IL CNR, DALLA FONDAZIONE AL DECLINO

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Il MIUR ha previsto un ulteriore taglio di 53 milioni di euro agli EPR (Enti Pubblici di Ricerca). In questo quadro, l’infrastruttura della Ricerca pubblica – già smantellata da definanziamento, tagli e accorpamenti – inizia una fase di vera e propria chiusura. Chiusura dei centri di ricerca, espulsione dei ricercatori precari, pari al 40% del contingente complessivo degli addetti, uscita da ogni ambito internazionale, messa a rischio di funzioni fondamentali di supporto e vigilanza in campo sanitario, idrogeologico, statistico.

Questa notizia a cui non è stato dato peso dimostra quanto poca importanza si dia in Italia alla ricerca scientifica che è fondamentale per lo sviluppo sociale culturale e tecnologico di un Paese. Non è però sempre stato così.

Il CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche, il più grande e “produttivo” degli enti di ricerca italiano) rimane uno dei centri di ricerca più importanti nel mondo (al 23esimo posto) nonostante la mancanza di fondi; fu fondato nel 1923 in un’Italia in cui la borghesia aveva notevole fiducia nella scienza, tanto che in Parlamento sedevano molti accademici e scienziati. La presidenza del CNR fu affidata dall’Accademia dei Lincei a Vito Volterra, matematico di chiara fama che era anche parlamentare (venne nominato senatore dal re, per i suoi meriti scientifici, nel 1905). Dunque, nell’Italia liberale si concedevano finanziamenti alla ricerca, si creava un grande centro di ricerca italiano, la cui presidenza veniva affidata ad un matematico (con il linguaggio delle nullità, che governano questo nostro Paese in questi anni, uno che faceva ricerca “curiosity driven”). Nel 1927 Guglielmo Marconi, fisico di chiara fama ma anche fascista convinto sostituì l’antifascista Vito Volterra, il quale era un uomo di grande statura morale e fu uno dei dodici accademici che si rifiutarono di prestare giuramento di fedeltà al fascismo e per questo egli perse anche la sua cattedra universitaria nel 1931. Persino Mussolini capì l’importanza strategica della ricerca e finanziò cospicuamente il CNR ma cercò, sin dall’inizio, di condizionarne pesantemente la ricerca. Come conseguenza vi fu un rapido declino del CNR e con esso di tutta la ricerca italiana che raggiunse un minimo storico quando come presidente dell’ente fu nominato in generale Badoglio.

Nel dopoguerra il CNR riprese la sua attività e fu uno dei pilastri su cui i governi italiani puntarono per la ricostruzione del Paese. La struttura stessa del CNR è stata via via determinata dai rapporti con la ricerca scientifica universitaria. Per salvaguardare le esigenze di autonomia dell’ente e realizzare una rete della ricerca italiana vennero creati, quindi, dentro gli istituti universitari, i “Centri di studio” e gli “Istituti” presso altri enti o amministrazioni, con l’obiettivo di sviluppare ricerca interdisciplinare sganciandosi dalle logiche tipiche del mondo accademico. I centri di studio garantivano quell’autonomia necessaria allo sviluppo della ricerca scientifica che è ora codificata nella Carta Europea dei Ricercatori. Il finanziamento del CNR era quasi totalmente pubblico, un finanziamento che garantiva non solo il pagamento degli stipendi ma anche i finanziamenti dei progetti portati avanti dai ricercatori. Quelli ben strutturati, portati avanti da ricercatori con buoni cullicula, avevano un’alta probabilità di essere finanziati e non dovevano necessariamente essere legati a “possibili applicazioni”.

Non mancarono certamente tentativi diretti a direzionare la ricerca: sotto la presidenza di Giovanni Polvani nacquero i “Progetti speciali”; negli anni ‘70 vennero avviati i “Progetti finalizzati”, che promossero una ricerca orientata allo sviluppo economico e una cooperazione tra tutte le forze scientifiche del Paese su temi di interesse generale (salute, territorio e ambiente, risparmio energetico e fonti alternative, fonti alimentari e tecnologie avanzate); infine, negli anni ’90, nacquero i “Progetti strategici” come il Progetto Genoma (che, con Renato Dulbecco, permetterà di sequenziare il Dna del genoma umano), nonchè diversi altri progetti di rilevanza internazionale.

Quindi, alla fine degli anni ‘90, il CNR era un ente che promuoveva la libera ricerca e l’avanzamento della conoscenza con finanziamento pubblico.

Il 1999 fu l’inizio del declino; l’allora ministro dell’Università e Ricerca Luigi Berlinguer mise mano, purtroppo, a tutto il sistema della conoscenza: è sua la disastrosa riforma dell’università “a costo zero”, che introdurrà il 3+2 con tagli sulle ore dedicate alle materie di base, e ancora e lui si deve l’inizio della politica dei tagli all’FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) del CNR; l’allora ministro minò alla base l’autonomia dell’Ente prevedendo, nella sua riforma, che il ministero assumesse la direzione strategica della ricerca.

La riforma non era ancora conclusa né sperimentata quando il nuovo ministro Letizia Moratti nel 2003 affidò la realizzazione di un nuovo progetto di riforma del CNR alla società Ernst&Young (una multinazionale specializzata in marketing e organizzazione aziendale) e bloccò il normale “turn over” al CNR, rendendo l’accesso al mondo della ricerca difficilissimo per le nuove generazioni di scienziati. Gli oltre 400 centri di ricerca vennero accorpati in circa cento istituti che afferirono ai dipartimenti, i quali avevano il compito di controllarne e direzionarne la ricerca.

L’allora presidente del CNR Lucio Bianco, i ricercatori del CNR e persino il mondo accademico caratterizzato da immobilismo elefantiaco, insorsero. Era chiaro, infatti, che l’autonomia del CNR e, quindi, della ricerca italiana era stata sacrificata alle logiche del mercato e, di conseguenza, la ricerca di base sarebbe stata soppiantata da quella finalizzata.

La legge Gelmini del 2010 operò tagli sostanziali all’FFO del CNR e introdusse una nuova riforma in cui si creava un consiglio di amministrazione – come nelle aziende – composto da cinque membri, nominati dal Ministro della Ricerca, di cui tre, tra cui il presidente, scelti direttamente dal Ministro e due tra quelli indicati dalla Conferenza Stato-Regioni, dalla CRUI, dalla Confindustria, dall’ Union-camere e, in teoria, dai ricercatori del CNR. Ovviamente i ricercatori del CNR votarono ma il loro rappresentante non venne scelto dal Ministro. Il CdA divenne uno dei tanti posti in cui sistemare politici di serie B. La legge del 2010 diede un grande potere al Direttore Generale che divenne una specie di Amministratore Delegato di quella che, nelle fosche trame cerebrali della Gelmini, doveva diventare un’azienda, spinta dall’ideologia che solo le aziende funzionano e ovviamente dai criteri del taglio della spesa e volontà di distruzione sistematica della ricerca pubblica.

Già con la Gelmini l’FFO si era talmente ridotto al punto che serviva a malapena a pagare gli stipendi (83 %), mentre il resto serviva a pagare le spese di mantenimento della sede centrale e degli istituti (telefono, luce, servizi). Non ancora soddisfatta della sua opera, la Ministra mise un tetto nello statuto del 75 % dell’FFO per gli stipendi, il che significava costringere il CNR – già in regime di blocco delle assunzioni – a contrarre ulteriormente la sua pianta organica.

La riforma ed il nuovo statuto del CNR videro l’opposizione dei lavoratori della FLC-CGIL e della UIL che scioperarono e occuparono in più occasioni la sala riunioni del CdA, impedendo più volte l’approvazione dello statuto: ci volle l’intervento della forza pubblica per consentirne l’approvazione.

Il frutto di quelle mobilitazioni si legge nelle modifiche dello statuto ora approvate (entrato in vigore il 1 maggio 2015). Il tetto del 75 % dell’FFO per gli stipendi è stato eliminato e finalmente un rappresentante della comunità scientifica regolarmente eletto siederà nel CdA.

Purtroppo però si è ben lontani da uno statuto che valorizzi la comunità scientifica del CNR ma, soprattutto, anche nel CNR è entrata di prepotenza la VQR che intende valutare non per premiare ma per tagliare. Ormai, però, non c’è più nulla da tagliare: la ricerca dei ricercatori del CNR è quasi sempre finanziata da altri soggetti, MIUR, Horizon 2020 (Comunità Europea), Regioni, piccole e medie imprese (che però chiedono spesso al CNR servizi a basso costo e non ricerca).

Se l’FFO è pari a 500 milioni di euro, il bilancio del CNR sfiora il miliardo per la capacità dei ricercatori di attrarre fondi. Ci siamo trasformati tutti in piccoli manager (senza averne la formazione) per poter lavorare.

Quindi il CNR è stato trasformato negli anni in un ente piramidale che somiglia ad una fabbrica fordista. Il proprietario è il Ministro della Ricerca; il Presidente e il Direttore Generale sono gli amministratori delegati, i Direttori di dipartimento sono i manager e i Direttori di istituto i quadri, e i ricercatori sarebbero gli operai che dovrebbero ubbidire alle istruzioni che arrivano dalle alte sfere. La cosa paradossale è che a questi operai della ricerca non vengono dati strumenti per lavorare. E quindi qui siamo alla commedia dell’arte, il ricercatore si arrangia come arlecchino fa finta di obbedire a mille padroni, e intanto scrive progetti e riesce, magari, a farsi finanziare, a procurarsi gli strumenti per lavorare e, se il finanziamento è cospicuo, ad “assumere” a tempo determinato giovani ricercatori. Anche al CNR, quindi, ci sono tanti precari che fanno ricerca da anni, scienziati in gamba che sono costretti a emigrare o a trovare posto nel privato (i più fortunati) perchè nel CNR le assunzioni a tempo indeterminato sono ormai molto poche.

La ricerca pubblica italiana, nonostante tutto, riesce ancora ad essere di qualità ma non può resistere a lungo. Il progetto è chiaro: distruggere la ricerca pubblica e fare, aggiungo, dell’Università Pubblica un’università di serie B. Per opporsi a questo progetto bisogna essere tanti e determinati. Mi appello a tutti coloro che lavorano nel mondo della ricerca a creare collettivi e gruppi di lotta perché non si può più aspettare.

Andrea Ilari

14/11/2015 www.lacittafutura.it

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