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    Blog, Cronache Politiche — Agosto 3, 2015 9:53 am

    E’ bene ricordare che quando si parla di beni essenziali parliamo più dei servizi sociali come scuola, università, sanità, trasporti, fondamentali per una vita dignitosa. Tutte quelle cose vitali che i saccenti prima citati non considerano degni di nota nel loro giustificare la vita degli altri, finché non toccherà a loro sfiorare la povertà. Risulta evidente che pochi hanno troppo e troppi hanno briciole per sopravvivere. La crisi imposta alle fasce popolari, per finanziare le banche, la finanza parassitaria e la speculazione, ha di fatto accentuato la disuguaglianza tra le classi sociali, ma a ricaduta anche quella, comunque già esistente a causa dei contratti negli ultimi dieci anni, tra le diverse figure professionali governate da istituti contrattuali utilizzati in forma clientelare per favorire pochi fidati e altri da fidelizzare con migliaia di euro, (sono percorsi più infami nel servizio pubblico che nel lavoro privato, perché rendono le persone più inclini all’egoismo sul lavoro e più indifferenti ai bisogni dei cittadini, ai quali è impedita una fruizione facile e qualitativa del diritto, facendoli sentire più poveri e sfiduciati).

    Il federalismo è stato una truffa. E ora ci riprovano con la pubblica amministrazione

    Pubblicato da franco.cilenti

    Il federalismo è stato una truffa. E ora ci riprovano con la pubblica amministrazione

     

    Correva l’anno 2001 quando il governo di centro-sinistra, affidato ancora una volta a Giuliano Amato, modificò il Titolo V della Costituzione e introdusse il federalismo nel nostro paese. Stretti da una perfida forbice tra la Lega che invocava – allora – “la devolution” dei poteri agli enti territoriali e i Ds che aspiravano a diventare Pd e volevano smantellare lo Stato in nome dei poteri locali, il governo varò la legge e la sottopose a referendum confermativo. Solo in pochi ebbero il coraggio e la coerenza di opporvisi. Deus ex Machina dell’operazione nel centro-sinistra fu il ministro Bassanini, ispiratore di leggi e provvedimenti che hanno picconato ben prima di Renzi l’assetto costituzionale del paese.

    Quindici anni dopo il federalismo introdotto d’imperio non funziona, soprattutto sul piano fiscale ed economico, anzi. La crescita dell’autonomia finanziaria dei Comuni, infatti, non sembra aver prodotto alcun beneficio né sui servizi, né sui consumi e sull’occupazione locale. Ma, al contrario, ha portato solo al boom della tassazione locale. A certificarlo, per l’ennesima volta, è la Corte dei Conti nella sua relazione sulla finanza locale. La riduzione dei finanziamenti statali agli enti locali, non ha prodotto più autonomia decisionale sulla base delle esigenze del territorio ma solo aumenti delle tasse locali. In quattro anni, dal 2010 al 2014, i Comuni hanno subìto tagli per circa 8 miliardi, compensati da “aumenti molto accentuati” delle tasse locali “per conservare l’equilibrio in risposta alle severe misure correttive del governo”. Solo nell’ultimo triennio, le imposte comunali sono cresciute del 22%: si è passati dai 505,5 euro 2011 ai 618,4 euro pro capite 2014.

    Nei Comuni con più di 250 mila abitanti la pressione tributaria è arrivata a 881,94 euro a testa. Nei Comuni tra i 60 mila e i 249 mila abitanti la pressione fiscale procapite si aggira sui 649,69 euro. Infine nei piccoli Comuni (fin a1.999 abitanti) si pagano mediamente 628 euro di imposte comunali. Secondo la relazione de lla Corte dei Conti, la crescita dell’autonomia finanziaria degli enti locali non sembra aver prodotto alcun beneficio, né sui servizi, né sui consumi e sull’occupazione locale, in assenza “di una adeguata azione di stimolo derivante dagli investimenti pubblici”.

    La dinamica delle entrate locali, è l’analisi dei magistrati contabili, è dovuta principalmente a due fenomeni: “Il deterioramento del quadro economico, con effetti penalizzanti soprattutto sul gettito risultante dalle più ridotte basi imponibili” e dalle “numerose manovre di risanamento della finanza pubblica, i cui effetti prodotti dal disorganico e talvolta convulso succedersi di interventi sulle fonti di finanziamento degli enti locali hanno determinato forti incertezze nella gestione dei bilanci e nella formulazione delle politiche tributarie territoriali”.

    E’ in questo contesto che l’ultima “grande pensata” della demagogia di governo e di opposizione – l’abolizione delle Province – sta innescando un altro possibile cortocircuito. Infatti sempre secondo la Corte dei Conti, le risorse a disposizione delle Province, a riordino non concluso, rischiano di non bastare a “garantire servizi di primaria importanza”.Senza interventi “la forbice tra risorse correnti e fabbisogno” tende a una “profonda divaricazione, difficilmente sostenibile per l’intero comparto”.

    Insomma continuiamo ad essere nelle mani degli apprendisti stregoni. E proprio il principale di essi, Renzi, dal lontano Giappone fa sapere che entro giovedi parte la riforma della pubblica amministrazione. La commissione Affari Costituzionale del Senato lo scorso 31 luglio, ha detto sì all’avvio della “riforma” della pubblica amministrazione. Il ministro Marianna Madia ha dichiarato che poi si aprirà la partita dei decreti attuativi, “che vedo divisi in due pacchetti”, almeno in linea di principio. La prima tranche di dlgs dovrebbe partire da “settembre”. Lo spirito e gli obiettivi sono gli stessi di Bassanini quattordici anni fa, con i risultati nefasti che abbiamo visto: più imposte, meno servizi, privatizzazioni, nessuna assunzione, riduzione degli organici, punto.

    Stefano  Porcari

    3/8/2015 www.contropiano.org

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    Autore: franco.cilenti
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