Il lavoro femminile, prima e dopo la pandemia

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La pandemia ha determinato importanti trasformazioni nel mondo del lavoro: crisi delle imprese, peggioramento delle condizioni per i lavoratori, disoccupazione, diffusione di nuove forme di lavoro a distanza con tutte le implicazioni del caso. La questione del lavoro femminile in particolare merita alcune considerazioni. Se partiamo dall’analisi dell’occupazione femminile in Italia, prima del coronavirus possiamo individuare aspetti di forte criticità, che pongono il nostro paese in forte ritardo rispetto al resto d’Europa.

“ Dal 1977 al 2018 il tasso di occupazione è cresciuto di solo 4,8 punti percentuali nel complesso, ma analizzato per genere evidenzia dinamiche contrapposte dei due sessi: per gli uomini il tasso di occupazione è sceso di 7 punti (dal 74,6 al 67,6%), mentre per le donne è aumentato di 16 punti (dal 33,5 del 1977 al 49,5%). Conseguentemente nell’arco di 40 anni il divario di genere è diminuito da 41 punti a 18…. La diminuzione del divario di genere è dovuta sia al calo dell’occupazione maschile, che all’ aumento di quella femminile…. Tuttavia il divario di genere nei tassi di occupazione in Italia rimane tra i più alti di Europa (circa 18 punti su una media europea di 10)”. ( Audizione dell’Istituto nazionale di statistica Dott.ssa Linda Laura Sabbadini Direttore della Direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche -febbraio 2020)

L’incremento dell’occupazione femminile e la riduzione del divario di genere nel lungo periodo sono certo indici incoraggianti per un cambiamento strutturale della società. Ma ad uno sguardo più dettagliato, la strada rimane ancora lunga ed impervia. Permangono fortissimi squilibri territoriali tra il tasso di occupazione nelle diverse regioni. E, dappertutto, le donne continuano a scontare diversi tipi di difficoltà: nell’accesso al mondo del lavoro, nella diseguaglianza di opportunità rispetto agli uomini nel raggiungere posizioni di vertice nella professione, nel confinamento in specifici settori di occupazione, minore retribuzione, contratti a tempo parziale e/o determinato. Le donne sono più spesso sovraistruite rispetto al ruolo che ricoprono.

Le ragioni di queste differenze sono complesse, riconducibili però, al nostro modello di organizzazione sociale. Se è vero che le donne hanno sempre più rivendicato il diritto ad affermare una identità professionale oltre le mura domestiche, siamo ancora piuttosto lontani, nella realtà quotidiana, da una equa ripartizione dei carichi familiari. Sono le donne, in maggior misura, a compiere (o subire..) “scelte” lavorative legate alla presenza di figli o anziani da accudire. Questo determina un maggior ricorso al part time, frequenti periodi di astensione dal lavoro (che producono maggiori difficoltà nella crescita o ascesa professionale),e ha come conseguenza redditi più bassi per le donne, contributi pensionistici inferiori, a fronte di un reale e massiccio carico di lavoro non retribuito.

I settori in cui si registra una maggior presenza di donne sono quelli legati all’istruzione, ai servizi alla persona, alla sanità, al commercio, alla ristorazione, al turismo. Sono rappresentate in misura considerevole nel pubblico, ma non raggiungono con facilità posizioni apicali.

“Il settore pubblico non sembra tuttavia favorire pari opportunità di carriera per il persistere di stereotipi culturali e rigidità dei contesti organizzativi. Le donne sono ancora sotto-rappresentate
nelle posizioni apicali, specie in alcuni comparti. Tuttavia emergono alcuni segnali positivi: ad es. le donne magistrato in 23 anni sono passate dal 25,8% a oltre il 50%. I progressi più marcati si registrano nei dirigenti apicali degli Enti Locali, Ministeri e Scuola, mentre è ancora troppo bassa la quota di donne ambasciatore e primario nella Sanità. “ ( Audizione dell’Istituto nazionale di statistica Dott.ssa Linda Laura Sabbadini Direttore della Direzione centrale per gli studi e la valorizzazione tematica nell’area delle statistiche sociali e demografiche -febbraio 2020).

Spesso sono occupate, in nero, in attività di assistenza a bambini o anziani e pulizie, collaborazioni domestiche.
Cioè, le donne spesso continuano a svolgere fuori casa le mansioni tradizionalmente attribuite loro, ancora nel 2020, in virtù di una presunta maggiore “predisposizione” o “attitudine”, decisamente molto comoda per l’universo maschile. L’occupazione che emancipa, affranca, specializza,è riservata alle donne che investono sulla propria formazione e istruzione, che scelgono percorsi originali, sempre però con notevole difficoltà se decidono di diventare madri, ad esempio. In questi casi, quando possono permetterselo, ricorrono ad altre donne per supplire alla propria assenza da casa.

Inutile dire che le mansioni prettamente femminili ( cioè considerate tali) sono generalmente meno valorizzate. Negli ospedali è maggioritaria, rispetto ai ruoli meno qualificanti , la presenza femminile. Nel sistema d’istruzione, ai gradi inferiori, nei servizi educativi per la prima infanzia, nelle imprese di pulizie e ristorazione le donne sono impiegate in assoluta preponderanza.
Donne sottopagate, precarie, spesso senza tutele sindacali ( basti pensare al magico mondo delle cooperative). Le donne risentono maggiormente di condizioni penalizzanti : basso titolo di studio, età, figli a carico e servizi disponibili sul territorio.

L’effetto delle misure di prevenzione del coronavirus, il lockdown, su questo quadro dell’occupazione femminile è stato e sarà molto rilevante: molte donne hanno perso il lavoro, o lo perderanno, essendo le più “sacrificabili”. La crisi delle strutture ricettive, del commercio, delle piccole imprese colpirà in primo luogo le lavoratrici più deboli. Molto importante , per il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, è anche il ricorso allo smart workng. Quest’ultimo rende molto più difficile separare tempi e spazi, e lungi dal facilitare la conciliazione di vita lavorativa e familiare rischia di risolversi, per le madri lavoratrici, in una condizione di sovraccarico simultaneo di portata rilevante.

“I dati presentati dall’EUROSTAT nel 2006 rivelano che il tempo dedicato dalle donne italiane al lavoro familiare è il più alto in assoluto nell’Unione Europea (5h20′ al giorno contro 3h42′ delle svedesi, il più basso), mentre gli uomini italiani sono quelli che se ne accollano la quantità minore (1h35′ contro 2h48′ degli estoni, i più impegnati). Il nostro Paese è, insieme alla Spagna, quello nel quale la diseguaglianza di genere nella ripartizione del lavoro familiare si rivela più accentuata, mentre la Svezia è lo Stato nel quale il pur persistente squilibrio risulta più contenuto. “
(Le donne nel mercato del lavoro oggi Dal soffitto di cristallo alle sabbie mobili – Centro documentazione donna. Modena aprile 2015 ).

Si potrebbe dire , senza essere tacciati di vetero-femminismo, che, nella quotidianità del nostro sistema sociale, fondamentalmente patriarcale e per di più liberista ( e come tale rispondente a logiche di profitto, competizione, concorrenza) in cui il lavoro è spesso , ai livelli più “ alti” strumento per l’esercizio del potere(a volte anche ben miseri poteri, ma sempre allettanti…) la presenza femminile venga in realtà solo tollerata. In alcuni casi perfino formalmente incoraggiata, come dimostrano le quote rosa, ma sottoposta a condizioni che tendono a confinare le donne in specifici recinti, ponendole in netto svantaggio, approfittando , ad esempio delle naturali differenze biologiche ( vedi l’astensione dal lavoro necessaria per la maternità che spesso determina l’esclusione della lavoratrice da percorsi di ascesa professionale).
La sociologia suggerisce diverse ipotesi teoriche per spiegare questo generalizzato squilibrio, tanto più evidente nelle società contemporanee e nelle realtà urbane. La più accreditata sembra essere quella dell’ideologia di genere (approccio culturalista che postula che donne e uomini si impegnino nel lavoro familiare e in quello retribuito con intensità diversa in base agli atteggiamenti, alle aspettative e alle credenze che hanno maturato relativamente alla divisione dei ruoli e delle responsabilità fra i sessi). E’ evidente che l’ideologia di genere si traduce in politiche di welfare diverse, con una organizzazione del lavoro e dei servizi che persegua e garantisca la parità tra uomini e donne.

Servirebbe una vera rivoluzione culturale, per creare le condizioni affinchè si ripartissero in modo equilibrato compiti e responsabilità; a partire da una maggiore determinazione delle donne nel rivendicare un’ equa divisione del lavoro familiare, alla predisposizione di strutture e servizi di supporto,( asili nido, scuole dell’infanzia, ecc. ) oltre a contratti di lavoro più vantaggiosi e più stabili. Una misura di civiltà, che porterebbe benefici generalizzati, è sicuramente la riduzione degli orari di lavoro a parità di salario, in modo da garantire a tutti la possibilità di gestire tempi e spazi professionali e personali, di poter vivere in modo completo le dimensioni dell’esperienza umana , dal rapporto con i figli alla cura dei rapporti sociali e del proprio arricchimento culturale.

Loretta Deluca

Insegnante, Torino

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sul numero di ottobre di Lavoro e Salute

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