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    Blog, Cronache Sociali — Maggio 23, 2015 7:29 am

    Nel mese di marzo 2015 la disoccupazione in Italia ha raggiunto il 13% mentre quella giovanile è al 43,1%. Questa è la fotografia, impietosa, scattata dall’Eurostat. Dal 2009 a oggi il lavoro è diventato una vera e propria emergenza al centro del dibattito pubblico e politico.Tuttavia il lavoro potrebbe non essere sufficiente per uscire dalla crisi. A dirlo è una delle più autorevoli esponenti della sociologia italiana: Chiara Saraceno. Secondo la studiosa, infatti, la diffusione dei cosiddetti cattivi lavori insieme alle politiche di austerity potrebbero interrompere quell’equazione secondo cui aumento dell’occupazione significa via di uscita dalla povertà. A questo proposito le abbiamo rivolto alcune domande. – Fonte: Gruppo Abele

    Il lavoro non basta se la povertà si trasmette per via ereditaria

    Pubblicato da franco.cilenti

    Nel mese di marzo 2015 la disoccupazione in Italia ha raggiunto il 13% mentre quella giovanile è al 43,1%. Questa è la fotografia, impietosa, scattata dall’Eurostat. Dal 2009 a oggi il lavoro è diventato una vera e propria emergenza al centro del dibattito pubblico e politico.Tuttavia il lavoro potrebbe non essere sufficiente per uscire dalla crisi. A dirlo è una delle più autorevoli esponenti della sociologia italiana: Chiara Saraceno. Secondo la studiosa, infatti, la diffusione dei cosiddetti cattivi lavori insieme alle politiche di austerity potrebbero interrompere quell’equazione secondo cui aumento dell’occupazione significa via di uscita dalla povertà. A questo proposito le abbiamo rivolto alcune domande.

    Il suo nuovo libro Il lavoro non basta racconta il ritorno della povertà nei paesi ricchi. Come possono le nazioni fronteggiare quest’emergenza che rischia di divenire sempre più grave a causa dello smantellamento del welfare state a cui stiamo assistendo?
    Innanzitutto va chiarito che ci sono differenze tra paese e paese nell’efficacia delle misure atte a contrastare la povertà, sia prima che dopo la crisi. Faccio alcuni esempi significativi: i paesi che sostengono il costo dei figli con trasferimenti monetari (assegni per i figli e detrazioni fiscali) significativi riescono, ad esempio, a ridurre il rischio di povertà delle famiglie con minori. I paesi che sostengono l’occupazione femminile, in particolare delle madri, favoriscono la presenza di più di un percettore di reddito in famiglia ed insieme diminuiscono il rischio che madri e figli diventino poveri a seguito della fine del rapporto di coppia. I paesi che integrano i redditi da lavoro troppo bassi, invece, riducono il rischio che loro e le loro famiglie cadano in povertà. I paesi che hanno una misura di reddito minimo per i poveri, infine, non lasciano che i propri cittadini rimangano privi totalmente di mezzi. In diversi Paesi – in Francia, Germania, nei Paesi scandinavi, in Belgio – troviamo una combinazione di queste misure. L’Italia non le ha mai avute e più che di retrenchment (ridimensionamento) si può parlare di riduzione di un welfare che era già frammentato, squilibrato e poco efficace. Purtroppo, invece di approfittare della crisi per raddrizzarne gli squilibri più vistosi e per iniziare a riformarlo in direzione di una maggiore equità, si è operato come se il welfare fosse un lusso che si può impunemente tagliare. Anche in altri paesi si sono strette le maglie del welfare e sono emersi inediti dualismi. Ma in nessuno si è tolto il sostegno ai poveri, anche se possono essere peggiorate le condizioni per averlo. Accanto al welfare retrenchment, o alle mancate riforme del welfare in direzione più equa, un errore gravissimo, a mio parere è continuare a pensare che la disoccupazione e la povertà siano un problema di offerta e non soprattutto di domanda, ponendo quindi tutto il peso della responsabilità sugli individui, e non sulle strategie sbagliate degli attori politici, imprenditoriali, finanziari.

    In quasi tutti i Paesi europei le donne sono più a rischio povertà degli uomini, laddove c’è un dato migliore esso è attribuibile unicamente al peggioramento della condizione maschile. Quanti anni ci vorranno affinché venga raggiunta una parità di genere non solo nominale ma anche effettiva?
    Questa è una domanda da un miliardo di euro. Per arrivare alla parità occorrono modifiche profonde, che riguardano non solo le donne ma anche gli uomini, il modo in cui è organizzato il lavoro e in cui sono pensati e affrontati i bisogni di cura. Occorre anche tener conto del fatto che il processo di cambiamento, nel modificare equilibri pre-esistenti, modifica anche i profili della disuguaglianza. Ad esempio oggi stiamo assistendo all’emergere di nuove disuguaglianze tra donne, che si intrecciano a quelle vecchie. È  l’esito paradossale dei miglioramenti che sono avvenuti, nella partecipazione all’istruzione e nell’accesso al mercato del lavoro, miglioramenti che tuttavia non sono distribuiti omogeneamente lungo tutta la scala sociale e che non sono stati accompagnati da politiche adeguate. La combinazione tra importanza dell’origine famigliare (che spesso determina il livello di istruzione che si può raggiungere e la posizione professionale cui si può aspirare) e omogamia matrimoniale fa sì  che si allarghi il divario tra famiglie in cui entrambi sono ad alta istruzione e buona posizione professionale e famiglie in cui entrambi sono a bassa istruzione e in posizione professionale poco qualificata e dove le donne hanno lo svantaggio aggiuntivo del carico famigliare. Detto questo voglio precisare che non sottovaluto il permanere delle disuguaglianze tra uomini e donne, ma voglio attirare l’attenzione anche su questo secondo fenomeno.

    L’altra categoria a rischio è quella dei giovani. Nel suo libro cita alcuni studi che sostengono che la povertà si trasmette per via ereditaria molto più del benessere. Con un’istruzione incapace di compensare le disuguaglianze e la minaccia di una jobless recovery, che futuro hanno i giovani europei?
    È vero che i giovani, in generale, sono oggi un gruppo di età meno protetto delle persone in età centrali e degli anziani. È vero soprattutto che sono aumentati i rischi di mobilità sociale discendente. Tuttavia occorre evitare di considerare i giovani una categoria omogenea, non solo perché le differenze di genere continuano a contare molto, ma altrettanto contano le differenze di classe sociale. Proprio a motivo della trasmissione intergenerazionale della disuguaglianza, non tutti i giovani sono esposti nello stesso modo alla vulnerabilità. Anzi, l’inefficienza della scuola, del mercato e del welfare nel compensare le disuguaglianze di origine sociale accentua le disuguaglianze tra i giovani. I più esposti  ai rischi di una ripresa economica senza ripresa di occupazione sono i giovani a bassa qualifica e con meno risorse famigliari, che hanno meno opzioni sul mercato – locale, nazionale, internazionale – mentre sono in competizione con il basso costo del lavoro dei Paesi emergenti.

    Valentina Casciaro

    www.gruppoabele.org

     

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    Autore: franco.cilenti
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