Il buio oltre il vaccino

È facile etichettare come superficiali, contorte, anche un po’ cialtronesche le ultime misure del governo per frenare il contagio da Covid-19. Basta leggere integralmente il comunicato del 29 dicembre 2021 con cui si spiegano le nuove disposizioni sulla quarantena per ritrovarsi in un contesto surreale: 

Il decreto prevede che la quarantena precauzionale non si applica a coloro che hanno avuto contatti stretti con soggetti confermati positivi al COVID-19 nei 120 giorni dal completamento del ciclo vaccinale primario o dalla guarigione nonché dopo la somministrazione della dose di richiamo. Fino al decimo giorno successivo all’ultima esposizione al caso, ai suddetti soggetti è fatto obbligo di indossare i dispositivi di protezione delle vie respiratorie di tipo FFP2 e di effettuare – solo qualora sintomatici – un test antigenico rapido o molecolare al quinto giorno successivo all’ultima esposizione al caso. Infine, si prevede che la cessazione della quarantena o dell’auto-sorveglianza sopradescritta consegua all’esito negativo di un test antigenico rapido o molecolare, effettuato anche presso centri privati; in tale ultimo caso la trasmissione all’Asl del referto a esito negativo, con modalità anche elettroniche, determina la cessazione di quarantena o del periodo di auto-sorveglianza

Si tratta di una definizione degna delle parole crociate, poco comprensibile se non dopo un’attenta diagnosi semantica e letterale. Ci asteniamo dal pubblicare il testo del decreto, con i vari rimandi ai commi e agli articoli di legge, per non infierire su chi legge.

Oltre la cialtroneria, la propaganda, la sicumera di chi spaccia la perdita di qualsiasi controllo della situazione per gestione ordinata, c’è però la sostanza del problema, la natura del governo, la natura della gestione della pandemia in ogni paese occidentale: evitare a tutti i costi misure ragionevoli di riduzione delle attività, potenziare il lavoro in smartworking e soprattutto adottare provvedimenti sostanziali su scuole, trasporti, tracciamenti e in particolare sanità. Eppure, dal marzo 2020 a oggi non è stato fatto nulla di significativo. Nulla nel vero senso della parola.

Nell’ultima legge di bilancio, tanto per partire dall’esempio più concreto, per la sanità sono stati stanziati due miliardi, al netto delle risorse previste dal Piano nazionale di ricostruzione e resilienza di cui ci occuperemo più avanti. Due miliardi per ogni anno fino al 2024 oltre a 90 milioni di incentivi per chi lavora nei Pronto soccorso dove si sta verificando un esodo dettato da condizioni di lavoro impossibili. Il costo complessivo della sanità italiana è di circa 122 miliardi e quindi si può ben capire che i due miliardi della legge di Bilancio sono briciole per placarsi la coscienza. Dentro ci si trova la stabilizzazione di 33 mila operatori e operatrici, ma occorre sapere che secondo la Federazione che rappresenta i manager di Asl e ospedali (la Fiaso) la platea interessata sarebbe di 66.029 unità. Dopo due anni di pandemia si è prodotto un intervento dimezzato rispetto alle necessità minime.

Anche perché il numero di medici e odontoiatri impiegati nelle strutture di ricovero pubbliche e private accreditate è sceso del 4,7 per cento dal 2010 al 2017. Nel resto dei paesi Ocse si sono invece registrati aumenti importanti come il 23 per cento della Germania e il 15 per cento della Danimarca. Anche il numero di infermieri è sceso (-7,2 per cento nel periodo 2010-2017).

Questi dati, e gli altri che vedremo, vengono da un documento insospettabile prodotto dall’Osservatorio sui Conti pubblici italiani (Opci) che vede nel comitato direttivo figure come Carlo Cottarelli, Veronica De Romanis, Ferruccio De Bortoli o Roberto Perotti, certamente non accusabili di posizioni stataliste. Ebbene, secondo i dati del ministero della Salute, si legge nel testo dell’Opci, «tra il 2010 e il 2018 i posti letto fra strutture pubbliche e private convenzionate con il Ssn sono scesi del 13,7 per cento in termini assoluti e del 15,5 per cento in rapporto alla popolazione». Si tratta di un trend decrescente presente in quasi tutti i paesi considerati dall’Ocse. Le ragioni del calo sono quelle ampiamente spiegate e giustificate negli ultimi anni: riduzione dell’ospedalizzazione con aumento dell’assistenza territoriale e domiciliare. Come abbia funzionato questa pratica, propagandata come medicina miracolosa, lo ha ben illustrato la Lombardia nel periodo più buio dell’emergenza Covid: né assistenza territoriale né posti letto sufficienti. Non è un caso se la metà dei fondi del Pnrr, 7 dei 15 miliardi per la Salute, verranno dirottati proprio sull’assistenza territoriale. I conti, negativi, tornano anche con il dato sulle terapie intensive che vedono il dato dell’Italia nel 2018 al di sotto della media dei 22 paesi considerati dall’Ocse «posizionandosi al di sotto di Francia, Germania, Austria e Stati Uniti, ma al di sopra di Spagna, Norvegia, Paesi Bassi e Giappone». 

A fronte di questa situazione la medicina territoriale non ha rappresentato nessuna valida alternativa. Come spiega chiaramente la Corte dei Conti nel suo rapporto sulla finanza pubblica del 2020, «nonostante l’aumento di attività degli anni più recenti sembra confermarsi ancora, non solo nelle aree più deboli del Paese, una sostanziale debolezza e limitazione della rete territoriale per riuscire a far fronte alle necessità della popolazione in condizioni di non autosufficienza e di quella per la quale la gravità delle condizioni o la cronicizzazione delle malattie richiederebbero una assistenza al di fuori delle strutture di ricovero». 

Alcuni dati sono impietosi: il numero dei medici si è ridotto nell’ultimo quinquennio del 3,8 per cento nel caso dei medici di medicina generale e dell’1 per cento per i pediatri. Non solo, «dei 43.731 medici attivi nel 2017, oltre il 73 per cento aveva conseguito la specializzazione oltre 27 anni fa (nel 2012 tale percentuale era del 63 per cento), lo stesso dicasi per i pediatri».

Stesso andamento per le guardie mediche che tra il 2012 e il 2017 hanno visto ridurre l’organico del 2,8% «passando da 12.027 a 11.688, con una riduzione anche dei medici ogni 100.000 abitanti». Nel 2017, inoltre, gli ambulatori e i laboratori erano secondo l’annuario sanitario 8.867, in riduzione del 4,3 per cento rispetto al 2012. E se l’assistenza territoriale integrata tra il 2012 e il 2017 è comunque cresciuta del 50 per cento, secondo la Corte si tratta di dati «che nascondono, tuttavia, andamenti molto diversi» e ancora non rappresentano «una risposta adeguata alle necessità poste dalle cronicità e disabilità e dalla cura per pazienti in gravi condizioni».

Questa è la fotografia del sistema sanitario alla vigilia della pandemia. Il suo miglioramento oggi è affidato sostanzialmente al Pnrr che prevede un investimento di 15,63 miliardi di cui 7 saranno destinati alle «reti di prossimità»: Case di comunità (se ne prevedono 1.288), case come primo luogo di cura e telemedicina e 381 ospedali di comunità. Gli altri 8,63 miliardi sono invece dedicati all’Aggiornamento tecnologico e digitale, alla formazione e alla ricerca scientifica. Si tratta di risorse da spalmare da qui al 2026 e quindi, al di là della mistica da Recovery fund, si tratta comunque di fondi limitati. Niente da buttare via, è chiaro, ma che non siano fondi sufficienti a invertire la tendenza è altrettanto evidente.

Questa descrizione quantitativa della condizione sanitaria aiuta a capire la direzione politica intrapresa dalla gestione della pandemia. Altro che «decide la scienza» come ci siamo sempre sentiti ripetere. La scienza, per la precisione il Comitato tecnico scientifico di nomina politica, ha deciso sulla base delle priorità richieste. E nel corso dell’ultimo anno la richiesta e la linea seguita sono state sempre solo all’insegna della vaccinazione. Vaccini salvifici, da inoculare a ritmo forsennato, commissari straordinari con le stellette, super-green pass per lavorare, tutto è stato allestito per un ritorno rapido e sicuro alla normalità, con un approccio solo emergenziale che non ha guardato mai davvero fino in fondo all’ordinarietà del sistema sanitario. Non si tratta di sminuire la portata dei vaccini (chi scrive ha avuto anche la terza dose), ma di cogliere la linea di fondo che ci è stata proposta senza opposizione alcuna. Non il potenziamento delle strutture territoriali – ora, subito – non l’assunzione massiccia di personale sanitario, la riduzione di turni massacranti, il miglioramento dei salari; non un sistema di tracciamento degno di questo nome – invece quasi tutte le Regioni hanno depotenziato il sistema; non una discussione e un coinvolgimento attivo della popolazione, anche convocando costantemente le persone restie alla vaccinazione e discutendo con loro (come peraltro prevede già la legge Lorenzin). Niente di tutto questo, ma solo un’incrollabile fiducia, cieca e assoluta, nel potere salvifico dei vaccini con un solo obiettivo chiaro in testa: la salvaguardia della crescita economica, il Pil e, giocoforza, i profitti aziendali, scaricando sui comportamenti individuali qualsiasi problema di gestione dell’epidemia. 

A spiegarlo meglio di tutti è stato il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, che ha dichiarato la guerra allo smartworking al grido di «impieghiamo al meglio il capitale umano». Memore delle battaglie contro i presunti «fannulloni» dell’amministrazione pubblica, Brunetta non ha perso tempo per additare le forme di lavoro a distanza come uno spreco di risorse e una iattura, nonostante i molti dati che dimostrano il contrario e comunque in assenza di una discussione pubblica, effettiva, democratica. Tutto è stato organizzato per un ritorno puntuale e rigoroso al lavoro e la stessa discussione sul «super» Green Pass per lavoratori e lavoratrici rappresenta l’ultimo miglio di una militarizzazione della gestione pandemica all’insegna dell’economia. Non c’è altra spiegazione plausibile e questa rappresenta la più coerente con il profilo storico di Mario Draghi, con il modo in cui ha gestito, alla guida della Bce, il «salvataggio» della Grecia (ovvero il suo strangolamento). 

La stessa linea è stata tenuta nella scuola. In due anni non si è provveduto ad alcun intervento strutturale, stesse aule, stessi edifici, stessa condizione. Il tracciamento è stato consegnato esclusivamente alle strutture scolastiche che hanno dovuto rincorrere, letteralmente, le sedi Asl del tutto inadeguate alla situazione emergenziale. A docenti, personale Ata e studenti è stato consegnato un materiale di protezione (le mascherine chirurgiche) scadente, l’indicazione più efficace per gestire la didattica in presenza è stata quella di «far arieggiare le aule» e quindi restare con le finestre aperte anche in inverno e, infine ma non per importanza, la Didattica a distanza è stata relegata tra le variabili infernali. Certo, l’esperienza del 2020 è stata penosa per insegnanti e studenti, ma è evidente l’ipocrisia di un sistema che teme la Dad e non ha fatto nulla per renderla inutile. E così, a dispetto di studi spacciati come ufficiali e di analisi tendenziose, le scuole, come tutti i luoghi più o meno affollati, hanno generato focolai di contagio ovunque come mostrano tutte le cronache disponibili online. 

Si potrebbe continuare con la situazione dei trasporti con i mezzi pubblici rimasti pieni all’inverosimile nelle ore di punta e, in genere, con quanto accade nei posti di lavoro dove solo la possibilità di fruire di solidi accordi sulla sicurezza permette di lavorare in condizioni accettabili. La gestione della pandemia è una spia perversa del funzionamento del sistema capitalista con governi che come topolini ciechi cercano di propalare soluzioni salvifiche che non salvano nessuno e nessuna. Dopo due anni di emergenza vissuta in apnea servirebbe una riflessione finalmente risolutiva di nodi esplosivi. Il Covid-19 ha avuto solo questo merito, se si può utilizzare questa metafora: mostrare le inadempienze del sistema sociale egemone, quella totalità capitalistica che mentre cerca di sussumere al proprio interno ogni movimento del reale mostra continue crepe e vistose contraddizioni. Servirebbe soffermarsi su questo per chiedere quello che c’è da chiedere, smontare una narrazione che mostra la corda e affermarne una nuova: le pandemie non vengono dal nulla, come abbiamo imparato negli ultimi due anni, non sono disgrazie che cadono dal cielo, ma prodotti storicamente determinati. 

Anche le soluzioni che vengono proposte per la loro risoluzione sono prodotti storici e politici, alla neutralità della scienza abbiamo smesso di credere in tempi lontani. La campagna estenuante contro i «no-vax» con l’esibizione insistita delle follie più eclatanti – ché in molte manifestazioni di follie si tratta – è utilizzata per trovare capri espiatori e per affermare un falso primato delle determinazioni scientifiche che, però, sono anch’esse frutto di processi sociali, non verità assolute. La corsa al vaccino non sarebbe potuta riuscire senza l’intervento pubblico. Secondo i dati raccolti dal portale The Knowledge Network on Innovation and Access to Medicines del Global Health Center, pubblicati dalla InfoData del Sole 24 Ore, «fino a marzo 2021 sono stati monitorati 5,9 miliardi di dollari di investimenti in ricerca e sviluppo, il 98,1% dei quali proveniva da finanziamenti pubblici». I principali paesi finanziatori sono stati Stati uniti e Germania, con 2 e 1,5 miliardi, la Gran Bretagna segue con 500 milioni di dollari. 

Al finanziamento pubblico è poi seguito l’acquisto massiccio delle dosi vaccinali con una spirale di trasferimenti di fondi dal pubblico al privato che a fine 2021 sembra non vedere la fine. Ma l’altro intreccio strutturale tra scienza e politica è dato dai comitati scientifici utilizzati per stabilire le politiche emergenziali. Sono tutti di nomina governativa e devono gestire soluzioni à la carte a seconda della bisogna. Aver puntato tutto sul vaccino senza prevedere altre misure collaterali comporta la scelta di scommettere su green pass super-rafforzati che servono solo a sgombrare il campo dall’incombenza pandemica, ma non a suturare una società fratturata dalle varie crisi accumulatesi negli ultimi decenni e poi aggravatesi con la pandemia.

C’è un filo di collegamento tra tutte queste scelte, una disperata necessità di ritornare al «business as usual», immemori della fatica e delle diseguaglianze accumulate. Tornare al più presto al come eravamo per impedire che si possa riflettere sul come dovremmo essere. Vogliamo tutti uscire da questa cappa emergenziale, smettere di avere paura, ritrovare la socialità necessaria. Ma non possiamo farlo chinando il capo per farci benedire. 

Salvatore Cannavò

vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, ha scritto tra l’altro Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Da Rousseau alla piattaforma Rousseau (PaperFirst, 2019).

3/1/202 https://jacobinitalia.it

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