I vaccini sono più mostruosi della malattia?

Quando penso agli effetti delle malattie infettive mi viene in mente la sorella di mio nonno Franco. Zia Sandra, almeno nei miei ricordi, aveva una gamba più piccola dell’altra e zoppicava vistosamente. La sua disabilità era stata provocata dalla poliomielite che l’aveva colpita da bambina, negli anni ’30. Ma zia Sandra non era un’“anomalia”: almeno fino agli anni ’90, non era raro vedere e conoscere persone che portavano sul proprio corpo i segni della polio, come il cantautore Pierangelo Bertoli, che cantava di affrontare la vita a muso duro in uno dei testi più belli della musica italiana.

Oggi, in occidente, vedere persone che hanno avuto la polio è invece sempre più raro: grazie ai vaccini, l’ultimo caso in Italia si è registrato a inizio anni ‘80. È così che se io, nata nel 1985, ricordo la disabilità di zia Sandra, già le mie sorelle – nate nel 1987 e nel 1993 – non ne hanno memoria o, quanto meno, non la collegano alla polio. Con gli anni, si sono persi il contatto e la memoria delle epidemie e delle malattie infettive che per millenni hanno colpito l’umanità, seminando morte e deturpando corpi e menti: se, fino al 2020, i giovani occidentali le ritenevano qualcosa che non li avrebbe mai riguardate, anche negli anziani, divenuti adulti in un mondo in cui vedere le conseguenze fisiche delle malattie era “normale”, ne hanno ricordo sempre più attenuato.

La polio è però una malattia, se vogliamo, esemplare: ed è per questo che nel libro Immunità. Vaccini, virus e altre paure (2014), la scrittrice statunitense Eula Biss ne parla diffusamente.

La paura che provocava – uccideva, provocava disabilità ed era veicolata da persone quasi sempre asintomatiche (90-95%) o con sintomi lievi e aspecifici (4-8%) – ha animato infatti l’unico momento della storia degli ultimi tre secoli in cui la popolazione di tutti i paesi ha aderito entusiasticamente a una campagna vaccinale. Biss, nata nel 1977, ricorda che la generazione di suo padre era stata quella dei “polio pioneers”, i 650.000 bambini statunitensi che i genitori presentarono come volontari per sperimentare, alla fine degli anni ’50, il primo vaccino contro la poliomielite, quello di Jonas Salk:

«È difficile oggi immaginare genitori che facciano una richiesta del genere. Se è vero che chiediamo regolarmente di fare più test dei vaccini e più sperimentazioni umane, il presupposto implicito è che non vogliamo che siano i nostri figli l’oggetto di quelle prove» (p. 88).

(da commons.wikimedia.org)

La sperimentazione Sabin in Urss

Biss non ne parla ma ancora più “azzardata” fu la sperimentazione del secondo vaccino contro la polio, quello orale messo a punto da Albert Sabin, in Unione Sovietica: tra il 1959 e il 1960, senza alcuna volontarietà, il vaccino, fino allora provato solo su pochissimi detenuti, fu somministrato a quasi 90 milioni di ragazzi e ragazze sovietici sotto i vent’anni, ben prima di essere ufficialmente approvato nel 1962.

Da quel momento, il vaccino di Sabin è stato utilizzato in tutto il mondo nonostante, in circa 1 caso su 1 milione, esso possa provocare… la poliomielite! Se oggi abbiamo quasi eradicato la polio, lo dobbiamo quindi a due vaccini sperimentati in massa direttamente “sul campo” e all’approvazione di un vaccino che può provocare la stessa – terribile – malattia che si propone di combattere. Miliardi di persone si sono da allora vaccinate contro un virus che, probabilmente, non le avrebbe mai colpite, nonostante il rischio di sviluppare la malattia proprio in seguito al vaccino.

Ma se Biss parla della polio, nel 2014, non è solo per amarcord storico. Le sue riflessioni emergono infatti in seguito alla pandemia di H1N1, la cosiddetta influenza suina, del 2009-2010: se oggi il vaccino per un ceppo di H1N1 fa parte senza alcun clamore del vaccino antinfluenzale, dieci anni fa la sua somministrazione si era scontrata con una forte “esitazione vaccinale” in tutto il mondo occidentale.

In Italia fu somministrato solo il 4% delle 30 milioni di dosi acquistate: erano gli anni in cui cominciava a registrarsi un generale e sensibile calo della copertura vaccinale.

L’esitazione vaccinale, già dieci anni fa, era un fenomeno così diffuso da interessare studi e ricerche. Particolarmente interessanti sono quelli dell’antropologa medica statunitense Anna Kata, che in un articolo del 2009 e in uno del 2011, ha evidenziato alcuni elementi costitutivi dei discorsi antivaccinisti su Internet: i dubbi sulla loro sicurezza ed efficacia («i vaccini contengono sostanze tossiche», «non si può sapere se i vaccini sono sicuri», «i vaccini sono innaturali»), la predilezione per le medicine alternative e il pregiudizio antiscientifico («anche Galileo è stato perseguitato», «la scienza ha già sbagliato in passato»), l’enfasi sulle libertà civili e le teorie cospirazioniste («siete al soldo di Big Pharma»).

Le basi costitutive dei discorsi antivaccinisti dell’ultimo anno, dunque, erano già radicate un decennio fa ma trovano le loro radici nell’Ottocento, con l’ostilità incontrata dal primo vaccino della storia dell’umanità, quello contro il vaiolo. Esso era accusato di causare infezioni e altre, gravi, malattie, di essere inutile (anche perché necessitava di richiami), di contenere sostanze dannose, di favorire il controllo della popolazione attraverso le istituzioni sanitarie. Biss riporta il contenuto di un volantino del 1881 intitolato Il vampiro della vaccinazione, che «metteva in guardia dall’“inquinamento universale” trasmesso dal vaccinatore al “bimbo innocente”».

Questa rappresentazione, nota Biss, conteneva il “fondamento” di tutte le posizioni esitanti o ostili verso i vaccini, cioè la convinzione«che la vaccinazione sia più mostruosa della malattia»(pp. 22-23) in quanto potenzialmente in grado di provocare danni su un corpo percepito come “sano”.

Per quanto si tratti di timori irrazionali e spesso privi di qualsiasi fondamento scientifico, il loro radicamento secolare impone di tenerli in considerazione, anche per confutarli o per restituire alle (rarissime ma possibili) reazioni avverse la giusta misura: del resto, psicologicamente, può sembrare strano – forse mostruoso – inocularsi volontariamente il virus (per quanto inattivato, attenuato, ecc.) che si vorrebbe evitare. Il volume di Biss si pone proprio questo obiettivo.

(da commons.wikimedia.org)

I vaccini, farmaci sicuri

Oggi, infatti, i vaccini sono tra i farmaci più sicuri e controllati. Il rischio di reazioni avverse è bassissimo e, in nessun caso il vaccino è più mostruoso della malattia: sia sufficiente pensare che il morbillo, ritenuto innocuo nonostante – scrive Biss – abbia «provocato la morte di più bambini di qualsiasi altra malattia nella storia», ha esiti fatali ogni 1.000/3.000 infettati (la percentuale è prevedibilmente più alta nei paesi poveri), mentre il vaccino può causare un’encefalite su un milione di somministrazioni.

Chiaramente il rischio zero non esiste, parlando di farmaci o di prestazioni sanitarie: la comunissima aspirina provoca malattie cardiovascolari e gastro-intestinali e insufficienza renale ed epatica, causando la morte di decine di migliaia di persone ogni anno. Del resto, tutti noi accettiamo una certa dose di rischio nelle nostre azioni quotidiane. Nei manuali di primo soccorso, si legge che, tra chi pratica un massaggio cardiaco, «è stata descritta la rara insorgenza di strappi muscolari, sintomi a carico della schiena, dispnea, iperventilazione e casi aneddotici di pneumotorace, dolore toracico, infarto del miocardio e lesioni neurologiche».

Nonostante questo, credo che pochi rifiuterebbero di praticare un massaggio cardiaco nel timore di un raro strappo muscolare o di rarissimo un infarto. Persino donare il sangue è associato a reazioni indesiderate gravi per il donatore, che vanno dall’ematoma allo svenimento fino, in rarissimi casi, all’infarto del miocardio o all’embolia. Eppure, continuiamo a donare gratuitamente il nostro sangue per salvare gli altri.

Se è giusto conoscere – e ridimensionare – i rischi, è altrettanto utile evidenziare come invece i timori sulle “sostanze tossiche” contenute nei vaccini siano dannosi, oltre che completamente infondati. Ad esempio, ricorda Biss, un’opinione pubblicata preoccupata per la presunta presenza di mercurio tra i componenti dei vaccini ha portato, in alcuni paesi, alla messa a bando del thimerosal (l’etilmercurio), in realtà completamente innocuo.

Questo conservante è essenziale per i vaccini multidose che, essendo facili da somministrare, sono i più diffusi tra i paesi poveri. Eliminare completamente l’etilmercurio dai vaccini significherebbe ostacolare la vaccinazione contro difterite, pertosse, tetano ed epatite B nei paesi a più basso reddito: ciò evidenzia, scrive Biss, che «le nazioni più ricche godono del lusso di accarezzare paure che il resto del mondo non può permettersi» (p. 95).

La questione del privilegio

Questa riflessione apre la strada a un altro asse portante del volume, quello del privilegio di rifiutare una vaccinazione. Biss evidenzia il nesso tra la vaccinazione e l’essere parte di una collettività: i vaccini devono essere considerati per come agiscono sul corpo collettivo della comunità, reclutando «una maggioranza a protezione di una minoranza» (p. 35), non su un singolo corpo.

«La vaccinazione di massa si rivela molto più efficace di quella individuale. Non tutti i vaccini riescono a immunizzare un individuo, e alcuni, come quello antinfluenzale, sono meno efficaci di altri. Ma quando si vaccina un numero sufficiente di persone, anche con un vaccino relativamente inefficace, i virus hanno difficoltà a passare da un portatore all’altro e cessano così di diffondersi, risparmiando sia i non vaccinati, sia coloro che non sono stati immunizzati tramite la vaccinazione» (p. 27).

Il problema, fa notare Biss, è però che – fin dall’Ottocento – quanti si oppongono ai vaccini vedono i propri corpi «non come potenzialmente contagiosi e quindi pericolosi per il corpo sociale, bensì come vulnerabili alla contaminazione e alla violazione», nonostante i nostri corpi siano contemporaneamente «sia contagiosi sia vulnerabili» (p. 34).

Riferendosi al contesto statunitense, Biss riporta i risultati di un’indagine del 2004, secondo la quale i bambini non vaccinati erano principalmente bianchi, figli di coppie sposate con un’istruzione superiore e un reddito di almeno 75.000 dollari l’anno: la scelta di non vaccinare questi bambini, facendo venire meno l’immunità di gregge, esponeva a un maggiore rischio anche i bambini “sottovaccinati”, cioè i figli delle donne single – principalmente nere e molto povere – che facevano fatica a seguire il calendario vaccinale a causa dei continui spostamenti nel paese: bambini che, vivendo in ambienti affollati e precari, alimentandosi in modo insufficiente, erano già più fragili ed esposti a malattie.

(da commons.wikimedia.org)

È il fenomeno che la storica Elena Iorio, in numero di «Venetica» del 2018 sulla storia dell’esitazione vaccinale, ha intelligentemente attribuito al «processo di “individualizzazione di massa” della società» (p. 27), che fa prevalere la rivendicazione della “libertà di scelta” sul diritto alla salute degli altri.

Se pensiamo materialmente alle persone che non possono vaccinarsi o che hanno un sistema immunitario così compromesso da non produrre anticorpi, il discorso si fa forse più preciso: come possiamo garantire che pazienti oncologici, persone affette da malattie autoimmuni o che hanno subito trapianti, anziani, ecc. possano esercitare il loro diritto a frequentare in sicurezza qualsiasi spazio se non sono sicuri dell’impegno a proteggerli di tutti gli individui che compongono la collettività (sia essa lo Stato – per quanto possiamo avversare le politiche dei governi – o, tanto più, una delle nostre comunità ristrette)?

È difficile non pensare che una società fatta su misura per gli “immunocompetenti” – per i “sani”, per coloro che si autopercepiscono come “non fragili” (per quanto solo talvolta abbiano davvero il privilegio di non esserlo) e vantano sistemi immunitari forti e in grado di superare qualsiasi malattia – sia una società basata sull’eugenetica o, come ricorda Biss riprendendo una definizione dell’antropologa Emily Martin, quanto meno su una forma di “machismo immunitario”.

L’approccio mi sembra molto simile a quello che, quasi due anni fa, nei primi giorni della pandemia e ancora prima del primo lockdown, acutamente ci invitava a tenere presente Emma Gainsforth: in due anni, non siamo però riuscite e riusciti a radicare veramente un pensiero su malattia e immunità che tenga dentro la fragilità e ancora non siamo in grado di percepirci a pieno come «corpo sano nella fragilità che non è la mia ma in cui sono immersa» e di prenderci carico degli «effetti che ha il mio corpo sano su un altro corpo che è fragile».

Vaccinisti e anticapitalisti

Se dal punto di vista scientifico ed etico l’esitazione vaccinale mostra basi traballanti, la situazione non è diversa sul piano più prettamente politico. Biss nota che la pretesa di far rientrare il rifiuto della vaccinazione «in una più complessiva resistenza al capitalismo» ha basi d’argilla:

Abbiamo le nostre buone ragioni di sentirci minacciati dall’espansione illimitata dell’industria, e lo stesso vale per la paura che i nostri interessi possano risultare secondari rispetto a quelli delle aziende. […] Il semplice fatto di avere dei nemici […] non ci autorizza a diventare paranoici. Il nostro cinismo è giustificato, ma è anche triste. Il fatto che così tanti di noi ritengano plausibile che per denaro una vasta rete di ricercatori e ufficiali sanitari e medici in tutto il mondo faccia deliberatamente del male […] costituisce la prova che il capitalismo ci sta davvero rubando molto. Il capitalismo ha già impoverito la classe dei lavoratori, che genera ricchezza per altri, e ci ha già impoverito culturalmente […]. Ma nel momento in cui cominciamo a considerare le forze del capitalismo come leggi innate della motivazione umana e che tutti siano proprietà di qualcuno, allora siamo diventati poveri per davvero (pp. 99-101).

Biss non si spinge a proporre battaglie anticapitalistiche da condurre in materia di vaccini. La realtà in cui viviamo, però, ce ne suggerisce più di una. Penso, ad esempio, al vaccino contro il Papilloma virus (HPV). L’HPV, di per sé diffusissimo, può provocare uno dei cancri più diffusi al mondo (soprattutto tra le donne giovani) – quello al collo dell’utero – oltre che una quota rilevante di tumori dell’area dell’orofaringe e di ano, pene, vulva, ecc.

Da qualche anno è disponibile un vaccino contro 9 ceppi di HPV che, per quanto offerto gratuitamente alle giovani donne, non lo è alle donne adulte, che pure potrebbero lo stesso beneficiarne, anche se in misura ridotta. Pochissime ginecologhe e pochissimi ginecologi, nonostante le evidenze scientifiche che ne consigliano la somministrazione, lo suggeriscono alle pazienti adulte che seguono (probabilmente ritengono che dopo i 30 anni le donne facciano sesso sempre con lo stesso uomo – e quindi il danno sia “fatto” – o con nessuno…) e, comunque, la disponibilità dell’unico vaccino che protegge da un forma tumorale si scontra con i costi escludenti per gran parte delle donne: nel Lazio questo vaccino costa 226,5 euro, in Lombardia oltre 500 euro, in Campania quasi 600.

(da archivio)

Dal 2017, quando mi fu diagnosticato un tumore borderline a un’ovaia (asportato e finora senza recidive), mi trovo due volte l’anno a frequentare per i controlli il reparto di ginecologia oncologica di un grande ospedale: sapere che la diminuzione della possibilità di ammalarsi di un tumore da HPV è legata a una discriminazione basata sulla classe e sulla capacità di informarsi (sul “patrimonio culturale”) mi fa sembrare ancora più fuori fuoco qualsiasi critica presuntamente anticapitalistica ai vaccini.

Sui vaccini ci sono tante battaglie anticapitalistiche da combattere, riassumibili in pochi principi: devono essere universali, gratuiti, distribuiti capillarmente in tutto il mondo e in tutti i paesi e ben illustrati nella loro utilità. Dovremmo rivendicare come parte del diritto fondamentale alla salute e alla “libertà di cura” anche quello a una un’educazione e a una comunicazione scientifica chiare e comprensibili.

Tutti e tutte dovrebbero conoscere la differenza tra virus e batteri oppure sapere che non bisogna prendere antibiotici per un semplice raffreddore; tutti e tutte dovrebbero avere gli strumenti culturali per distinguere uno studio fondato dalle dichiarazioni di un ciarlatano e per capire che c’è differenza tra un nesso temporale (un evento che è avvenuto dopo un altro) e un nesso causale (avvenuto a causa di un altro); tutti e tutte dovrebbero sapere che i vaccini hanno un bassissimo (ma non inesistente) rischio di reazioni avverse, che non proteggono sempre e non proteggono tutti i vaccinati, che possono avere una durata limitata, ma che possiamo essere certi che non provochino autismo.

Il fatto che a Cuba, dove, a oggi oltre il 90% della popolazione ha ricevuto almeno una dose di vaccino per il Covid-19, che lì si vaccinino da mesi tutti i bambini sopra i 2 anni, che si sia già iniziato a somministrare la quarta dose – de refuerzo e che stiano facendo una sperimentazione con la Asl di Torino per somministrare il loro vaccino Soberana a chi ha già avuto due dosi di vaccino Pfizer/Moderna, dovrebbe invece rassicurare dai timori sulla presunta accondiscendenza verso “Big Pharma”.

L’impegno per un’educazione scientifica costituisce, probabilmente, l’unico modo per superare dibattiti sterili come quelli odierni sul green pass.

Considero un pericoloso precedente la subordinazione del diritto al lavoro all’essersi sottoposti a una prestazione sanitaria facoltativa, come penso che ci si debba opporre con ogni mezzo alla deriva di delegare tutte le misure di sicurezza sul posto di lavoro al solo green pass (o a qualsiasi altra misura a carico del singolo lavoratore), ma – a meno di optare per qualche indecente approccio negazionista o riduzionista sul Covid-19 – non riesco a trovare valide alternative per garantire spazi sicuri a tutti e a tutte, se non quella di cercare una vaccinazione generalizzata. Tra l’altro, l’obbligo vaccinale per alcune categorie di lavoratori già esiste: edili, metalmeccanici e portuali (gli stessi che manifestano a Trieste contro il GP), ad esempio, devono obbligatoriamente avere la vaccinazione antitetanica (e i suoi richiami) e nessuno ne parla come di una “dittatura sanitaria”, nonostante il tetano non sia una malattia contagiosa per gli altri.

Il limite è che sia l’obbligo vaccinale – a cui non sono contraria – sia il green pass non cambiano la mentalità delle persone, per quanto sollevino il tema ineludibile della necessità di non lasciare indietro nessuno. Se queste misure possono funzionare e sono utili in emergenza, per il futuro è necessario guardare molto più lontano: tornare a sentirsi parte di una collettività e l’impegno per una conoscenza e una divulgazione scientifica diffusa possono essere i primi passi.

Ilenia Rossini

7/12/2021 https://www.dinamopress.it

Immagine di copertina da commons.wikimedia.org

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