I GHETTI DEGLI ANZIANI

SANITA’ TERRITORIALE E COVID: L’ANELLO DEBOLE DELLE RSA

E’ notorio che le RSA sono state uno degli anelli deboli del Sistema Sanitario nell’emergenza Covid..
Queste sono diventate facile preda del Coronavirus per ragioni legate alle caratteristiche specifiche della loro gestione privatistica all’interno di un servizio che si vorrebbe pubblico, evidenziando maggiori insufficienze rispetto ad altri settori della sanità a livello gestionale, sanitario, sociale.

Il Piemonte con 608 residenze, quasi 29 mila ospiti (febbraio 2020), 13 mila operatori, è la seconda regione per numero di strutture e la terza per degenti in Italia.
Qui abbiamo visto fra la fine di marzo e tutto aprile del 2020 svilupparsi un’autentica tragedia.

In queste RSA il virus è riuscito ad entrare in molte residenze, a macchia di leopardo, trovando ovviamente terreno fertile vista la prevalenza notoria di soggetti a rischio per età e pluripatologie, tanto da produrre focolai virulenti ad alta morbilità e mortalità.

Nell’ultimo monitoraggio alla cronaca del 20 aprile della Regione Piemonte le RSA hanno contato 5 mila casi Covid positivi nelle loro strutture, su 15 mila tamponi testati.

I I decessi sono stati quasi 400, ma contando quelli diagnosticati con sintomi tipici andiamo verso quota 600 sulle 608 RSA piemontesi, contro gli oltre 2 mila nelle 678 RSA lombarde, i 350 nelle 348 RSA emiliane. A livello nazionale siamo quasi a 4 mila decessi, secondo l’ultima indagine di maggio dell’ISS.

Sulla base degli ultimi dati forniti dalla Regione Piemonte al 20 aprile, i contagiati risultano il 35% negli ospiti e il 23% nel personale.
In Lombardia hanno avuto contagiati il 30% degli ospiti, il 25% degli operatori (dati di maggio della giunta).
Nel Nord Ovest siamo al di sopra delle medie nazionali e di quelle regionali su tutta la popolazione. Non è un caso la magistratura ci indaghi sopra fra Lombardia e Piemonte, non è un caso se siano già costituiti dei comitati dei parenti delle vittime.
Evidenti sono le responsabilità dell’Unità di crisi, dell’Assessorato alla Sanità regionale, delle ASL e dei singoli direttori di struttura.

In Piemonte le segnalazioni sui rischi di esposizione biologica derivate da carenze di DPI e di organizzazione vennero fatte da diverse organizzazioni sindacali fin dai primi di marzo. L’evidenza dei primi decessi sintomatici e delle prime manifestazioni morbose fra gli ospiti e il personale sono emerse nella seconda metà di marzo.
Le richieste di ricovero in ambito ospedaliero provenienti dalle RSA, fatte dai medici di medicina generale, dai direttori sanitari e da alcuni sindaci sono state prevalentemente inascoltate o respinte dagli operatori dei diversi numeri verdi, dea, unità di crisi per mancanza di posti letto nei reparti e nelle rianimazioni, oltreché per l’alto rischio in quel periodo di alta contagiosità covid per soggetti anziani con comorbilità. E’ scattata la terribile regola del triage che tanto

ha scandalizzato le anime belle, benpensanti, dei media italiani. Si è dunque ritornati alla cura “domiciliata” degli ospiti delle RSA con covid diagnosticato (laddove veniva fatto il tampone) o sospetto tale.
Ai mancati ricoveri si sono poi aggiunti gli ospiti in rientro dagli ospedali con covid, senza alcun tampone di controllo, nonostante il rischio biologico di esposizione in presidi che non erano ancora completamente sicuri per mancanza di materiale, strumenti e organizzazione.

Purtroppo nelle RSA il dramma si è prodotto per la mancata preparazione e formazione del personale nel trattamento specifico delle malattie infettive altamente contagiose, l’ignoranza organizzativa dei gestori, le lacune nelle linee guida circolanti nel periodo, il rimbalzo delle responsabilità da parte delle autorità sanitarie preposte alla sorveglianza – dal livello territoriale fino ai vertici della Regione. Da un inchiesta dell’ISS del 14 aprile risulta che ben il 40% delle RSA non ha approntato corsi di formazione sul Covid 19.

Quello che si è visto nella prima metà di marzo negli ospedali in fatto di confusione, ordini e contrordini, carenza di strumenti e dispositivi, col risultato finale di lasciare solo il personale di fronte al pericolo, si è visto ben più amplificato nelle RSA alla fine di marzo. Con meno morti nel personale, ma questo non addolcisce il problema.

Anche qui si è puntualmente verificata la mancanza di DPI, di spazi attrezzati, la carenza di prodotti igienizzanti, l’assenza di separazione rigorosa dei percorsi fra zone “sporche” infette e zone “pulite”, dei non infetti.
Il personale non è stato adeguatamente preparato né prima, né durante, né dopo l’onda del contagio.
Spesso e volentieri le aziende gestrici si sono limitate a distribuire dei volantini e a dare due o tre disposizioni organizzative, derivate dalle sintesi didascaliche del Ministero o dell’ISS.
Nessun corso di formazione è stato fatto a carico delle aziende, solo poche ore o minuti dedicati a dare alcune raccomandazioni al personale da parte dei responsabili.
Magari con qualche raccolta firme sulle formazioni fatte, come se ne vedono fra imprese e cooperative del privato. Ma siamo in Italia, si sa..

E’ così capitato che, per garantire gli stessi ordinari carichi di lavoro e minutaggio, aggravati dalle tempistiche preventive (lavaggio, vestizione, svestizione, eliminazione, lavaggio) lo stesso numero di personale ha operato senza cambio divise, docce e lavaggi fra zone in isolamento e zone non infette.
Le aree comunitarie non sono sempre state sottoposte ai
distanziamenti di sicurezza. Alcune RSA non hanno imposto rigorosi isolamenti della comunità, lasciando qualche ospite uscire regolarmente e i fornitori e gli operatori di servizi esterni entrare e uscire tranquillamente senza grandi prevenzioni.

Dall’ultimo report di maggio dell’ISS si rileva che su 1.356 RSA sondate (sulle 3.417 totali) le maggiori difficoltà nell’emergenza sono state la carenza di DPI (al 77%), l’impossibilità di eseguire i tamponi (52%), la scarsità di personale (34%), la scarsa informazione (21%).

La maggiore diffusione del contagio fra gli ospiti delle RSA è dunque sorta da motivi materiali come da un insieme di errori gestionali legati all’organizzazione dell’assistenza in capo ai gestori privati o pubblici, alla sorveglianza sanitaria e all’indirizzo sulle misure di prevenzione riguardanti direttori sanitari e di struttura, Asl, Regione, Ministero della Salute.
Ognuno ha portato il suo contributo, secondo la classica catena conseguenziale degli errori.
Da qui si evince la carenza di cultura e gestione sanitaria nelle RSA, per insufficiente presenza di personale medico e sanitario, mancanza di equipe di vere e proprie, deficit di prevenzione, cura e sorveglianza dentro le strutture e intorno ad esse, soprattutto da parte dell’ente pubblico, che nel caso specifico si è giostrato in continui rimandi fra direttori sanitari delle RSA, dirigenti dell’ASL, Sisp territoriale, Unità di crisi Regionale.
Le pezza postuma degli USCA è arrivata in ritardo, insufficiente nei numeri e ancora poco chiara nelle competenze.

Da questa tragedia delle RSA bisognerà ripartire per riqualificare queste strutture da un punto di vista sanitario, nell’ambito del più ampio servizio sanitario territoriale posto a garanzia della continuità di cura, assistenza e prevenzione.

Un primo elemento che si evidenzia nelle RSA è la mancanza di un serio sistema di monitoraggio e controllo. Evidentemente a garanzia della salute degli ospiti dovrebbe esserci una sola equipe sanitaria con un medico di medicina generale nel ruolo di coordinamento, lasciando al medico di base un ruolo comprimario, laddove questo debba sussistere.

Il controllo sulle attività svolte se rimane in capo al direttore sanitario comporta la responsabilità della sorveglianza sanitaria e della prevenzione, in coordinamento con l’equipe sanitaria e di cura, i medici di medicina generale.
Se esistono delle figure chiave responsabili, come i direttori generali o sanitari, i medici di medicina generale questi non possono sfuggire a un maggior ruolo di responsabilità rispetto alla prevenzione, in pieno coordinamento con le equipes. Il ruolo del medico generale non dovrebbe essere condiviso con troppe rsa, come capita attualmente, con il rischio di sovraccaricarne la responsabilità rendendone difficile il giusto svolgimento del ruolo sanitario.
Ma un altro aspetto fondamentale delle RSA rimanda al loro carattere intrinseco, ontologico, delle loro essenza. Sul quale diventa difficile concepire una qualsiasi riforma che non sia di carattere radicale, ovvero che sa andare alla radice del problema.

Il capitale finanziario all’assalto delle RSA

In Italia abbiamo 13,6 milioni anziani al di sopra dei 65 anni, nel 2035 saranno 17,8 milioni, con un incremento del 31%. Gli over 85 sono 2,1 milioni, fra 15 anni saranno 3 milioni, con incremento del 43%. Gli ultracentenari oggi sono 16 mila e nel 2023 diventeranno circa 42 mila con un incremento del 170%.
I fondi finanziari, i gruppi bancari, assicurativi e le società del mondo cosiddetto no profit se ne sono accorti e si preparano all’affare del secolo legato all’invecchiamento, alla crescente domanda di cura, salute e protezione.
Dai dati Istat nel 2016 gli anziani non autosufficienti risultavano 2,9 milioni, di questi 287 mila erano ospiti presso RSA e strutture semi-residenziali. I restanti 2,6 milioni vivevano in famiglia, beneficiando o del servizio ADI e SAD (911 mila) o dell’assegno di cura e/o di una colf badante. Secondo una valutazione di player del settore il fabbisogno stimabile di ricovero in strutture protette viaggiava nel 2016 oltre 500 mila.

La distribuzione territoriale dei posti letto nelle RSA è del tutto squilibrata, in virtù anche della regionalizzazione del SSN. Al Nord sono concentrati il 66% dei posti contro il 10% nel Sud.
Nel 2009 avevamo 577 posti letto ogni 100 mila residenti al Nord-Ovest, 604 al Nord Est, 210 posti letto ogni 100 mila abitanti al Centro e solo 73 al Sud.
La medesima ineguale distribuzione del servizio sanitario territoriale lo ritroviamo nell’ADI.
La Toscana è quella che garantisce un servizio più ramificato con 63 casi seguiti su 100 non autosufficienti over 65. Seguono l’Emilia (60 su 100), il Veneto (47%), il Molise (42%), la Lombardia (39%), il Friuli (34%), l’Abruzzo (30%), il Piemonte (29%). I dati sono del 2016, anno nel quale la Lombardia ha proceduto allo smantellamento dell’ADI e dei medici di famiglia, non però delle RSA, in via sperimentale triennale, con i conseguenti danni che sappiamo.

Secondo stime fatte da UBI Banca nel 2035 avremo la disponibilità di 600 mila posti letto nelle RSA. Il fatturato previsto sarà intorno ai 14 miliardi di euro, che salirebbe a 20 miliardi se si dovesse azzerare completamente l’assistenza a domicilio, che oggi riguarda fra ADI e SAD, quasi un quarto dei non autosufficienti.
Si apre in prospettiva l’allargamento di un mercato privato redditizio, che spiega in parte anche le scelte di alcune regioni (Lombardia).
Se consideriamo che solo nel 2016 il 25% delle RSA era in mano alle imprese profit, il 36% al Terzo Settore, il 14% agli enti religiosi e il restante 24% al settore pubblico, il processo di privatizzazione del settore era già in uno stadio avanzato.
Oggi, dopo quattro anni,, la parte pubblica risulta ulteriormente ridimensionata al 14% (dato SPI-Cgil).

Aggiungendo a questo insieme, l’emergere con ila pandemia di una nuova domanda di servizi di domiciliazione in strutture protette per la gestione extra-ospedaliera dei covid, i 14-20 miliardi di fatturazione possono diventare 20-25. Anche qui, nulla di nuovo, quando le regioni Lombardia e Piemonte hanno predisposto, su indicazione di un DPCM governativo, la possibilità di utilizzo di spazi covid nelle RSA, hanno seguito questa logica. Non si sono accordati sul prezzo, perché le regioni volevano pagare la stessa retta dei normali ricoveri alle imprese, senza calcolare l’esistenza di costi aggiuntivi legati alla sicurezza degli ospiti e del personale. E questo la dice lunga sui livelli di consapevolezza dei dirigenti regionali lombardo-piemontesi.

L’analisi del 2019 di Ubi Banca evidenzia come la redditività delle RSA cresca all’aumento del fatturato, grazie alle maggiori economie di scala date dalle crescenti dimensioni delle strutture e dei numeri di posti letto. Questo spinge ile imprese profit verso una dimensione media sempre più elevata, lasciando i complessi più piccoli alle cooperative “no profit”. Per la stessa ragione gli investimenti futuri tenderanno a essere concentrati su strutture con almeno 100 posti letto. Al Terzo Settore rimarrebbero le strutture più piccole, con meno margini di guadagno, con la progressiva emarginazione da questo “mercato”.

La sola Ubi Banca con la proprio divisione di investimento CIB (Corporate & Investiment Banking) ha erogato nel settore dal 2017 circa 110 milioni di euro di finanziamenti di cui circa il 65% per l’acquisto o lo sviluppo di RSA accreditate o convenzionate con il SSN.
Il 74% circa degli affidamenti è stato girato ad altri investitori tramite fondi immobiliari appositamente creati. Guarda caso l’80% degli “asset” finanziati è localizzato al Centro Nord.

Il “mercato” delle “case di cura per anziani” non è una novità, si espande in tutta Europa. Germania e Francia hanno registrato un importante aumento degli investimenti immobiliari privati, seguiti da Spagna e Italia che negli ultimi anni hanno visto una impennata negli investimenti. I principali investitori del settore sono grandi gruppi privati, tra cui anche società immobiliari quotate in borsa, a cui si aggiungono società di investimento in beni immobili fruttiferi. Nel 2018 questi soggetti profit hanno investito nella lungodegenza circa 5 miliardi di euro in Germania, 3 miliardi in Francia, 2 in Spagna e meno di un miliardo in Italia.

In Italia tra il 2006 e il 2014 il settore ha raccolto investimenti per una media annua di 30 milioni di euro, mentre dal 2015 al 2017 hanno raggiunto la quota media annua di 230 milioni di euro. Nel 2017 il settore RSA ha visto circa 550 milioni di euro di investiti dalle imprese profit su 11 miliardi in tutta la filiera dei servizi socio-sanitari.
In Italia sono circa 20 le maggiori società di investimento che gestiscono nei loro portafogli strutture sanitarie, tra cui le RSA. In particolare, gli immobili risultano inseriti in 21 fondi immobiliari, specializzati nell’assistenza sanitaria oppure semplicemente caratterizzati da una attenta diversificazione dei cosiddetti livelli di rischio di investimento.
Ne ricordiamo alcuni S.O Holding (Sereni Orizzonti Spa) della famiglia Blasoni con 180 milioni di fatturato, KOS Care Srl del Gruppo Cir di De Benedetti (Anni Azzurri Spa) con 550 milioni di fatturato, Gruppo Orpea (francese) 1.6 miliardi di fatturato, Gruppo Korian (francese) con 3 miliardi di fatturato, Tosinvest della famiglia Angelucci con fatturato di 64 milioni euro (gestisce varie strutture sanitarie, compreso il S.Raffaele di Milano), Gruppo Gheron con 30 milioni di fatturato.

La gestione in appalto o in concessione delle RSA da parte di queste società profit rischia di creare un problema sul terreno della qualità del servizio.
Elemento delicato se si pensa che parliamo in prevalenza di soggetti all’80% fragili, disabili, cronici non domiciliabili nelle cure di carattere sanitario, con un bisogno necessario di socializzazione o risocializzazione, elemento non marginale dentro un piano di cura inteso a riconquistare livelli più elevati di autonomia del degente.
Fattori compresi nei LEA ma che rischiano di esserne espulsi o mortificati in via di applicazione.

In Piemonte la Delibera della Giunta Ghigo n.45-4248 / 2012 ha introdotto un sistema di minutaggio di tipo tayloristico delle attività che ha ostacolato la resa qualitativa del servizio. Le stesse attività ricreative e di socialità sono facilmente sacrificate per ragioni di bilancio, malgrado siano finanziate con le rette degli utenti. Quest’ultime per altro più esose di quelle delle RSA pubbliche (1500 euro) o delle RSA gestite dalle cooperative (media di 2500) volando sulle 3500 euro medie mensili.

Delibere regionali come la n.45 protese al risparmio sui tempi di erogazione di servizi contingentati unitamente alla gestione privata hanno fortemente impoverito la parte sociale del servizio erodendo pure quella sanitaria, via via riducendo la degenza degli ospiti in una semplice attesa depressiva del tempo che scorre.

Le caratteristiche peculiari di questo nuovo mercato a domanda rigida e in forte crescita, perché legato all’andamento demografico dei prossimi trent’anni e alla garanzia delle pensioni, attraggono grandi capitali finanziari legati ai settori immobiliari e produttivi di interesse.
Aumentando la massa di capitale investita questi condizionano sempre più le scelte delle singole asl come delle giunte regionali, essendo in grado di orientare voti e finanziare clientele elettorali, con la stessa facilità con la quale iniettano liquidità nella costruzione di rsa in proprio. Il commercio delle vite è prima di tutto una questione di money.

E’ ovvio che se questa fetta dell’azione distrettuale e territoriale non viene monitorata, controllata e progettata in autonomia dalle Asl rischia di essere fagocitata dall’autoreggenza delle holding e dei gruppi economici potentati del settore.

Va considerato che il fenomeno delle RSA convertite alla totale privatizzazione, è stato un processo iniziato da almeno 20 anni col Terzo Settore che ha fatto da battistrada a basso costo.
La tipologia dell’assistenza socio sanitaria della lungo-degenza non comportava grandi investimenti complessivi, se non nelle strutture. Sia sul piano tecnologico che formativo del personale (le ore ECM sono francamente scarse se non sconosciute) non esistono spese di livello via via crescenti paragonabili a quelle di una normale medicina.
Spesso le RSA non sono oggetto

di attento monitoraggio da parte dell’ente pubblico, come ad es. nell’applicazione dei giusti contratti per il personale o il ricorso a personale precario. Questa può essere causa di margine di guadagno per il gestore e rappresenta un fenomeno diffuso.
Il pauperismo del personale, in prevalenza oss, di cui una parte immigrati, è un dato storico del settore. E anche questo è un altro fattore attrattivo di guadagno per le imprese.
Favorendo processi di statizzazione o di maggior controllo su questi comportamenti sleali e ambigui di molte imprese si otterrebbe un miglioramento delle condizioni del personale e con questo delle condizioni degli ospiti.
Uno dei meccanismi per favorire la pubblicizzazione radicale delle RSA sarebbe di passare sotto l’ala sanitaria tutta la tipologia assistenziale, con conseguente riduzione delle rette pagate dai ricoverati che solitamente sono giustificate come rette legate alla parte alberghiera e “sociale” del servizio.

Anche l’investimento nella formazione del personale andrebbe posta sotto controllo del pubblico, rendendolo program-mato, verificabile ed esigibile.

Così come il servizio di assistenza e cura non dovrebbe essere assolutamente tradotto in minuti (per altro insufficienti) bensì in obiettivi definiti dai fabbisogni degli ospiti sui quali computare il personale necessario, sulla base di quantità e competenze.

Va considerato che su tutta la materia vi è – per fortuna – un peso maggiore della normativa nazionale, di indirizzo e determinazione, come sui fabbisogni tramite i LEA oppure sui fondi nazionali per la non autosufficienza. Qui lo Stato, ben più delle regioni, che hanno un ruolo significativo ma secondario rispetto alla normativa generale, potrebbe avere un ruolo di maggior delimitazione dell’azione privata (come già avviene con i LEA) ampliando i termini di controllo, come di limitazione dell’invasività dei settori profit (se non di espulsione). Basterebbe una legge sulla non autosuffcienza – di cui esiste necessità da anni – che guardi fortemente ad un servizio di carattere pubblico proprio sui servizi integrati territoriali delll’ADI, del SAD, delle RSA-semiresidenzialità.

Ma su questo occorre una grande prova di forza sociale, ovviamente preceduta da una sana consapevolezza.

Ricerca a cura della redazione di Lavoro e Salute
coordinata da Marco Prina

Pubblicata sul numero di giugno di Lavoro e Salute www.lavoroesalute.org

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