I segni della crisi sui corpi delle donne

“Non dimenticate mai che sarà sufficiente una crisi politica, economica o religiosa perché i diritti delle donne siano rimessi in discussione. Questi diritti non sono mai acquisiti. Dovrete restare vigili durante tutto il corso della vostra vita”. Simone de Beauvoir (1908-1986)

Molti studi includono le situazioni di crisi fra le cause di aumento della violenza domestica, soprattutto in relazione all’incremento del livello di stress psicologico e finanziario, all’aumento del grado di incertezza e a una generalizzata sensazione di perdita di controllo sulla propria vita.

Inoltre, la politica dello “stare a casa” espone le donne vittime di violenza alla presenza costante del loro assalitore e la violenza di genere aumenta esponenzialmente nei momenti di prossimità familiare: diversi studi (1, 2, 3) stimano un aumento nella probabilità di episodi di violenza domestica nei weekend, tra la sera e le prime ore della mattina e durante le vacanze.

Questi risultati si sposano bene con le prime evidenze prodotte dalla crisi attuale. L’Organizzazione mondiale della sanità ha dichiarato che l’emergenza coronavirus ha causato un grosso incremento nei casi di violenza domestica e il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres si è appellato ai governi perché intervengano per contrastare il drammatico aumento delle violenze domestiche durante la pandemia.

Da tutto il mondo, affiorano i dati e le testimonianze agghiaccianti di attivisti, cittadini e lavoratori dei centri antiviolenza sulle violenze subite dalle donne durante il lockdown. Dalla Cina, che ha attraversato la crisi con largo anticipo rispetto al resto del mondo, arrivano i primi dati. Wan Fei, un ex poliziotto di Junzouh (nella provincia di Hubei) e fondatore di una organizzazione nonprofit contro la violenza sulle donne, riporta un raddoppio delle violenze domestiche dall’inizio della quarantena. La polizia francese ha denunciato un aumento a livello nazionale di circa il 30% nelle violenze domestiche dall’inizio del lockdown. In Turchia, secondo le statistiche del dipartimento di polizia di Istanbul, con la riduzione della circolazione nel mese di marzo si è registrato un calo dei reati su base annua del 14,5% (dai furti agli omicidi), ma un aumento del 38,2% degli episodi segnalati di violenza domestica.

In Italia, Emiliano Bezzon, comandante della polizia municipale di Torino, riporta un aumento preoccupante dei Tso (ricovero forzato di pazienti con problemi psichiatrici potenzialmente pericolosi). Ad esempio, solo per il giorno 19 marzo, sono stati eseguiti nove Tso a Torino, un incremento esponenziale rispetto alla media annuale di meno di uno al giorno. Un chiaro segnale di crescita dei comportamenti violenti e potenzialmente rischiosi.

La politica del lockdown aggiunge anche una drammatica aggravante a questa generale esplosione di violenza: l’isolamento. Il supporto sociale è stato stimato come fattore protettivo contro la violenza domestica e, mai come in questi giorni, le donne vittime di violenza si trovano impossibilitate a chiedere aiuto e ad ottenere del supporto psicologico a causa della costante presenza dei loro assalitori.

Il report del 2014 del National Resource Center stima che durante le vacanze le chiamate alla National Domestic Violence Hotline (linea nazionale per supportare le vittime di violenza negli Stati Uniti) si riducono da circa l’11% durante la settimana del giorno del ringraziamento, fino al 43% nel giorno di Natale. 

In linea con questa letteratura, nelle prime due settimane di marzo, in Italia le chiamate al centralino del Telefono Rosa sono diminuite del 55,1% rispetto all’anno precedente.

Non è sorprendente che in un periodo di crisi e di prossimità familiare, in cui cresce il livello di violenza, da un lato aumenti la probabilità di atti di estrema violenza che richiedono l’intervento della polizia e quindi cresca il numero di chiamate alle forze dell’ordine, dall’altro diminuiscano le telefonate alle linee antiviolenza. Infatti, più della metà delle chiamate a queste linee sono collegate al bisogno di supporto psicologico o alla richiesta di informazioni, e la costante presenza del partner rende impossibile per le vittime parlare liberamente al telefono. Al contrario, la decisione di chiamare le forze dell’ordine è perlopiù indipendente dalla presenza del proprio aguzzino, sia perché le segnalazioni vengono spesso effettuate da parti terze (come vicini o passanti), sia perché la maggior parte delle donne ricorre a questa soluzione solo in casi estremi, in cui il timore per la propria vita prevale sulla paura del proprio assalitore. L’Istat ha stimato che nel 2019 solo il 17,7% delle vittime che hanno chiamato il 1522 ha in seguito deciso di denunciare il proprio assalitore (figura 1). 

Figura 1: Denuncia dell’atto violento (valori assoluti e valori percentuali). Periodo Gennaio 2013 – Settembre 2019

Fonte: Report di analisi dei dati del numero verde contro la violenza e lo stalking 1522, Istat 2019

Alla luce delle informazioni provenienti da tutto il mondo sull’incremento delle violenze durante il lockdown e della letteratura scientifica menzionata, possiamo escludere la possibilità che la diminuzione delle chiamate al 1522 sia sintomo di una diminuzione della violenza. Risulta invece evidente dal cambiamento della tipologia di chiamate nei giorni di lockdown, come questo crollo rifletta la difficoltà delle vittime di chiedere aiuto. Una psicologa del Telefono Rosa racconta di vittime che bisbigliano nelle cornette, chiamano dalle docce o chiudendosi in macchina, mentre il presidente dell’associazione Differenza Donna, Elisa Ercoli, parla di telefonate fatte con palese disagio, molto brevi e sussurrate, fatte da donne evidentemente sotto controllo continuo. 

Infine, non dimentichiamoci che questa mancanza di supporto avrà effetti anche nel lungo periodo: non parlare con nessuno delle violenze subite in famiglia espone le donne ad una maggior probabilità di diventarne nuovamente vittime e aumenta il grado di trasmissione del rischio alle generazioni future. 

Un’ulteriore conseguenza dell’aumento della violenza sulle donne è l’aumento delle gravidanze indesiderate, trend che va di pari passo con un’improvvisa riduzione dell’accesso al servizio di interruzione volontaria di gravidanza. Dichiarando la conformità al decreto del 9 marzo, molti ospedali italiani hanno sospeso la fornitura del servizio considerandolo illegittimamente non essenziale, nonostante la legge 194 inserisca l’interruzione volontaria di gravidanza fra le prestazioni mediche essenziali.

Questa parziale sospensione del servizio va a pesare su una situazione di per sé già drammatica. L’Italia è uno dei paesi al mondo col più alto numero di medici obiettori di coscienza, con un tasso in crescita dall’approvazione della legge 194 (figura 2) e con una forte eterogeneità tra regioni (figura 3). In aggiunta, nel 2017 solo il 64.5% degli ospedali con un reparto di ostetricia e ginecologia effettua interruzioni di gravidanza. Gli altri ospedali di fatto rientrano illegalmente in quella casistica che viene definita come “obiezione di struttura”, situazione non ammessa dalla legge 194.  Nonostante gli ammonimenti dell’Unione Europea, che ha definito la situazione italiana come discriminatoria e in violazione dei diritti alla salute, il Ministero della Salute continua a dichiarare adeguato il livello di offerta del servizio.  

Figura 2: percentuali di ginecologi che dichiarano obiezione di coscienza in Italia, 1983-2016

Fonte: Ministero della salute 

Figura 3: distribuzione regionale delle percentuali di ginecologi che dichiarano obiezione di coscienza in Italia, 2017

Fonte: Ministero della salute 

In realtà, già in condizioni di normalità, questa situazione costringe le donne a muoversi da un comune all’altro, e nei casi peggiori, da una provincia o una regione all’altra, per riuscire ad abortire. L’impossibilità di movimento imposta dai decreti per fronteggiare il Covid19 sta negando a molte donne la possibilità di spostarsi per riuscire ad interrompere la gravidanza. Nel 2016 più di 4000 donne hanno avuto un aborto fuori dalla loro regione di residenza, cifra che ammonta a circa il 5% di tutti gli aborti. Analizzando la differenza fra regione di occorrenza dell’aborto e regione di residenza della donna, possiamo ricavare un indicatore del flusso netto in entrata di donne che vogliono abortire, per ciascuna regione. Le regioni per le quali il tasso di aborti per luogo di occorrenza è significativamente minore del tasso di aborti per luogo di residenza della donna, sono le regioni in cui è più difficile abortire; al contrario, quelle per cui la relazione è invertita, sono le regioni che attirano donne dall’esterno. Confrontando la percentuale di medici obiettori con i flussi di donne in uscita, possiamo notare come le regioni con più obiettori presentino un problema di accesso all’aborto che spinge le donne a spostarsi per ricevere assistenza (fig. 3). Gli autori stimano come un aumento di 10 punti percentuali nella quota di medici obiettori sia associate con un aumento di 2.1 punti percentuali nel flusso di donne in uscita. 

Figura 4: Flusso netto in entrata per regione 2016

Fonte: Autorino et al. 2020                                                      

Ad aggravare la situazione, il 25 marzo l’associazione ProVita e Famiglia (uno dei più importanti gruppi pro-life a livello italiano) ha avviato una petizione online indirizzata al Ministero della Salute per chiedere di vietare l’aborto negli ospedali italiani; mentre in Texas ed Ohio l’aborto è già stato dichiarato intervento non necessario ed è stato revocato alle cliniche il diritto di svolgere l’intervento. 

Dalla letteratura scientifica risulta evidente che quando l’accesso all’aborto legale non è garantito, le donne ricorrono all’aborto clandestino. L’Istat ha stimato un ammontare di circa 10.000-13.000 aborti clandestini in Italia per gli anni 2014-2016. L’emergenza coronavirus e le sue conseguenze sull’accesso all’aborto potrebbero aver fatto esplodere il fenomeno. Nonostante la vendita online di pillole abortive abbia reso questa procedura meno rischiosa che in passato, abortire clandestinamente presenta comunque molti rischi per la salute della donna. L’Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che a livello mondiale il costo annuale per il trattamento delle complicazioni derivanti dagli aborti clandestini si aggira intorno ai 553 milioni di dollari. 

Il processo di costruzione di misure di contenimento per affrontare l’attuale crisi sanitaria necessita di uno sguardo più attento alla centralità dei corpi delle donne come fulcro delle disuguaglianze di genere all’interno del nostro paese. Dobbiamo evitare che una crisi sanitaria si trasformi in una crisi sociale e politica che costringa le donne ad arretrare nell’esercizio dei propri diritti. 

Caterina Muratori, Maria laura Di Tommaso

15/4/2020 http://www.ingenere.it

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