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    L’idea promossa dai governanti e diffusa dalle multinazionali dei paesi più sviluppati è che l’acquisizione di terre da parte dell’agrobusiness comporti una modernizzazione dell’agricoltura e favorisca lo sviluppo dell’economia dei paesi del Sud del mondo. Questo non avviene, la realtà è diversa. Questo tipo di narrazione ci ricorda la solita vecchia propaganda del colonialismo (“lo facciamo per il loro bene”), ora adottata dal neocolonialismo. Nessuno di questi investimenti si inserisce in un sistema organico di sviluppo. Si tratta di iniziative economiche di breve termine, di investimenti mordi e fuggi, com’è nella natura dell’odierno capitalismo predatorio.

    I padroni della terra

    Pubblicato da franco.cilenti

    terra-3

    La terra è la “nuova” preziosa risorsa su cui hanno messo le mani gli speculatori, è un bene che torna a ricevere una grande attenzione economica. La sua riduzione a merce si è estesa ai grandi spazi del Sud del mondo per lungo tempo abbandonati e abitati dalle tradizionali comunità locali. Il furto legalizzato delle terre, conosciuto come land grabbing (letteralmente “accaparramento delle terre”), è una recente frontiera dello sfruttamento del capitalismo predatorio.

    Uno dei meccanismi fondamentali del capitalismo globale odierno è quello dell’espulsione, come ci ricorda la sociologa Saskia Sassen. Per diversi aspetti l’accaparramento delle terre rientra in questi processi. Infatti il land grabbing non è solamente un fenomeno di acquisizione di terreni, attraverso un meccanismo di espropriazione, presenta significativi effetti sulle persone che vivono da generazioni su questi territori confinandoli ai margini della società e del sistema economico.

    Nel land grabbing si possono leggere le componenti più significative del capitalismo odierno: la sua natura predatoria, l’indifferenza verso le persone e le comunità locali, il furto e la mercificazione dei beni comuni e la loro finanziarizzazione, il menefreghismo verso l’ambiente, l’aspetto distruttivo del suo agire.

    Dietro all’accaparramento delle terre fertili del Sud del mondo c’è un processo che è stato definito in vario modo: neocolonialismo, saccheggio fondiario, neoimperialismo, rifeudalizzazione. Da cosa origina questo enorme saccheggio? Quali sono le attuali dimensioni? Chi sono i soggetti coinvolti nel land grabbing? Quali gli effetti reali?

    Governi sovrani, grandi imprese dell’agrobusiness, fondi d’investimento finanziario si appropriano di enormi distese di terra in paesi stranieri, essenzialmente del Sud del mondo, su cui esercitano un pieno dominio, decidendo cosa e in che modo produrre.

    I dati del fenomeno non sono certi perché le transazioni spesso sono opache e nascoste, le cifre sono discordanti anche se tutte ne sottolineano la gravità. Si tratta in ogni caso di un fenomeno molto ingente che riguarda fra i 60 e gli 80 milioni di ettari acquisiti. Secondo il Land Poverty Conference di Washington del 2012 dal 2000 sarebbero stati registrati un totale di transazioni per oltre 200 milioni di ettari, una superficie pari a 8 volte l’estensione del Regno Unito.

    Più del 70% delle terre acquisite negli ultimi anni è destinato alle coltivazioni per l’industria e per il settore agroalimentare. Il resto viene adibito allo sfruttamento forestale, all’estrazione mineraria, all’accesso alle importanti fonti di acqua dolce e in minor misura per altri utilizzi (insediamenti industriali, turismo).

    Anche se l’acquisizione di terre in paesi stranieri non è una novità, la formazione di un vasto mercato globale della terra è abbastanza recente, così come l’impennata degli acquisti. Possiamo datare l’inizio di questa accelerazione con le prime avvisaglie della crisi economico-finanziaria del 2007-08. Da questo momento abbiamo un mutamento fondamentale nell’accaparramento della terra in gran parte nel Sud del mondo. Un cambiamento molto rapido che ha le sue radici in alcuni significativi fenomeni globali.

    Le cause del land grabbing.

    Un primo fenomeno va individuato nella rapida crescita dei prezzi dei prodotti agroalimentari che ha portato a una crescente richiesta di terre fertili arabili. Con la decisione di USA e Unione Europea di produrre una quota di energia “verde” attraverso vegetali, ha fatto seguito un aumento della domanda di biocarburanti prodotti tramite la lavorazione della canna da zucchero, della soia, del mais, ecc. e quindi la domanda di vasti territori da mettere a coltura.

    Il flusso più recente e più consistente di investimenti speculativi in terre fertili si è verificato dopo la crisi finanziaria ed è stato opera di fondi di investimento e fondi pensione che hanno iniziato a considerare la terra un bene rifugio, un bene materiale (a differenza di un titolo cartaceo con valore volatile) che è anche un mezzo basilare per produrre alimenti e che si prevede diventi in futuro un bene limitato, quindi più costoso.

    Nell’analisi delle cause dell’acquisizione di grandi estensioni di terra bisogna ancora considerare le premesse, cioè cosa ha reso possibile e ha facilitato questo fenomeno. Consideriamo le politiche messe in campo fin dagli anni Ottanta dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Queste due istituzioni internazionali hanno concesso prestiti ai Paesi del Sud del mondo in cambio dell’adozione di politiche economiche di austerità. Hanno richiesto il rispetto di rigide regole che prevedono il taglio della spesa sociale, la privatizzazione dei già scarsi servizi sociali, l’aumento delle esportazioni e la diminuzione delle importazioni, l’apertura agli investimenti stranieri, l’abbattimento delle barriere commerciali, ecc. I programmi del FMI e della Banca Mondiale (chiamati di “aggiustamento strutturale”), dove sono stati applicati, hanno aperto la strada all’accaparramento delle terre agevolando gli investitori stranieri. La debole posizione contrattuale dei paesi esposti al debito estero facilita nei fatti la cessione della sovranità su porzioni dei propri territori a soggetti stranieri.

    Le conseguenze

    L’espropriazione delle terre dei contadini, delle comunità di villaggio, delle piccole proprietà coltivate dalle famiglie stravolge la geografia umana dei territori attraverso l’espulsione complessiva di milioni di soggetti, distrugge storici e consolidati legami di comunità. Gli effetti ricadono inoltre sul degrado del suolo.

    I contadini e le comunità locali vengono espulse da territori che occupano da generazioni e che possiedono per un diritto consuetudinario. Nella gran parte dei casi non possiedono un titolo che certifichi la proprietà legalmente riconosciuta della terra e questo rende anche più facile ai governi prendere decisioni sulle loro teste ed evitare che partecipino in qualche modo alle negoziazioni.

    L’agricoltura familiare, che per quanto povera consentiva una certa sicurezza alimentare, viene smantellata. In piccola parte i contadini diventano braccianti delle grandi società dell’agrobusiness che si sono appropriate delle loro terre (un classico processo di proletarizzazione) e vengono retribuiti con stipendi da fame. Si formano masse crescenti di disperati che migrano nelle baraccopoli delle periferie delle metropoli, andando ad ingrossare l’esercito dei sottoproletari disposti a tutto pur di sopravvivere, che diventano spesso braccia delle reti criminali (significativo in questo senso il caso delle baraccopoli brasiliane). Nell’Africa subsahariana si registrano casi in cui gli espulsi che non riescono a fuggire vengono rinchiusi nei campi profughi o confinati in villaggi-lager dove sopravvivono nella miseria; insomma è lo stesso meccanismo delle riserve adottato a suo tempo per i nativi (gli “indiani”) del nord America. Le comunità locali sono comunque distrutte, allo stesso modo del lavoro e dell’economia della piccola coltivazione diretta, con tutto il tessuto di relazioni locali che sosteneva queste realtà. Non sono rari i casi in cui, per espellere le comunità locali si faccia uso dell’esercito o di milizie private e che vengano bruciate case e raccolti.

    Il suolo, per il tipo di agricoltura intensiva che viene praticato, va incontro ad un processo di degrado anche rapido. Si tratta di iniziative speculative che hanno tempi brevi e che mirano a raggiungere profitti immediati sfruttando il più possibile territori fertili, che in passato sono stati coltivati attraverso un’agricoltura in equilibrio con la capacità del suolo di rigenerarsi. I grandi gruppi dell’agrobusiness, per accrescere la produttività, fanno un largo uso di prodotti chimici che avvelenano il suolo e le riserve di acqua presenti. Non è raro che quando il ciclo di produzione finisce, il risultato sia quello di lasciarsi alle spalle delle “terre morte”. Inoltre la tossicità delle monocolture commerciali si diffonde anche nei terreni circostanti creando seri problemi alle piccole coltivazioni familiari dei braccianti che qui vivono, costrette ad integrare con una piccola agricoltura il misero salario che ricevono dalle multinazionali.

    Per le comunità locali il calcolo dei guadagni e delle perdite è sempre in passivo. Questi esiti sono la regola, a prescindere dai luoghi interessati dall’acquisizione di terre e dal tipo di soggetti investitori. In questi territori, che certamente non potevano dirsi floridi, non era però presente la sofferenza per la mancanza di cibo. Ora che le nuove piantagioni per l’esportazione hanno soppiantato la policoltura contadina, i problemi alimentari si sono aggravati.

    Altre criticità del land grabbing.

    L’accaparramento delle terre di questi ultimi anni nel Sud del mondo presenta altri elementi di criticità che possono cambiare anche da situazione a situazione. Nell’Africa subsahariana sono molto gravi i problemi di sicurezza alimentare, più che in altri continenti. Le terre cedute ai gruppi stranieri sono destinate a produzioni che vengono esportate, si tratta di terre arabili sottratte ai pressanti bisogni dell’alimentazione locale. Nella presentazione di un suo video dedicato al  land grabbing il regista svedese Joakim Demmer ha raccontato che all’aeroporto di Addis Abeba “mi è capitato di vedere alcuni lavoratori stanchi che stavano caricando alcuni alimenti su un aereo destinato all’Europa e, allo stesso tempo un altro gruppo era occupato a scaricare sacchi di aiuti alimentari da un secondo aereo. Mi ci è voluto un po’ di tempo a realizzare che questo paese colpito dalla fame, dove milioni di persone dipendono da aiuti alimentari, sta esportando cibo verso di noi”

    Gli accordi fra governi e gruppi stranieri vengono negoziati in modo poco trasparente, infatti ci sono grossi ostacoli per avere dati e informazioni sui contenuti e sul numero degli stessi accordi. I governi, in mancanza di titoli sulla proprietà della terra, decidono a chi venderla o a chi concederla in affitto, anche con contratti di 50 o 99 anni. Considerate “terre di nessuno”, le comunità locali vengono improvvisamente espulse da territori in cui hanno vissuto da generazioni.

    Il land grabbing sarebbe più corretto chiamarlo furto legalizzato. Le terre vengono affittate con canoni irrisori, i prezzi dei terreni si aggirano su 1 dollaro per ettaro e possono subire ancora una riduzione a causa della concorrenza fra i governi per attrarre gli “investitori”.

    L’idea promossa dai governanti e diffusa dalle multinazionali dei paesi più sviluppati è che l’acquisizione di terre da parte dell’agrobusiness comporti una modernizzazione dell’agricoltura e favorisca lo sviluppo dell’economia dei paesi del Sud del mondo. Questo non avviene, la realtà è diversa. Questo tipo di narrazione ci ricorda la solita vecchia propaganda del colonialismo (“lo facciamo per il loro bene”), ora adottata dal neocolonialismo. Nessuno di questi investimenti si inserisce in un sistema organico di sviluppo. Si tratta di iniziative economiche di breve termine, di investimenti mordi e fuggi, com’è nella natura dell’odierno capitalismo predatorio.

    Il rapporto fra movimenti migratori e land grabbing

    È difficile riuscire a stabilire un rapporto diretto fra accaparramento delle terre fertili e fenomeni migratori, almeno per quanto riguarda i flussi verso l’Europa. Nei nostri Paesi giungono giovani che appartengono alle classi urbane più istruite, figli dei ceti medi che investono tutte le loro risorse (anche indebitandosi) per tentare il viaggio della speranza. Il land grabbing sicuramente causa enormi migrazioni su scala locale. Grandi masse di coltivatori espulsi in modo forzato, appartenenti alle comunità rurali spossessate dalle terre, tendono a insediarsi ai margini delle città andando ad ingrossare le fila del sottoproletariato urbano e quindi a competere su un mercato del lavoro già estremamente limitato e, con un effetto a cascata, spingendo i figli dei ceti medi verso la fuga in direzione dei paesi europei. Meno del 10% dei migranti si recano nei paesi più sviluppati dell’Europa e del Nord America. La gran parte dei movimenti migratori avviene su scala locale o fra paesi vicini del Sud del mondo. Se non può dirsi che ci sia una relazione diretta fra land grabbing e migrazioni è molto probabile che esista una consequenzialità indiretta. D’altra parte i flussi migratori internazionali seguono lo stesso percorso, in senso contrario, dei capitali investiti nell’accaparramento delle terre arabili del Sud del mondo.

    Che si tratti di una guerra per la terra lo possiamo capire da questo dato: nel 2018 sono state uccise 321 attivisti e difensori dei diritti che si sono opposti al saccheggio, alla devastazione e all’inquinamento su vasta scala di foreste, terra e acqua.

    7/1/2020 www.lotta-continua.it

    Tags: Africa subsahariana agrobusiness alimentazione austerità dalla Banca Mondiale fame nel mondo Fondo Monetario Internazionale. inquinamento Joakim Demmer land grabbing Land Poverty Conference di Washington multinazionali alimentari neocolonialismo neoimperialismo povertà capitalismo rifeudalizzazione saccheggio fondiario Saskia Sassen sfruttamento sicurezza alimentare Sud del mondo
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