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Commenti di Mauro Biani

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    Al filosofo e politico sardo, vissuto a Torino. Così Pier Paolo Pasolini lo ricorda con il suo poema – “Le ceneri di Gramsci”

    Il 27 aprile 1937 moriva, stroncato dalla dittatura fascista, un grande Uomo, Italiano, politico, filosofo, politologo, giornalista, linguista e critico letterario

    Pubblicato da franco.cilenti

    Gramsci

    In fondo, il video del Poema recitato dallo stesso Pasolini

    I

    Non è di maggio questa impura aria
    che il buio giardino straniero
    fa ancora più buio, o l’abbaglia

    con cieche schiarite… questo cielo
    di bave sopra gli attici giallini
    che in semicerchi immensi fanno velo

    alle curve del Tevere, ai turchini
    monti del Lazio… Spande una mortale
    pace, disamorata come i nostri destini,

    tra le vecchie muraglie l’autunnale
    maggio. In esso c’è il grigiore del mondo,
    la fine del decennio in cui ci appare

    tra le macerie finito il profondo
    e ingenuo sforzo di rifare la vita;
    il silenzio, fradicio e infecondo…

    Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
    era ancora vita, in quel maggio italiano
    che alla vita aggiungeva almeno ardore,

    quanto meno sventato e impuramente
    sano
    dei nostri padri – non padre, ma umile
    fratello – già con la tua magra mano

    delineavi l’ideale che illumina

    (ma non per noi: tu morto, e noi
    morti ugualmente, con te, nell’umido

    giardino) questo silenzio. Non puoi,
    lo vedi?, che riposare in questo sito
    estraneo, ancora confinato. Noia

    patrizia ti è intorno. E, sbiadito,
    solo ti giunge qualche colpo d’incudine
    dalle officine di Testaccio, sopito

    nel vespro: tra misere tettoie, nudi
    mucchi di latta, ferrivecchi, dove
    cantando vizioso un garzone già chiude

    la sua giornata, mentre intorno spiove.

    II
    Tra i due mondi, la tregua, in cui non
    siamo.
    Scelte, dedizioni… altro suono non hanno
    ormai che questo del giardino gramo

    e nobile, in cui caparbio l’inganno
    che attutiva la vita resta nella morte.
    Nei cerchi dei sarcofaghi non fanno

    che mostrare la superstite sorte
    di gente laica le laiche iscrizioni
    in queste grigie pietre, corte

    e imponenti. Ancora di passioni
    sfrenate senza scandalo son arse
    le ossa dei miliardari di nazioni

    più grandi; ronzano, quasi mai
    scomparse,
    le ironie dei principi, dei pederasti,
    i cui corpi sono nell’urne sparse

    inceneriti e non ancora casti.
    Qui il silenzio della morte è fede
    di un civile silenzio di uomini rimasti

    uomini, di un tedio che nel tedio
    del Parco, discreto muta: e la città
    che, indifferente, lo confina in mezzo

    a tuguri e a chiese, empia nella pietà,
    vi perde il suo splendore. La sua terra
    grassa di ortiche e di legumi dà

    questi magri cipressi, questa nera
    umidità che chiazza i muri intorno
    a smotti ghirigori di bosso, che la sera

    rasserenando spegne in disadorni
    sentori d’alga… quest’erbetta stenta
    e inodora, dove violetta si sprofonda

    l’atmosfera, con un brivido di menta,
    o fieno marcio, e quieta vi prelude
    con diurna malinconia, la spenta

    trepidazione della notte. Rude
    di clima, dolcissimo di storia, è
    tra questi muri il suolo in cui trasuda

    altro suolo; questo umido che
    ricorda altro umido; e risuonano
    – familiari da latitudini e

    orizzonti dove inglesi selve coronano
    laghi spersi nel cielo, tra praterie
    verdi come fosforici biliardi o come
    smeraldi: “And O ye Fountains…” – le pie
    invocazioni…

    III
    Uno straccetto rosso, come quello
    arrotolato al collo ai partigiani
    e, presso l’urna, sul terreno cereo,

    diversamente rossi, due gerani.
    Lì tu stai, bandito e con dura eleganza
    non cattolica, elencato tra estranei

    morti: Le ceneri di Gramsci… Tra
    speranza
    e vecchia sfiducia, ti accosto, capitato
    per caso in questa magra serra, innanzi

    alla tua tomba, al tuo spirito restato
    quaggiù tra questi liberi. (O è qualcosa
    di diverso, forse, di più estasiato

    e anche di più umile, ebbra simbiosi
    d’adolescente di sesso con morte…)
    E, da questo paese in cui non ebbe posa

    la tua tensione, sento quale torto
    – qui nella quiete delle tombe – e insieme
    quale ragione – nell’inquieta sorte

    nostra – tu avessi stilando le supreme
    pagine nei giorni del tuo assassinio.
    Ecco qui ad attestare il seme

    non ancora disperso dell’antico dominio,
    questi morti attaccati a un possesso
    che affonda nei secoli il suo abominio

    e la sua grandezza: e insieme, ossesso,
    quel vibrare d’incudini, in sordina,
    soffocato e accorante – dal dimesso

    rione – ad attestarne la fine.
    Ed ecco qui me stesso… povero, vestito
    dei panni che i poveri adocchiano in
    vetrine

    dal rozzo splendore, e che ha smarrito
    la sporcizia delle più sperdute strade,
    delle panche dei tram, da cui stranito

    è il mio giorno: mentre sempre più rade
    ho di queste vacanze, nel tormento
    del mantenermi in vita; e se mi accade

    di amare il mondo non è che per violento
    e ingenuo amore sensuale
    così come, confuso adolescente, un tempo

    l’odiai, se in esso mi feriva il male
    borghese di me borghese: e ora, scisso
    – con te – il mondo, oggetto non appare

    di rancore e quasi di mistico
    disprezzo, la parte che ne ha il potere?
    Eppure senza il tuo rigore, sussisto

    perché non scelgo. Vivo nel non volere
    del tramontato dopoguerra: amando
    il mondo che odio – nella sua miseria

    sprezzante e perso – per un oscuro
    scandalo
    della coscienza…

    IV
    Lo scandalo del contraddirmi,
    dell’essere
    con te e contro te; con te nel core,
    in luce, contro te nelle buie viscere;

    del mio paterno stato traditore
    – nel pensiero, in un’ombra di azione –
    mi so ad esso attaccato nel calore

    degli istinti, dell’estetica passione;
    attratto da una vita proletaria
    a te anteriore, è per me religione

    la sua allegria, non la millenaria
    sua lotta: la sua natura, non la sua
    coscienza: è la forza originaria

    dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
    a darle l’ebbrezza della nostalgia,
    una luce poetica: ed altro più

    io non so dirne, che non sia
    giusto ma non sincero, astratto
    amore, non accorante simpatia…

    Come i poveri povero, mi attacco
    come loro a umilianti speranze,
    come loro per vivere mi batto

    ogni giorno. Ma nella desolante
    mia condizione di diseredato,
    io possiedo: ed è il più esaltante

    dei possessi borghesi, lo stato
    più assoluto. Ma come io possiedo la
    storia,
    essa mi possiede; ne sono illuminato:

    ma a che serve la luce?

    V
    Non dico l’individuo, il fenomeno
    dell’ardore sensuale e sentimentale…
    altri vizi esso ha, altro è il nome

    e la fatalità del suo peccare…
    Ma in esso impastati quali comuni,
    prenatali vizi, e quale

    oggettivo peccato! Non sono immuni
    gli interni e esterni atti, che lo fanno
    incarnato alla vita, da nessuna

    delle religioni che nella vita stanno,
    ipoteca di morte, istituite
    a ingannare la luce, a dar luce
    all’inganno.
    Destinate a esser seppellite
    le sue spoglie al Verano, è cattolica
    la sua lotta con esse: gesuitiche

    le manie con cui dispone il cuore;
    e ancor più dentro: ha bibliche astuzie
    la sua coscienza… e ironico ardore

    liberale… e rozza luce, tra i disgusti
    di dandy provinciale, di provinciale
    salute… Fino alle infime minuzie

    in cui sfumano, nel fondo animale,
    Autorità e Anarchia… Ben protetto
    dall’impura virtù e dall’ebbro peccare,

    difendendo una ingenuità di ossesso,
    e con quale coscienza!, vive l’io: io,
    vivo, eludendo la vita, con nel petto

    il senso di una vita che sia oblio
    accorante, violento… Ah come
    capisco, muto nel fradicio brusio

    del vento, qui dov’è muta Roma,
    tra i cipressi stancamente sconvolti,
    presso te, l’anima il cui graffito suona

    Shelley… Come capisco il vortice
    dei sentimenti, il capriccio (greco
    nel cuore del patrizio, nordico

    villeggiante) che lo inghiottì nel cieco
    celeste del Tirreno; la carnale
    gioia dell’avventura, estetica

    e puerile: mentre prostrata l’Italia
    come dentro il ventre di un’enorme
    cicala, spalanca bianchi litorali,

    sparsi nel Lazio di velate torme
    di pini, barocchi, di giallognole
    radure di ruchetta, dove dorme

    col membro gonfio tra gli stracci un
    sogno
    goethiano, il giovincello ciociaro…
    Nella Maremma, scuri, di stupende fogne

    d’erbasaetta in cui si stampa chiaro
    il nocciolo, pei viottoli che il buttero
    della sua gioventù ricolma ignaro.

    Ciecamente fragranti nelle asciutte
    curve della Versilia, che sul mare
    aggrovigliato, cieco, i tersi stucchi,

    le tarsie lievi della sua pasquale
    campagna interamente umana,
    espone, incupita sul Cinquale,

    dipanata sotto le torride Apuane,
    i blu vitrei sul rosa… Di scogli,
    frane, sconvolti, come per un panico

    di fragranza, nella Riviera, molle,
    erta, dove il sole lotta con la brezza
    a dar suprema soavità agli olii

    del mare… E intorno ronza di lietezza
    lo sterminato strumento a percussione
    del sesso e della luce: così avvezza

    ne è l’Italia che non ne trema, come
    morta nella sua vita: gridano caldi
    da centinaia di porti il nome

    del compagno i giovinetti madidi
    nel bruno della faccia, tra la gente
    rivierasca, presso orti di cardi,

    in luride spiaggette…

    Mi chiederai tu, morto disadorno,
    d’abbandonare questa disperata
    passione di essere nel mondo?

    VI
    Me ne vado, ti lascio nella sera
    che, benché triste, così dolce scende
    per noi viventi, con la luce cerea

    che al quartiere in penombra si
    rapprende.
    E lo sommuove. Lo fa più grande, vuoto,
    intorno, e, più lontano, lo riaccende

    di una vita smaniosa che del roco
    rotolio dei tram, dei gridi umani,
    dialettali, fa un concerto fioco

    e assoluto. E senti come in quei lontani
    esseri che, in vita, gridano, ridono,
    in quei loro veicoli, in quei grami

    caseggiati dove si consuma l’infido
    ed espansivo dono dell’esistenza –
    quella vita non è che un brivido;

    corporea, collettiva presenza;
    senti il mancare di ogni religione
    vera; non vita, ma sopravvivenza

    – forse più lieta della vita – come
    d’un popolo di animali, nel cui arcano
    orgasmo non ci sia altra passione

    che per l’operare quotidiano:
    umile fervore cui dà un senso di festa
    l’umile corruzione. Quanto più è vano

    – in questo vuoto della storia, in questa
    ronzante pausa in cui la vita tace –
    ogni ideale, meglio è manifesta

    la stupenda, adusta sensualità
    quasi alessandrina, che tutto minia
    e impuramente accende, quando qua

    nel mondo, qualcosa crolla, e si trascina
    il mondo, nella penombra, rientrando
    in vuote piazze, in scorate officine…

    Già si accendono i lumi, costellando
    Via Zabaglia, Via Franklin, l’intero
    Testaccio, disadorno tra il suo grande

    lurido monte, i lungoteveri, il nero
    fondale, oltre il fiume, che Monteverde
    ammassa o sfuma invisibile sul cielo.

    Diademi di lumi che si perdono,
    smaglianti, e freddi di tristezza
    quasi marina… Manca poco alla cena;

    brillano i rari autobus del quartiere,
    con grappoli d’operai agli sportelli,
    e gruppi di militari vanno, senza fretta,

    verso il monte che cela in mezzo a sterri
    fradici e mucchi secchi d’immondizia
    nell’ombra, rintanate zoccolette

    che aspettano irose sopra la sporcizia
    afrodisiaca: e, non lontano, tra casette
    abusive ai margini del monte, o in mezzo

    a palazzi, quasi a mondi, dei ragazzi
    leggeri come stracci giocano alla brezza
    non più fredda, primaverile; ardenti

    di sventatezza giovanile la romanesca
    loro sera di maggio scuri adolescenti
    fischiano pei marciapiedi, nella festa

    vespertina; e scrosciano le
    saracinesche
    dei garages di schianto, gioiosamente,
    se il buio ha resa serena la sera,

    e in mezzo ai platani di Piazza Testaccio
    il vento che cade in tremiti di bufera,
    è ben dolce, benché radendo i capellacci

    e i tufi del Macello, vi si imbeva
    di sangue marcio, e per ogni dove
    agiti rifiuti e odore di miseria.

    È un brusio la vita, e questi persi
    in essa, la perdono serenamente,
    se il cuore ne hanno pieno: a godersi

    eccoli, miseri, la sera: e potente
    in essi, inermi, per essi, il mito
    rinasce… Ma io, con il cuore cosciente

    di chi soltanto nella storia ha vita,
    potrò mai più con pura passione operare,
    se so che la nostra storia è finita?

    Da “Le ceneri di Gramsci”

    Letta da Pier Paolo Pasolini

    da elogioallafollia.altervista.org

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    Autore: franco.cilenti
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