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    Questo articolo intende mostrare come le tecnologie legate all’Intelligenza Artificiale stiano dando vita, già oggi, a nuove forme organizzative ed a nuove condizioni di lavoro. Il motore principale di tali trasformazioni è il controllo monopolistico di grandi masse di informazioni (big data) da parte delle imprese che stanno estraendo la gran parte dei benefici economici dall’attuale fase tecnologica.

    Il lavoro secondo Amazon: rapporti “virtuosi” tra manodopera e dati

    Pubblicato da franco.cilenti

    Nel 1821, mentre la prima rivoluzione industriale si stava diffondendo in Europa continentale, David Ricardo completava la terza edizione dei suoi Principi di Economia Politica chiedendosi quale fosse il rapporto che legava il lavoro umano al cambiamento tecnologico. Circa due secoli dopo, il tema della disoccupazione tecnologica è ancora al centro della riflessione collettiva. Proliferano, in questa fase, studi (basti ricordare il famoso volume di Bryjnolfsson e McAfee, o quello di Frey e Osborne) che tentano di misurare empiricamente l’impatto che il diffondersi della cosiddetta “Intelligenza Artificiale” potrà avere sull’occupazione e, in particolare, sulle diverse mansioni lavorative.

    Tuttavia, a fronte dell’acceso dibattito tra chi sostiene la tesi di un’imminente sostituzione (per mano di robot e computer intelligenti) di vaste masse di lavoratori e chi ritiene invece che l’emergere di nuovi bisogni, nuovi prodotti e, con essi, nuovi lavori sarà in grado di compensare gli effetti occupazionali negativi paventati dai pessimisti, sorprende la scarsa attenzione rivolta a due fattori di notevole rilievo. Il primo è l’impatto che il cambiamento tecnologico ha già oggi sui lavori del nostro tempo presente; il secondo è l’impatto che il cambiamento tecnologico ha non sul bilancio occupazionale, ma sulle condizioni di lavoro. Per rispondere in modo compiuto a tali domande è necessario porre l’accento sul ruolo che i rapporti di forza tra chi disegna e chi s’interfaccia con le nuove tecnologie giocano nel determinare il carattere specifico della trasformazione del lavoro.

    Questo articolo intende mostrare come le tecnologie legate all’Intelligenza Artificiale stiano dando vita, già oggi, a nuove forme organizzative ed a nuove condizioni di lavoro. Il motore principale di tali trasformazioni è il controllo monopolistico di grandi masse di informazioni (big data) da parte delle imprese che stanno estraendo la gran parte dei benefici economici dall’attuale fase tecnologica. Senza pretesa di descrivere con un esempio l’intero spettro delle trasformazioni in atto, ci avvarremo del ‘caso Amazon’ per evidenziare come il controllo delle informazioni sia al contempo una parte essenziale del business model di questo tipo di imprese, ed il fattore decisivo nel determinare la natura del “nuovo” lavoro.

    L’ultimo rapporto annuale stilato da Amazon descrive le principali linee di business dell’impresa mettendo il luce il vasto spettro di categorie a cui la stessa si rivolge: consumatori, rivenditori, sviluppatori e imprese, produttori di contenuti creativi. Ai fini dell’analisi che si intende condurre in questa sede, la business line rivolta ai consumatori è quella di maggiore importanza. In primo luogo, Amazon disegna e gestisce una piattaforma online (il cosiddetto marketplace) accessibile attraverso siti, applicazioni e assistenti virtuali (come Alexa). Attraverso la piattaforma, Amazon e, passando attraverso l’intermediazione di quest’ultima, le altre imprese che si avvalgono del marketplace, vendono centinaia di milioni di prodotti. In secondo luogo, Amazon coordina le reti predisposte alla gestione logistica dei prodotti, curandone — seppur in misura variabile, a seconda del paese in cui si svolgono le operazioni di vendita — tutte o una parte delle fasi di consegna del prodotto, a partire dall’immagazzinamento fino alla spedizione. Amazon è dunque il retailer online più grande al mondo e, al contempo, uno tra i più importanti provider logistici operativi su scala internazionale. In entrambi questi mercati, quello del retail e quello della logistica, esercita una posizione dominante che gli consente di mantenere ed incrementare i margini a danno dei competitori e delle stesse imprese che si avvalgono dei suoi servizi per collocare i loro prodotti. Amazon è stata una delle prime aziende nella storia a raggiungere una capitalizzazione di mercato di 1000 miliardi di dollari, e a fine 2018 impiegava 647,500 dipendenti sotto contratto tra full-time e part-time stagionali.

    Le due componenti essenziali di questa business line (online commerce e servizi logistici) si avvalgono rispettivamente di due tipologie di manodopera, che potremmo ideal-tipizzare nel seguente modo: manodopera “algoritmica” e manodopera “logistica”.

    La manodopera “algoritmica” è, nella logica complessiva del business model di Amazon, una sorta di convitato di pietra: un elemento non menzionato né nella descrizione del modello di sviluppo, né nella contabilità occupazionale del rapporto già citato, ma che riveste un ruolo decisivo nell’economia complessiva dell’azienda. La responsabilità dei lavoratori facenti parte della manodopera algoritmica è quella di svolgere mansioni (da remoto) caratterizzate da un alto livello di parcellizzazione e da un basso livello di difficoltà esecutiva. Esempi classici di questo tipo di micro-lavoro possono essere l’identificazione di oggetti in una fotografia, la trascrizione digitale di brevi linee di testo, o l’ordinamento di oggetti in una specifica lista. Questa manodopera algoritmica viene reclutata attraverso piattaforme online dedicate che agiscono come intermediari tra la domanda di lavoro delle data-based companies quali Amazon e l’offerta di lavoro di micro-workers che formalmente non sono dipendenti, bensì contraenti indipendenti di una prestazione a cottimo, coinvolti a diversi livelli di ingaggio. La più famosa di queste piattaforme è proprio Amazon Mechanical Turk, che si definisce come un “crowdsourcingmarketplace che rende più semplice per individui e imprese di esternalizzare mansioni e processi a una forza-lavoro distribuita, capace di svolgere queste mansioni digitalmente”.

    Nel caso di Amazon, ciascuna di queste mansioni contribuisce alla creazione delle banche dati sulla cui base si allenano gli algoritmi predittivi utilizzati dall’azienda per determinare gli elementi costitutivi dell’esperienza online vissuta dal consumatore: dai prodotti consigliati a margine di un acquisto, all’ordine di presentazione dei prodotti nelle ricerche online, fino alla pre-produzione di beni e media content capaci di anticipare i gusti e le aspettative del mercato. È chiaro che il risultato della combinazione di queste micro-mansioni è dunque superiore a una semplice somma delle parti: è la produzione distribuita di un sistema di Intelligenza Artificiale, dietro cui si nasconde nondimeno un costante processo di apprendimento, alimentato da una mole impressionante di lavoro umano. D’altro canto, si tratta di una forza-lavoro affatto tutelata, composta da individui che Casilli e Tubaro hanno definito “anonimi, invisibili, intercambiabili, lontani dai centri decisionali d’impresa, e privi di reali opportunità per entrare in connessione con altri colleghi”. In più, la già citata classificazione dei micro-workers come lavoratori autonomi e l’assenza di una normativa dedicata rendono tale condizione lavorativa priva di strumenti giuridici, economici e organizzativi per permettere al singolo lavoratore algoritmico di contrastare il potere contrattuale del datore di lavoro digitale — in questo caso, Amazon.

    Anche le condizioni di lavoro della manodopera “logistica” non sono immuni ai processi indotti dal cambiamento tecnologico. Secondo quanto presentato nelle offerte di lavoro di Amazon Italia, le responsabilità degli “operatori di magazzino” vanno dalla ricezione della merce in entrata allo smistamento della merce da stoccare; dalla catalogazione degli articoli allo stoccaggio della merce; dal prelievo della merce e dal trasporto nell’area di imballaggio, all’imballaggio e alla spedizione della merce. Si tratta di mansioni che non richiedono competenze specifiche, caratterizzate da un alto tasso di ripetitività operativa e da un alto livello di intensità fisica. In questo contesto, l’innovazione tecnologica abilita la produzione di strumenti che, accompagnati da una retorica basata sul sostegno offerto al lavoratore e sul miglioramento delle sue condizioni di lavoro, mirano sostanzialmente all’efficientamento delle operazioni condotte dalla manodopera logistica.

    L’esempio più famoso di questa dinamica risale a inizio 2018, quando la notizia del riconoscimento ufficiale del brevetto depositato da Amazon di un “braccialetto a ultrasuoni”, capace di identificare i movimenti della mano del dipendente per segnalarne e correggerne gli eventuali errori, suscitò un acceso dibattito internazionale che ebbe alcune ricadute anche sui media italiani. Più recente è l’adozione, nei centri di smistamento di Amazon US e Amazon UK, di videogiochi in cui le azioni fisicamente effettuate dai dipendenti vengono tradotte nell’ambiente virtuale, permettendo così lo sviluppo tra gli addetti di un meccanismo — volontario, ma remunerato attraverso un sistema di benefit interni — al contempo ludico e competitivo, e che mira pertanto a rendere il loro lavoro in un colpo solo meno noioso e più produttivo.

    Al netto delle ricadute che secondo alcuni psicologi la sovrapposizione tra svago e lavoro potrebbe avere sul dipendente, quel che pone in continuità i due dispositivi summenzionati — braccialetto e gamification delle mansioni lavorative — è il valore strategico che la tecnologia assume nel processo di consolidamento degli (impari) rapporti di forza che sussistono tra dipendente e datore di lavoro. La capacità computazionale dei sistemi d’Intelligenza Artificiale — ugualmente alle spalle sia del funzionamento dei braccialetti, sia dei meccanismi di gamification — diventa così lo strumento attraverso cui realizzare una guida quanto più eteronoma e chirurgica possibile della singola mansione lavorativa, a sua volta prodotto di una scomposizione del lavoro e della distribuzione delle cosiddette micro-tasks in capo ai singoli dipendenti. In questo senso, la recente voce di un accordo tra Amazon e le carceri delle Vallette (Torino) e di Rebibbia (Roma) per la somministrazione ai detenuti di lavoro come operatori di magazzino, per quanto velocemente smentita dal Dipartimento di amministrazione penitenziaria, esemplifica simbolicamente e in maniera ben più superficiale una tendenza che può essere rintracciata altrove da un punto di vista sia sociologico, sia economico.

    Complessivamente, la rappresentazione basata sulla distinzione (rispetto alla business lineper consumatori, complementare) tra manodopera algoritmica e manodopera logistica mostra come il rapporto tra cambiamento tecnologico e lavoro sia, nel caso di Amazon, modulato e filtrato dalla configurazione strutturale che caratterizza i rapporti di forza tra lavoro e datore di lavoro. Come emerso nella descrizione delle due forme di manodopera, il controllo e l’accumulazione di informazioni economicamente sensibili non sono “solo” l’essenza della business line dell’azienda, ma rappresentano l’elemento caratterizzante del suo modello organizzativo. Da un lato, la manodopera algoritmica nutre la capacità predittiva degli algoritmi che determinano l’esperienza di consumatori e lavoratori. Dall’altro, la manodopera logistica diventa — almeno secondo la logica retrostante le tecnologie descritte — tanto più efficiente e concorrenziale quanto più eterodiretta dagli stessi algoritmi. In entrambi i casi, il monopolio dei dati è la precondizione essenziale per l’esercizio di tale rapporto di forza. L’affermazione di Shoshana Zuboff secondo cui le asimmetrie informative tra chi sorveglia e chi è sorvegliato — consumatore o lavoratore — si traducono in asimmetrie di potere trova dunque una conferma non solo nel rapporto tra intermediari e intermediati, ma anche nel rapporto tra capitale (dati) e lavoro (mansioni virtuali e materiali, manodopera algoritmica e logistica).

    In conclusione, il caso di Amazon dimostra che il rapporto tra cambiamento tecnologico e lavoro non può prescindere dalle condizioni empiriche in cui il primo incide sul secondo. Come affermato da Casilli e Tubaro, “il problema non è l’allocazione tecnica delle mansioni tra uomini e macchine in sé, quanto la sottostante distribuzione di potere e il design della struttura organizzativa che sostiene la produzione e l’applicazione delle tecnologie”. È in tal senso che l’opera della Zuboff, creatrice del termine surveillance capitalism, riconosce i processi appena descritti come l’esito non casuale di uno specifico assetto istituzionale: il che dimostra, d’altro canto, che questi fenomeni sono tutto fuorché ineluttabili e, anzi, possono essere influenzati da azioni volte a ridefinire gli spazi e i rapporti di forza che determinano il cambiamento socio-economico. Karl Polanyi ha dimostrato che l’economia non è mai scissa dalla società; in fondo, neanche la tecnologia lo è.

    Jacopo Gronchi

    17/6/2019 www.eticaeconomia.it

     

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