Il Covid-19 e la comunicazione travestita da informazione

Il governo della comunicazione ha tempi contingentati di fronte all’avanzare del Coronavirus, che avevamo provato a esorcizzare come sistema-paese, scienziati in testa: «Sarà un’influenza un po’ più forte». I media, almeno, avevano inizialmente dato largo spazio a chi si sentiva, in quella categoria, più propenso a non allarmare troppo l’opinione pubblica in sintonia con alcune figure politiche di peso (Salvini, Zaia, Sala) di entrambi gli schieramenti politici mentre il Governo centrale pareva più impegnato a tenere insieme i suoi cocci. L’informazione di casa nostra da anni è diventata da cortile e quindi non stupisce che del Coronavirus cinese abbia colto all’inizio più gli aspetti di contorno che non il senso della sua reale pericolosità. Né abbia cercato di dar voce agli scienziati che guardavano già allora più lontano.

Ormai sappiamo che il virus si era già diffuso a gennaio in alcuni distretti industriali lombardi a stretto contatto con la Cina e che la prima diagnosi di Coronavirus, il 20 febbraio scorso, all’ospedale di Codogno, ha certificato la connessione del Covid-19 con numerosi casi di polmonite interstiziale bilaterale verificatesi fra Lodi e la Val Seriana, soprattutto, nelle precedenti settimane. Lo sappiamo dalle prime riflessioni di specialisti che, emerse dal tam tam della Rete, finalmente ora rimbalzano anche nei media. L’allarme dato un mese fa alla Regione Lombardia dal dirigente del 118 di Bergamo, fu inascoltato e non ripreso da nessuna voce di informazione. Anche se a fatica, ora trova spazio. Chi confonde comunicazione e informazione, non conosce parole scomode verso chi ha il potere di determinare carriere e fortune; è sperabile che d’ora in poi, dentro questa crisi di sistema, si trovi sempre più in difficoltà.

L’informazione di Sky, forse anche per il problema di riempire i tempi della diretta continua, ha dato largo spazio all’improvvisata “Telelombardia” dei vertici del Pirellone che, non potendo contare su reti diverse da quelle Mediaset (notoriamente di intrattenimento), non avrebbe nemmeno osato espandersi. E invece, ecco la pensata: riempire lo spazio comunicativo prima del collegamento delle ore 18 di tutta l’Italia con la sede della Protezione Civile a Roma per le ultime notizie sull’espansione del Coronavirus. Così il presidente Fontana e alcuni assessori si sono via via presi lo spazio informativo concesso loro da Sky e, almeno sino al 24 marzo, si sono inventati la loro narrazione di amministratori pubblici previdenti organizzati e capaci, senza che nessuno battesse ciglio. Ma è durata poco.

Con il collegamento del 24 marzo quegli incauti signori hanno sbracato attribuendosi persino il merito dell’avvio della sperimentazione di un farmaco giapponese sui cui la stessa casa produttrice mostra prudenza. L’assessore Gallera, il più telegenico – è il solo a presentarsi in videoconferenza senza la mascherina sul viso – è quello che deve fornire i numeri della diffusione del Covid-19 ma quel giorno l’esponente di Forza Italia, e perciò assessore regionale al Welfare, si fa prendere dalla foga dei commenti in stile facciamo tutto noi e dimentica di fornire il numero più agghiacciante: quello dei 320 morti quotidiani in Lombardia. Stonavano con la sua narrazione? Nella serata lo intervista Colaprico per la Repubblica e il politico in rampa di lancio si candida a sindaco di Milano. Nel frattempo crescono le critiche via social contro questa comunicazione assai poco sobria e irrispettosa verso chi muore, chi sta male, chi cura chi sta male a rischio della propria salute, chi è sintomatico e sa di esserlo o lo sospetta ma non può accertarsene per mancanza di tamponi e di infermieri che li facciano a domicilio, chi ha, infine, “soltanto” paura e sono i più fra i sani. Un elenco che dovrebbe bastare a frenare il tentativo di fare un uso improprio della comunicazione travestita da informazione.

Se non altro, almeno il giorno dopo – vedremo nei prossimi – Sky riduce la videoconferenza del solo Gallera, il più berlusconiano e quindi più sfrontatello, a una pillola di collegamento. Nel frattempo, febbricitante anche Borrelli, il capo della Protezione Civile, l’appuntamento tv, da Roma, a reti unificate si riduce a una ancora più mesta comunicazione di dati e raccomandazioni. Ma ormai tutti sappiamo che i contagiati del giorno sono molti di più di quanto esprimano i numeri. Anche i più ottimisti fra di noi devono ricredersi. Sicché la speranza di una messa cantata affidata agli officianti della Protezione Civile per ora è accantonata. Meglio ridimensionare. È una buona idea.

Ma abbiamo bisogno di speranza e i social lo confermano. Eppure anche i concerti dai balconi sono durati lo spazio di un giorno di fronte alla cronaca delle morti fra medici, infermieri, sacerdoti, intere schiere di anziani ricoverati in una stessa casa di riposo, giovani che se ne vanno senza avere altre patologie e così tolgono ogni desiderio residuo di cantare e sorridere. Così, chiusi in casa, si reagisce come si può: chi cucina, chi satura il cervello con le serie di Netflix e chi apre o riapre Cecità di Saramago per specchiarsi nelle proprie paure e capirne di più. Così come sino a qualche giorno fa c’era chi poteva correre ai giardini. Forse per esorcizzare la Malattia.

Ho fatto il mestiere del giornalista sino al mio prepensionamento a fine 2013. E mi rendo ben conto che sia dura fare la cronaca di questi tempi. C’è chi vi riesce e chi no. Con una differenza: l’informazione televisiva, salvo eccezioni, è soprattutto demandata ai conduttori dei talk show che mostrano tutti i loro limiti quando stanno davanti alle telecamere per meriti politici, così come certi direttori di giornali quasi clandestini che vanno in tv, ospiti da Vespa in giù, a rappresentare la loro parte politica in maniera finto mascherata. Sennò quale altro ruolo avrebbero i vari Belpietro?

La tentazione di appendersi a tutto, pur di accorciare mediaticamente la vita del Covid-19, fa il paio con il naturale catastrofismo di alcuni, passati per il registro emotivo di una cronaca nera dalla lunga tradizione e il successo di certi suoi interpreti. Anche minori: all’inizio del mio lavoro, quand’ero un praticante giornalista di nome e di fatto, occupavo a Stampa Sera la scrivania di fianco a un collega lanciato sul terrorismo e notavo come ogni alba copiasse per l’edizione di mezzogiorno quelle dei giornali appena usciti. Di suo abbondava con gli aggettivi. Ha fatto carriera: è diventato inviato speciale, forse pure vicedirettore ad personam. Ne ho fatto menzione perché quel giornalismo, diciamo dell’abbondanza, dovrebbe essere morto e sepolto, a sentire le tante storie di giovani e sempre meno giovani – il tempo passa anche per i giovani di ieri e l’altro ieri – giornalisti precari. Che ormai formano l’ossatura del sistema informativo: sono soprattutto loro che raccolgono le notizie di cronaca nei tanti cantoni, di periferie e non, di questo Paese per mille euro al mese, se va bene, e zero certezze future. Il sindacato dei giornalisti dovrebbe battersi e sbattersi per loro molto di più di quanto mostri di fare. Siani era uno di loro. Con una differenza: al tempo in cui il giovane e coraggioso cronista napoletano fu ucciso dalla camorra, i precari del giornalismo come lui non erano un esercito come quello di oggi. Fatalmente, chi deve rincorrere le notizie per mettere insieme un reddito prossimo a quello dei ragazzi che consegnano il cibo a domicilio, lo deve fare con lo stesso criterio: la velocità, che va a scapito della verifica e dell’approfondimento. La prima fonte che dà la notizia è sufficiente. E la si racconta come te la riferisce, appunto, la fonte più rapida e forse meno disinteressata.

In tempi di Coronavirus ciò non basta più. Così come per l’assessore lombardo al welfare improvvisatosi politico di successo, il senso della tragedia di tutti questi morti e vivi intubati in rianimazione corre sui numeri che vengono a galla puntualmente restituendo la vaghezza di certe parole e l’inconsistenza di intere narrazioni.

Spostiamo l’attenzione dall’epicentro del “terremoto umano”, la Lombardia, e fermiamoci sulla realtà piemontese del Covid-19: quando ancora il registro dei contagiati non era arrivato a mille in tutta la regione, il governatore Cirio già strillava che la sanità organizzata da lui, oltre che, prima di lui, dai suoi predecessori, sarebbe collassata rapidamente senza aiuti consistenti del Governo centrale. Forse il messaggio di Cirio era incompleto e il governatore avrebbe dovuto aggiungere che i casi di contagio erano molti di più. Sicuramente sono di più e oggi ne abbiamo la quasi certezza. Basta confrontare il provvisorio bilancio piemontese con quello veneto: il numero dei morti cresce più rapidamente nella prima regione e, il 25 marzo, era ormai quasi il doppio rispetto a un numero di positivi inferiore. Di sicuro in Piemonte si fanno meno tamponi che in Veneto. Perché? E un secondo interrogativo comunque si impone a leggere tutti quei numeri, da una pubblicazione quotidiana all’altra: com’è che in Piemonte i guariti sono cosi pochi?

Se chi fa informazione e soprattutto chi la dirige non coglie questo momento storico, che non lascia scampo ai travisamenti e nemmeno ai balbettii, non fa uno scatto in avanti e si riorganizza, anche sindacalmente, per farsi sentire indispensabile, sarà davvero la fine di un certo mondo già in declino, per taluni persino al tramonto. La ragione: non si potrà più spacciare per informazione ciò che è solo comunicazione di fonti più che interessate a diffondere narrazioni pro domo propria. L’invasività dei social qui non c’entra, se non in positivo per chi fa informazione di notizie verificate, problematiche, storie umane con parole sobrie e convincenti. E scomode, se necessario. Il virus che ci sta scompigliando la vita ci ha posto in un collo di bottiglia a meditare come non fanno invece i ciechi di Saramago che riacquistano la vista tutti insieme, nella fine improvvisa e miracolosa di una pandemia che aveva colpito un intero paese. Tranne una persona. Una donna. La stessa persona e donna che nell’ultima pagina del romanzo, pone il vero problema per il futuro che verrà: continueremo ad essere ciechi pur vedendo, come era accaduto prima della pandemia?

Chi scommette che, dopo la nostra di pandemia, tutto tornerà come prima, oggi, forse, rischia un azzardo.

Alberto Gaino

28-03-2020 https://volerelaluna.it

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