I PROTOCOLLI DELLA VERGOGNA SULLA SICUREZZA SUL LAVORO. Morte continua

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Si abbassano i controlli e si liberalizza ulteriormente il sistema degli appalti, favorendo il subappalto ed eliminando la gara dalla quasi totalità dei lavori pubblici. È quanto prevede il Codice Salvini assunto dal Governo Meloni. Per lavori fino a 150mila euro è previsto l’affidamento diretto e poi si utilizzerà la procedura negoziata senza bando per tutti gli altri che resteranno sotto la soglia, ovvero: l’amministrazione pubblica verrà estromessa di fatto dalla fase progettuale, perdendo ulteriore capacità di controllo e di direzione. Così si fa largo non solo alla corruzione e alle infiltrazioni mafiose, ma si rinuncia all’idea che la pubblica amministrazione possa svolgere una funzione di governo, mettendo lo Stato nelle mani delle imprese private. Gli effetti di questa “semplificazione” non potranno che essere quelli di una maggiore pressione sui lavoratori, con tagli sui salari e sulle condizioni di sicurezza, abbassamento della qualità dei materiali utilizzati e ricadute a cascata sulla sicurezza, sulla qualità dei lavori e finanche sui costi per la P.A. che inevitabilmente cresceranno, insieme alla corruzione. E ad aumentare saranno anche infortuni e omicidi sui posti di lavoro.Qualche settimana fa, il vertice dell’Ispettorato Nazioinale del Lavoro e il presidente dell’ordine dei consulenti del lavoro hanno sottoscritto due protocolli che ripropongono logiche vecchie e pericolose: si rispolvera l’asseverazione di conformità – già proposta nel passato, quando INL non ancora esisteva, ma gli attori in campo erano quelli di oggi – con cui il datore di lavoro si fa certificare, a pagamento, dal consulente del lavoro di essere in regola col pagamento di contributi, di rispettare le norme contrattuali e di legge in materia di rapporti di lavoro. In cambio, sarà inserito in una lista di “aziende buone”, (chi lo decide è un mistero) che saranno esonerate dalle ispezioni sul lavoro per un anno, a meno che non siano presentate denunce, inchieste giudiziarie o indagini a campione sulla veridicità delle autocertificazioni.

Praticamente si consegna le chiavi dell’attività dell’INL a un soggetto privato quale è l’Ordine dei Consulenti del Lavoro. In poche parole significa che soggetti privati avranno la titolarità discrezionale di intervenire nella definizione delle circolari e sull’operatività della vigilanza.

Come velenosa ciliegina su questa già mortale torta si aggiunge -per non disturbare le imprese come affermato dalla Meloni nel suo discorso d’investitura- che le ispezioni debbano avvenire con la minor turbativa possibile all’attività produttiva. Ci sarebbe da ridere se non fosse tragico lo stato di privazione dei diritti sul lavoro che porta alla violenza produttiva in questo mal Paese.

Chi conosce l’attività ispettiva sa benissimo che avvisare l’azienda prima di procedere all’ispezione vuol dire inficiare preventivamente il compito degli ispettori atto a prevenire gli infortuni.

Miscellanea delle piaghe. Schizzi di mal lavoro nel mal Paese

Lavoro: la martellante disinformazione mainstream

Il 20 marzo un articolo sul sito “dataroom@corriere.it” Milena Gabanelli e Francesco Tortora hanno denunciato la “trappola” dell’iper flessibilità nel mercato del lavoro italiano realizzatesi, in Italia, negli ultimi venticinque anni, a partire dal “Pacchetto Treu” del governo Prodi e fino al Jobs-act di Renzi, passando attraverso l’ormai famigerata “legge Biagi” che a suo tempo tutti, dalla politica governativa ai sindacati confederali, elogiavano come modernizzazione salvifica dei settori produttivi.

In particolare, i due autori si sono soffermati sui timori relativi al preannunciato ritorno dei voucher, e della notevole crescita dei contratti a termine, l’aumento della precarietà del lavoro – considerata una vera e propria “trappola” per milioni di lavoratori – e, non ultimo, del dramma dell’ormai istituzionalmente accettato principio di“lavoro povero”.

L’articolo ci dava il quadro inconfutabile del percorso schiavistico imposto a milioni di giovani in particolare, ma in questo nostro strano Paese c’è sempre qualcuno – nella cerchia dorata del circuito mainstream – che – contando sull’assordante (e dispersivo) flusso di notizie cui siamo costantemente soggetti, sulla superficialità del “lettore medio” e, soprattutto, sulla diffusa non conoscenza dei fatti – ritiene di poter smentire anche ciò che è inconfutabilmente vero e supportato da dati oggettivi.

La stessa discussione in atto sul salario minimo garantito la dice lunga sul concetto di lavoro che si è affermato in Italia a prescindere dalla Costituzione, e dal principio di “lavoro universalistico” sul quale è nata nel 1906, dall’unificazione delle Leghe e le Federazioni di categoria, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro.

Oggi l’ambito di discussione è accerchiato dal moderatismo poltico e sindacale del neo liberismo soft dentro il quale avanza indisturbato il sistema delle disuguaglianze ultimamente consacrato prima dallo stretto rapporto del sindacato confederale con il governo Draghi e ora dall’intervento al congresso della Cgil di Giorgia Meloni che non ha perso l’occasione di sproloquiare di salario minimo e contrattazione con le classiste categorie padronali che hanno supportato il ventennio fascista.

Ricordiamo (quello che non fanno giornali e TV) che in 21 dei 27 Stati Europei è attuato il salario minimo; Ma in Italia non c’è e addirittura lo rinnega: il 15 Marzo in Parlamento la Meloni ha chiuso ogni possibilità d’approvazione del salario minimo, contrabbandandolo con l’allargamento della contrattualità; mentre di fatto nel contempo allarga il principio della precarietà. Nel nostro paese su 23 milioni di occupati ben 3.200.000 sono a partite IVA (22%; 14% la media europea e l’8,8% in Germania); senza parlare del precariato in nero, il tutto perchè il precariato è una speculativa organizzazione del lavoro voluta dal padronato.

Niente salario minimo ma cottimo legale anche in Sanità a scapito del personale e dei malati

L’abolizione del vincolo di esclusività per infermieri e ostetriche si costringe, in assenza di politiche occupazionali, il personale, dopo turni massacranti nei reparti, a svolgere ulteriori attività per portare a casa uno stipendio più o meno adeguato al costo della vita.

Viene inoltre eliminato il vincolo delle 8 ore per l’attività intramoenia e si alzano le tariffe incentivando così il personale a sottoporsi a un vero e proprio tour de force, alla faccia del concetto di benessere psico-fisico, con rischi concreti per la sicurezza propria e dei pazienti, in nome di un distorto concetto di crescita e sviluppo professionale, e della negazione di aumenti retributivi adeguati alla media Ocse.

In questo Decreto c’è anche il via libera all’affidamento a terzi dei servizi medici ed infermieristici in ambito ospedaliero, per ora, come apripista, limitatamente ai servizi di emergenza-urgenza. Una trappola, per il coinvolgimento del personale sanitario nella ulteriore privatizzazione, in cui è subito caduta “Confcooperative Sanità” che si è subito attivata, anche, per la gestione di attività territoriali e assistenza domiciliare con operatori in cooperativa, quindi il governo si appresta a nuove massicce esternalizzazioni.

Di negativo e pericoloso, a nostro parere, nel decreto c’è anche la possibilità di procedere d’ufficio contro chi aggredisce il personale sanitario non tenendo conto, anzi nascondendolo, con una misura populista, che il disagio, e quindi anche la rabbia, dei cittadini – prodotto dalle lunghissime liste d’attesa per visite, ricoveri ed esami a causa della scomparsa del filtro della medicina territoriale – induce a vedere il medico e l’infermiere come terminale fisico. Reprimere il disagio con atti giudiziari allontana sempre di più il cittadino dalla sanità pubblica. La rabbia dei cittadini dovrebbe essere assunta dagli operatori sanitari come fonte di ribellione a questo stato di cose. Solo così si fermeranno i litigi e le aggressioni.

Italia ultima per la parità di genere sul lavoro

Il rapporto “Gender equality index” dell’Istituto europeo per la gender equality (Eige) sintetizza la parità di genere dei 27 stati membri dell’Unione europea su 31 indicatori: lavoro, denaro, conoscenza, tempo, potere e salute. Nell’ultima edizione del 2022, siono attenzionate anche la violenza contro le donne e le disuguaglianze intersezionali ma che non rientrano ancora nel calcolo dell’indice finale.

Secondo il rapporto, l’Italia si colloca al quattordicesimo posto della classifica sotto la media europea. Un dato che ci parla di un’Europa con forti disuguaglianze sotto il profilo delle pari opportunità.

Gli ambiti in cui il nostro paese se la cava peggio sono lavoro e tempo. L’Italia è infatti ultima in Europa per quanto riguarda la parità di genere nel mondo del lavoro, con un punteggio di 63,2 (la media europea è di 71,76) e un livello di partecipazione femminile al lavoro tra i più bassi (68,1 contro 81,3). Un risultato davvero preoccupante, anche per il tempo dedicato alle attività di cura (di figli, persone anziane e lavoro domestico) che pesa ancora soprattutto sulle donne, tanto da collocare il paese tra gli ultimi sei europei.

La piaga del lavoro minorile in questo mal Paese

Un fenomeno diffuso ma ancora in larga parte sommerso e invisibile. Il Rapporto di “Save The Children” stima che in Italia 336mila minorenni tra i 7 e i 15 anni abbiano avuto esperienze di lavoro, quasi 1 minore su 15, il 27,8% ha svolto lavori particolarmente dannosi per i percorsi educativi e per il benessere psicofisico perché svolti in orari notturni o perché svolti in maniera continuativa durante il periodo scolastico, vedi alternanza Scuola/Lavoro. I dati sono stati raccolti da “Non è un gioco”, la nuova indagine sul lavoro minorile in Italia che, dalle stime, riguarderebbe circa 58mila adolescenti. La ricerca parla anche dicuna relazione tra lavoro minorile e dispersione scolasticacome d un circolo vizioso di povertà ed esclusione.

In Italia per legge è possibile per gli adolescenti iniziare a lavorare a 16 anni, avendo assolto l’obbligo scolastico, ma dall’indagine emerge che quasi un 14-15enne su cinque svolge o ha svolto un’attività lavorativa prima dei 16 anni, rischiando così di compromettere i percorsi educativi e di crescita.

I settori prevalentemente interessati dal fenomeno del lavoro minorile sono: la ristorazione (25,9%); la vendita al dettaglio nei negozi e attività commerciali (16,2%); le attività in campagna (9,1%) e in cantiere (7,8%); le attività di cura con continuità di fratelli, sorelle o parenti (7,3%). Non mancano neppure nuove forme di lavoro online (5,7%), come la realizzazione di contenuti per social o videogiochi, il reselling di sneakers, smartphone e pods per sigarette elettroniche. Nel periodo in cui lavora, più della metà degli intervistati lo fa tutti i giorni o qualche volta a settimana e circa 1 su 2 lavora più di 4 ore al giorno.
Di questi la scoperta di braccianti bambini trattati come schiavi nelle campagne di Latina, sfruttati da clan mafiosi e padroncini fascisti.

Redazione Lavoro e Salute

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