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    Altra Informazione, Blog, Comitati di Lotta, Cronache di Lavoro, Cronache Politiche, Cronache Sindacali, Cronache Sociali, Politiche di Rifondazione — Luglio 25, 2017 6:31 am

    Una società fondata sullo sfruttamento non può che incoraggiare altra violenza e sfruttamento. Le donne hanno mille motivi per sovvertire il sistema. E le istituzioni di certo non aiutano, non tutelano, non intervengono, non supportano quando in caso di denunce di mobbing e violenze domestiche o sui posti di lavoro la donna che ne è vittima chiede aiuto. Sono i centri antiviolenza in cui è attivo lo sportello legale ad aprire le porte per accogliere le donne a disagio, ma anche su queste associazioni socio umanitarie cade la mannaia dei tagli ai fondi per la sopravvivenza delle sedi.

    Il corpo delle donne

    Pubblicato da franco.cilenti

    donna

    Ancora violenza, ancora scie di sangue. La violenza sulle donne non si ferma con l’emancipazione di genere che, d’altra parte, rimane solo presunta o appena sfiorata. Siamo “libere” di vestirci come vogliamo e di esporci in tutti i modi possibili e immaginabili ma, poi, i nostri salari non possono competere con quelli maschili, i nostri corpi vengono venduti e acquistati, i nostri lavori sono soprattutto part time perché le nostre “incombenze” sono maggiori, visto che la nostra società si aspetta ancora che solamente le donne si occupino della casa e dei figli. Permane ancora la convinzione che le donne non debbano esporsi, rimanere composte e silenziose, formalmente allo stesso livello degli altri ma sostanzialmente costrette a rimanere un passo indietro. L’imprinting di sesso debole è un marchio da cui alcune non riescono ancora pienamente liberarsi nonostante anni di lotte femministe per avere la parità sociale, ma anche per riappropriarci del rispetto in quanto persone. E questo perché tutte le dinamiche che compongono questa società sono volutamente improntate sul predominio di alcuni su altri, sia, soprattutto, in ambito strutturale (il padrone domina i lavoratori e le lavoratrici, domina sul loro tempo e su ciò che producono) sia in ambito culturale e sociale, dove il pensiero dominante – che è sempre il pensierodelle classi dominanti – lavora appositamente per acuire le differenze, la diffidenza, l’odio e il predominioallo scopo di scorporare l’unità della classe sfruttata. Ecco perché i bianchi vengono volutamente aizzati contro i neri, gli italiani contro gli stranieri, gli eterosessuali contro i gay, i cristiano contro i mussulmani, gli uomini contro le donne. Siamo, quindi, ancora bersaglio di un sessismo dilagante, alla cui base c’è anche una grettezza e ignoranza difficili da ostacolare in una società che riesce a vivacchiare mantenendo i privilegi di poche persone proprio perché semina tale individualismo, odio, prevaricazione e superficialità. Non a caso abbiamo assistito a fenomeni, come ad esempio il berlusconismo, che nei decenni hanno foraggiato tutto questo, contribuendo a svuotare la società di ogni contenuto edificante e generando una tale e diffusa becera ottusità mentale tale per cui ancora oggi ci tocca sentire, in caso di violenze sulla donna degenerate in femminicidio, frasi abiette come “se l’è cercata, se l’è voluta”.

    I fatti di cronaca parlano chiaro. Continuano ad essere uccise molte, troppe donne dai loro partner o da psicopatici occasionali. Qualcuno degli assassini è giunto a giustificare il reato affermando “L’amavo troppo” o “Mi ha fatto perdere le staffe e l’ho uccisa”, come potesse essere un’attenuante sul reato. Tutto tranne che amore. La violenza di genere è il prodotto di un malcostume che ha potuto incardinarsi su dinamiche sociali tutte storicamente improntate allo sfruttamento degli esseri umani finalizzato alla produzione dei beni e del sovrappiù economico. Ogni singolo sistema produttivo sperimentato sinora dall’umanità, partendo dal medesimo presupposto, ha incoraggiato meccanismi culturali all’interno dei quali la logica del predominio fosse intrinseca, dapprima considerando “cose appropriabili” altri esseri umani necessari alla produzione (gli schiavi nel sistema schiavistico), poi spostando gradualmente l’ottica della proprietà privata su tutto ciò che fosse produttivo nelle mani di pochi privilegiati (il feudo, prima, i mezzi di produzione anche industriale, dall’età contemporanea in avanti). Sicché pare evidente come, se questa è la base che muove sotto la nostra storia e non ha potuto che influenzare spaventosamente le nostre relazioni sociali sino al giorno d’oggi, vi sia stato un acuirsi di ogni relazione di potere tra un soggetto dominante e uno dominato, anche per esempio per ciò che riguarda il rapporto uomo-donna, dove quest’ultima, in fondo, per molto tempo è stata vista a sua volta nell’ottica della produttività legata al concepimento. E dunque è stato ritenuto lecito appropriarsi di una donna, o del suo corpo, per esercitare la “doverosa” supremazia sull’essere “inferiore”, che ha lo scopo di produrre e servire tanto al giovamento del suo “diretto superiore”, l’uomo, tanto per gli interessi di una classe sociale dominante sulle altre.

    Ed ecco che può meglio comprendersi anche come mai, oggi, tanto una parte del mondo maschile quanto, per altri aspetti, del mondo femminile, non si sia mai emancipata da preconcetti primordiali, spesso insulsi, quali il possesso del corpo dell’altro, della vita dell’altro. Preconcetti così radicati in certa subcultura che generano anche quel particolare bisogno che per la donna si manifesta nel desiderio di sentirsi protetta e per l’uomo nel sentirsi potente, così quanto è debole per gli altri che non può soggiogare ai suoi voleri, sentendosi alienato dal tessuto sociale con cui si confronta ogni giorno. Due aspetti contrapposti di una personalità distorta, forza e debolezza, che possono dare il via alla follia.

    E ancora, ecco perchè può scatenarsi nella relazione una patologia particolare, la sindrome di Stoccolma, dove avviene che la vittima si leghi al carnefice da un sentimento di apparente amore. E il carnefice gioca basso sul possesso del corpo, umiliando la vittima attraverso un mobbing delirante. Se la vittima riprende coscienza e esprime infine indignazione e distacco rischia, a quel punto la violenza estrema. Così il carnefice ne elimina il corpo piuttosto che pensare o accettare possa esserci un altro usufruttario o gestore. Come se il corpo della donna fosse un terreno di proprietà che il titolare vede violato nel possesso e nella gestione, privata appunto. Non a caso nelle lotte femministe degli anni 70 il manifesto era “Il corpo è mio e lo gestisco io” che seguiva a “Io sono mia”. Lo abbiamo gridato in tutte le salse noi donne, ma può essere stato insufficiente: forse, per alcune, è stato così possibile riuscire ad affermarsi come persone autonomamente pensanti e agenti all’interno di una relazione affettiva con un partner, così come nelle relazioni sociali, però, per tutte le donne, nessuna completa liberazione potrà mai arrivare senza una serrata lotta di classe, continua, con tutte e tutti gli sfruttati al proprio fianco.

    Quella lotta per la parità non è stata sufficiente. Qualcuno non l’ha mai voluta questa parità, perché contraria ai propri interessi. E allora noi dobbiamo combattere quei retaggi comportamentali primordiali, il che non può che significare combattere questo sistema di potere, in cui si unifica l’idea di proprietà con la persona. Preconcetti così radicati in certe mentalità da poter arrivare a far perdere il lume della ragione, strumentalizzando l’immagine femminile o, in preda al parossismo, scagliandosi contro l’oggetto di amore, che in realtà dell’amore è la negazione. È il corpo delle donne. Al primo segnale di comportamento distorto, se si incappa in questo giocosadomaso, si dovrebbe fuggire a gambe levate, a mille miglia l’uno dall’altro. Sovente si resta attaccati alla follia, non per scarso intelletto, ma per vizio d’abitudine o per timore del cambiamento. Ed è violenza, a volte estrema.

    A non fuggire per tempo è quasi sempre la donna, che in una situazione di dipendenza morbosa accade sia la vittima predestinata. E il cinico gioco della dipendenza precipita nella tragedia dei femminicidi. Le cronache se ne riempiono frequentemente e il fenomeno fa paura, tant’è ancora attuale. Spesso è insospettabile, quasi un ossimoro nella società postmoderna, caratterizzata dalla liquidità dei rapporti. Oggi sarà forse questo, infine, il simbolico corpo del reato? È la liquidità delle relazioni a favorire l’isolamento, l’abbrutimento, la disperazione e la follia? Il non sentirsi accolti, la sfiducia e l’impossibilità di comunicazione con gli altri, l’estrema precarietà, la nuova povertà e la paura di vivere in una società che respinge e non accoglie, può favorire la follia di un uomo che, per necessità di un “capro espiatorio”, s’imbatte nella temperanza e nella perseveranza di una donna e può giungere a sopprimerla? Fatto si è che le donne continuano ad essere offese, denigrate, stuprate e uccise.

    E le istituzioni di certo non aiutano, non tutelano, non intervengono, non supportano quando in caso di denunce di mobbing e violenze domestiche o sui posti di lavoro la donna che ne è vittima chiede aiuto. Sono i centri antiviolenza in cui è attivo lo sportello legale ad aprire le porte per accogliere le donne a disagio, ma anche su queste associazioni socio umanitarie cade la mannaia dei tagli ai fondi per la sopravvivenza delle sedi.

    L’altra faccia del reato e i casi di cronaca

    Molte le associazioni a tutela delle donne che si ribellano per i tagli imposti alle politiche sociali del governo Gentiloni. L’accordo firmato dal Mef e dalle Regioni prevede un fondo per tutte le realtà a supporto del sociale di 99,7 milioni, un terzo di quello stanziato precedentemente, che ammontava a 313 milioni. Con quel terzo si dovrebbero sovvenzionare tutti i servizi sociali. Dagli asili nido, all’assistenza ai disabili ai centri anti-violenza. C’è già una condanna della Corte europea dei diritti dell’uomo al governo italiano, dopo una tragedia familiare avvenuta a Remanzacco (Udine), nel 2013. La donna, Elisaveta, aveva sporto denuncia per maltrattamenti inflitti dal marito Andrei, chiedendo protezione per lei e i figli. Finì a coltellate sulla donna, che si salvò fuggendo, ma la follia omicida dell’uomo si rivolse sul figlio, intervenuto per proteggere la madre, uccidendolo.

    Anche in questo caso il dramma avrebbe potuto essere evitato se la struttura d’accoglienza, a cui si era rivolta Elisaveta avesse potuto continuare ad ospitarla.”Elisaveta è stata ospite in una casa di rifugio a Udine per sottrarsi alle violenze del marito – dichiara Titti Carrano, presidente dell’associazione “Donne in Rete contro la violenza”– Non ha lasciato spontaneamente la struttura, ma il Comune e i servizi sociali non hanno ritenuto che il suo fosse un caso di gravità tale da doverla mettere in stato di protezione. Ci sono documenti depositati dai quali si evince che non erano in grado di pagare la retta prevista per garantire alla signora un luogo sicuro. C’è stata una grave inadempienza, una sottovalutazione del caso da parte delle autorità italiane”. E le violenze sulle donne sono ancora cronaca delle ultimissime ore. Tragedie a volte annunciate, a volte imprevedibili. Comunque assurde, causate dalla follia, ma anche da inadeguate risposte alle denunce di donne soggette a violenze quotidiane. Fra il 13 e il 14 luglio sono state uccise quattro donne e una ventiseienne versa in gravissime condizioni, mentre il giovane compagno, credendo di averla uccisa, si toglie la vita gettandosi da un cavalcavia. Nel 2017 un femminicidio ogni due giorni. Si perpetra così la barbarie sul corpo delle donne. E fa male ancora pensare alla giovane Sara Di Pietrantonio, che nel giugno 2016 venne arsa viva da Vincenzo Paduano, suo ex, che lastalkerizzava da tempo, non accettando di essere stato lasciato. Così fa male vedere il volto di Lucia Annibali,vittima anch’essa di stalking da parte del suo ex compagno, Luca Varani, il quale ha pensato di punire la donna che lo rifiutava sfigurandola con l’acido. Una donna coraggiosa Lucia. Si è sottoposta a ben 11 interventi di chirurgia plastica e ha scritto un libro con Giusi Fasano. “Io ci sono. La mia storia di non amore”. Da leggere per capire un dramma di una donna che vuole tornare a vivere e, pur con la morte nel cuore, va avanti e sorride.

    Perché?

    Cosa succede alle donne? Come tutelarci da questa follia? Eppure siamo forti, colte, emancipate e coraggiose. Eppure abbiamo il coraggio di denunciare chi ci manca di rispetto. Ho ancora nella mente l’otto marzo, quando in migliaia siamo scese in piazza con uno sciopero generale della produttività e per protestare contro la violenza di genere e con noi una moltitudine di uomini, di compagni che hanno combattuto con noi per la parità e che non temono la nostra intelligenza e la nostra intraprendenza, anzi ci rispettano per questo. Continuiamo a lottare. Continuiamo a credere nella cultura, nell’intelligenza dell’uomo e nella centralità della persona. Solidarietà per le donne vittime dell’ignoranza e di un sistema sociale che alimenta ogni forma di violenza di genere. Per sempre “Non una di meno”.

    Alba Vastano

    22/7/2017 www.lacittafutura.it

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