondo». La pagina di Farkas parla di «sfruttare le capacità delle aziende tecnologiche per migliorare i programmi chiave di acquisizione della difesa» e menziona «resilienza operativa, mitigazione del rischio, sicurezza informatica e protezione delle infrastrutture critiche» come alcune delle sue competenze, forse alludendo al tipo di lavoro che fa l’azienda.

Farkas siede anche nel consiglio di amministrazione del Project 2049 Institute, che spinge per una posizione più conflittuale nei confronti della Cina e per aumentare le vendite militari ai paesi asiatici in tensione con essa. Sebbene non renda più pubblico l’elenco dei suoi sostenutori, una pagina archiviata elenca molti dei produttori di armi citati in precedenza, così come l’appaltatore militare privato DynCorp (poi acquistato da Amentum), la società di difesa Science Applications International Corporation (Saic) e Sbd Advisors, che «si concentra sull’identificazione e il collegamento dell’innovazione del settore privato per affrontare le sfide della sicurezza nazionale».

È uno spaccato rilevante del modo in cui, a Washington, la politica estera e gli interessi finanziari privati tendono a sovrapporsi per il profitto. I dirigenti della Lockheed e della Raytheon si erano lamentati dell’impatto sui profitti del ritiro degli Stati uniti dall’Afghanistan lo scorso anno, e loro e General Dynamics avevano celebrato le opportunità di business derivanti dalle attuali e del tutto evitabili tensioni geopolitiche con la Cina. Nel gennaio di quest’anno, stavano sbavando per le crescenti tensioni sull’Ucraina, e ora si parla di riclassificare le azioni dei produttori di armi come investimenti «socialmente responsabili» alla luce dell’invasione del presidente russo Vladimir Putin.

È così che funziona la versione moderna del complesso militare-industriale di cui ha parlato il presidente Dwight Eisenhower. Alcune società hanno un interesse acquisito in guerre e conflitti; pagano generosamente e promuovono voci di spesa che favoriscano politiche belliche; quelle voci passano in rassegna le posizioni del governo, i gruppi di studio finanziati dalle aziende e le loro iniziative imprenditoriali scambiando quell’esperienza, aumentando ulteriormente la loro importanza; quindi, quando arriva l’opportunità per un’altra guerra, c’è sempre uno stormo di falchi di alto profilo e accreditati per inerzia pronti a sostenere pubblicamente la causa per più guerra.

Dieci dei firmatari ricoprono varie posizioni all’Atlantic Council, un think tank aggressivo finanziato da una moltitudine di interessi commerciali, mentre un altro è stato senior fellow per sei anni. Il Consiglio atlantico ha la sua quota di donatori dell’industria militare, così come vari governi della Nato e la stessa Nato, ma altre due fonti sono di particolare interesse: System Capital Management (Scm) e la Fondazione Victor Pinchuk.

Pinchuk e Rinat Akhmetov, il capo di Scm, sono due degli uomini più ricchi dell’Ucraina. Alcuni degli oligarchi del paese, tra cui Akhmetov, quando è cominciata l’invasione di Mosca sono fuggiti dal paese, ma presto sono tornati, nonostante i conflitti e le tensioni preesistenti con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Secondo Forbes, il valore dei beni degli oligarchi era fortemente diminuito nelle regioni controllate dai separatisti e in tutto il paese prima della guerra.

«Si sono resi conto che Putin rappresenta una chiara minaccia per tutta l’Ucraina e anche per i loro beni», ha detto a Forbes l’analista ucraino Taras Berezovets. Ha aggiunto che i beni di Akhmetov sono particolarmente a rischio, poiché «la maggior parte delle sue fabbriche e dei suoi beni si trovano a Mariupol e Dnipro». È importante notare che Akhmetov ha anche importanti interessi commerciali in Russia.

Pinchuk, nel frattempo, è da anni uno dei principali donatori del Consiglio atlantico e siede nel suo comitato consultivo internazionale. È solo una delle tante iniziative filo-occidentali e filo-Nato finanziate da Pinchuk nel corso degli anni. Di recente ha commissionato un sondaggio a sostegno di un maggiore sostegno all’Ucraina contro la Russia e in vista della guerra aveva «ospitato molti incontri fuori registro con funzionari occidentali per convincerli a ottenere maggiore assistenza all’Ucraina», ha detto Berezovets a Forbes (Pinchuk finanzia anche Cepa).

Oltre ai due oligarchi, c’è un altro importante interesse commerciale che finanzia sia il Consiglio atlantico che alcune delle altre entità con cui i firmatari della lettera sono allineati: i combustibili fossili. La lista dei suoi finanziatori è piena di compagnie petrolifere come Crescent Petroleum, Abu Dhabi National Oil Company, Chevron, Mubadala Petroleum ed Exxon, insieme al Charles Koch Institute, fondato dal magnate del petrolio.

La guerra è un grande affare per le compagnie di combustibili fossili, col Pentagono che è il più grande consumatore istituzionale di petrolio al mondo. In un mondo che continua a trascinare i piedi nel passaggio a una fonte di energia che alla fine non ci ucciderà tutti, aerei da combattimento, carri armati, veicoli militari e simili funzionano in modo schiacciante con combustibili fossili, così come i veicoli che trasportano decine di migliaia di soldati per combattere in paesi lontani. E questo non significa nemmeno entrare nei combustibili fossili necessari per produrre tutte queste cose.

Non sorprende, quindi, che del Csis facciano parte anche Bp, Chevron, Exxon e Saudi Aramco come principali donatori. Il McCain Institute, dove la firmataria Claire Sechler Merkel è direttrice senior dei programmi dell’Arizona, ha tra i suoi donatori Chevron, MEG Energy e Bp, nonché l’ambasciata saudita e Raytheon. Il Cnas conta tra i suoi contributori Bp, Exxon e il Charles Koch Institute.

Nel frattempo, il Consiglio atlantico, il Cepa e il Project 2049 Institute elencano anche il National Endowment for Democracy (Ned) come finanziatore, mentre Daniel Fried, un altro firmatario, siede nel suo consiglio di amministrazione.

Il Ned, un’entità dal suono benigno il cui creatore ha affermato che fa il lavoro che «è stato svolto di nascosto venticinque anni fa dalla Cia», ha svolto un ruolo importante nello scambio di accuse sull’ingerenza politica tra Russia e Stati uniti in questo secolo, che ha accresciuto le tensioni tra i due paesi. Questo battibecco è culminato nel coinvolgimento di Mosca nelle elezioni statunitensi del 2016, che secondo quanto si dicevano rappresentarono la vendetta di Putin per le azioni della Ned in Russia e altrove all’inizio di quel decennio. Il Ned ha avuto un ruolo importante nell’alimentare la rivoluzione ucraina del 2014, ad esempio, e ha svolto un ruolo importante nella catena di eventi che ha portato a questa guerra in corso.

Infine, vale la pena notare che molti dei firmatari sono stati direttamente coinvolti nella politica della Nato che ha gettato i semi per questo conflitto. Brzezinski ha svolto un ruolo chiave nell’espansione della Nato sotto George W. Bush, mentre Barry Pavel ha guidato la pianificazione della difesa per il primo round di espansione della Nato sotto Bill Clinton. Alexander Vershbow, nel frattempo, «è stato coinvolto a livello centrale» nella «trasformazione della Nato e di altre organizzazioni di sicurezza europee per affrontare le sfide del dopo Guerra fredda» – in altre parole, nel trasformare la Nato da alleanza difensiva ad alleanza offensiva combattendo diverse guerre che non avevano nulla a che fare con la difesa dell’Europa dagli attacchi stranieri, una parte fondamentale del motivo per cui l’establishment russo, non solo Putin, vede l’alleanza come una minaccia.

Inutile dire che quanto sopra non è una giustificazione per la guerra criminale e sempre più distruttiva di Putin. Piuttosto, questi sono punti che sono stati fatti da numerosi esperti di politica estera dell’establishment nel corso dei decenni come fattori alla base che hanno portato allo stato attuale, allo stesso modo in cui il Trattato di Versailles, nonostante le intenzioni dei suoi autori, ha gettato le basi per la Seconda guerra mondiale . Quindi, oltre agli interessi finanziari coinvolti, c’è anche il fattore del giudizio individuale: alcune delle stesse persone che hanno contribuito a portarci in questo pasticcio stanno ora sollecitando un’altra politica potenzialmente disastrosa.

L’unico modo per porre fine a questa guerra senza prolungare le sofferenze degli ucraini o innescare la distruzione globale è un accordo politico tra Russia, Ucraina, Stati uniti e Unione europea. Sfortunatamente, non sembra così sexy o visceralmente soddisfacente come una sparatoria, il che vuol dire che molte persone ricche e potenti non potrebbero fare molti soldi.

Branko Marcetic è collaboratore di JacobinMag. Ha scritto Yesterday’s Man: The Case Against Joe Biden. Vive a Chicago, nell’Illinois. Questo articolo è uscitosu JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.

11/3/2022 https://jacobinitalia.it

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