Il carcere? Pieno di emarginati, non di corrotti, evasori e bancarottieri

Interno di un carcere

Non sono pochi i libri che trattano diffusamente la “centralità” della questione carceraria, relativamente alla consapevolezza dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana, sostiene Vincenzo Paglia nel volume scritto insieme a Raffaele CantoneLa coscienza e la legge (Laterza 2019, pp. 169, € 16.00).

Malgrado il sovraffollamento continui a provocare situazioni di profondo degrado della vita e della dignità dei detenuti, siamo ben lontani da una soluzione soddisfacente. Eppure i padri costituenti tracciarono con estrema chiarezza che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato (art. 27 Cost.)», definendo, inoltre, la proporzionalità della pena con il crimine compiuto. E, infine, che la pena del carcere deve esaurirsi nella privazione della libertà personale del detenuto, senza l’imposizione, come spesso accade, di misure aggiuntive, come l’assenza di qualsiasi privacy, le gravi condizioni sanitarie, la mancanza di lavoro, la privazione dell’affettività, etc.

Paglia: detenuti dimenticati e abbandonati
Occorre rispettare tali indicazioni per restituire al carcere quel “senso di umanità” di cui, appunto, parla esplicitamente la Costituzione e che permette – osserva giustamente Paglia – «di salvare sia la dignità per i detenuti sia la speranza di una loro futura redenzione». Tanti detenuti – ricorda Paglia – sono per lo più dimenticati durante la loro detenzione e soprattutto sono abbandonati a loro stessi una volta usciti dal carcere. È illusorio pensare che l’inasprimento delle pene, oppure la costruzione di nuove carceri, favoriscano l’affermarsi della giustizia.
È opportuno il richiamo di Paglia alla nota affermazione evangelica: «Ero carcerato e siete venuti a visitarmi» (Matteo 25,36). Sono poche parole che hanno segnato in profondità milioni di credenti, di carcerati ed anche la stessa storia civile. Sono le parole con cui Gesù in certo modo chiuse la sua stessa vicenda terrena. Gesù – seguendo la narrazione dei Vangeli – visse in prima persona le esperienze dei perseguitati dalla “giustizia” umana, fino alla condanna a morte pur essendo innocente, come lo stesso Pilato riconobbe pubblicamente. Ricorda Paglia: «Gesù fece esperienza della rappresaglia e dell’arresto, provò l’angoscia sino a sudare sangue, subì l’arresto, la detenzione, il processo, le false testimonianze, le false accuse, le derisioni dei carcerieri, e infine il supplizio della morte in croce. Al culmine del suo dramma seppe trovare anche le parole giuste per confortare uno dei suoi due compagni di croce».

Pazé: patrie galere per gli emarginati, meno per bancarottieri, evasori e corrotti
Da anni, le carceri sono piene di ladruncoli, piccoli spacciatori, immigrati irregolari, oltre che – s’intende – di qualche omicida, stupratore, mafioso o camorrista. In realtà, bancarottieri, evasori fiscali, corrotti e corruttori con le patrie galere hanno poco a che fare. Ciò che per gli emarginati è la regola, per i benestanti è l’eccezione: per essi l’unica sanzione è la parcella dell’avvocato.
Basta scorrere le statistiche giudiziarie per vedere la realtà impietosa del meccanismo repressivo. La legislazione recente ha giocato un ruolo importante. Infatti, a godere di tutela rafforzata sono i patrimoni individuali e ad essere conseguentemente perseguiti con particolare rigore sono i reati «di strada», abitualmente commessi da chi vive ai margini e non ha nulla da perdere: furti, scippi, rapine. Mentre – denuncia Elisa Pazé nel suo volume Giustizia. Roba da ricchi (Laterza, 2017, pp. 144, € 14.), in cui elenca le modalità con cui sono state e sono perseguite le condotte ‘antisociali’ dei poveri – «debole e non adeguato è invece il presidio di quei beni – aria, acqua, suolo – che sono patrimonio comune, come se ciò che è di tutti non fosse in realtà di nessuno».

Quando vanno in galera i poveri «nessuno si chiede se le intercettazioni abbiano leso la riservatezza, se sia stato violato il segreto investigativo o se la carcerazione preventiva sia giustificata, quando si sfiora qualche personaggio eccellente fioccano le polemiche contro lo straripare della magistratura, la «giustizia ad orologeria», la politicizzazione e il protagonismo di certe procure. Il colpevole diventa un perseguitato e a suscitare sdegno non è il reato commesso, ma il fatto che la televisione e i giornali ne diano notizia».

Savasta: cambiare è possibile anche in carcere
Sull’umanità dolente del carcere, si sofferma il bel libro di Ezio Savasta Liberi dentro. Cambiare è possibile, anche in carcere (Infinito Edizioni, 2019, pp. 180, € 14,00). Savasta descrive le grandi e piccole contraddizioni delle giornate nelle nostre carceri, smontando gli innumerevoli luoghi comuni che gravitano sul mondo dei detenuti. Attraverso il racconto di numerose vicende che spesso hanno dell’incredibile, l’autore conduce il lettore ad appassionarsi con le tante storie con le quali si imbattuto dopo una frequentazione ultradecennale nelle carceri, soprattutto quelle romane “Regina Coeli” e “Rebibbia”, realtà tutte inserite nel tessuto urbano della Capitale, seppur, come sempre accade con gli istituti penitenziari, mondi isolati, di cui tutti cercano di dimenticarsi.

Non potevo non leggere il libro di Ezio con il quale, insieme ad altri amici della Comunità di Sant’Egidio, abbiamo condiviso tante storie e vicissitudini penitenziarie, a partire dagli inizi degli anni novanta. Ma Liberi dentro non è solo il volume di un amico. Potremmo dire che è un libro sull’amicizia, sulle amicizie di alcune delle persone detenute, quasi tutte straniere, vissute con l’autore che viene “dalla libertà”. Amicizie che attestano che, dentro le mura del carcere, c’è un enorme potenzialità umana, con una sua dignità, che aspetta di essere compresa, voluta bene, per rimettersi in gioco, per tirare fuori il meglio di sé (emblematici gli esempi di detenuti che desiderano contribuire ai progetti di solidarietà di Sant’Egidio all’esterno del carcere).
In tal senso, il libro di Savasta non è un libro “tecnico”, per addetti ai lavori, anzi. È veramente un libro per tutti, anche per coloro che non hanno mai avuto nessun contatto con il carcere. Se ne sentiva il bisogno di questo libro. Servono narrazioni dense di humana pietas. Soprattutto in un tempo in cui prevale una mentalità vendicatrice verso i colpevoli.

La conseguenza logica di questo atteggiamento porta a rendere le carceri una “discarica sociale” di coloro che sono già ai margini della società (come attestano i numeri di tossicodipendenti e di migranti nelle carceri). Un tempo in cui si dirada il dibattito sulle pene alternative al carcere, come la detenzione domiciliare, l’affidamento ai servizi sociali, la semilibertà ed anche la liberazione anticipata, quando ci sono ovviamente le condizioni previste. Peraltro, le statistiche sono a favore di tale prospettiva. Eppure gli studiosi di diritto penale unanimemente considerano il carcere come l’extrema ratio e non come strumento per tranquillizzare la società o peggio per guadagnare consenso.

Don Mazzolari, grande credente del secolo scorso, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: «Che corteo!».

Antonio Salvati

2/12/2019 www.globalist.it

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