IL LAVORO TRA RICATTI MAFIOSI, INSICUREZZE E DIRITTI NEGATI

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Prendo lo spunto da una iniziativa che abbiamo realizzato a Chieri come Comitato Pace e Cooperazione: un percorso di educazione alla legalità e alla giustizia partendo dall’analisi del libro “La ragazza che sognava di sconfiggere la mafia”, scritto da Annamaria Frustaci, magistrata della Procura di Catanzaro. La magistrata è intervenuta in presenza sia negli incontri con le scuole sia nell’incontro con la cittadinanza. Naturalmente il libro, di ispirazione autobiografica, pur narrando una storia dal punto di vista di una ragazza quattordicenne di un piccolo paesino della Calabria, ha dato l’innesco a vari interrogativi e riflessioni, sia da parte dei ragazzi che dei cittadini intervenuti all’incontro. E non poteva essere diversamente, poiché nel libro si parla abbondantemente di mafia. La storia infatti si svolge nell’anno 1992, l’anno delle stragi di Capaci e di via D’Amelio che hanno visto l’assassinio dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Ora, in margine al libro presentato, io vorrei fare alcune mie considerazioni che riguardano il tema del lavoro. Dal romanzo si capisce, partendo da storie realmente vissute, come la mafia, con i suoi grandi e piccoli potentati locali, si radica sul territorio. Ci riesce anche perché risponde a dei bisogni essenziali della popolazione, bisogni che in altro modo non verrebbero soddisfatti. Ad esempio, il bisogno di trovare lavoro. La mafia in effetti dà lavoro, ma lo dà alle sue condizioni. Cioè, in primo luogo, negando i diritti conquistati dai lavoratori in tanti anni di lotta, in secondo luogo esigendo poi delle contropartite estremamente pesanti e vincolanti. Se chi ha beneficiato del suo “aiuto” non sta a queste condizioni, oltre al lavoro rischia anche di perdere la vita.

Il padre della protagonista è un bravo falegname che lavora per conto di un imprenditore locale dell’edilizia, il mafioso del luogo. A un certo punto, viene licenziato e poi riassunto, ma gli viene negata la paga per le giornate festive e l’intera liquidazione, con la quale il falegname avrebbe contato di far proseguire gli studi a sua figlia. Naturalmente, nessuna reazione o azione legale, nessuna vertenza sindacale, nessun commento sull’accaduto. Ma siamo in regime di mafia!

Allora mi è venuta in mente una vicenda vissuta da una persona che ho conosciuto molto bene (adesso è mancata). Questa volta siamo in Puglia. La persona è un lavoratore del turismo, persona molto onesta e rispettata dal suo precedente datore di lavoro, appunto un imprenditore del settore. Tra l’imprenditore e il lavoratore c’era un accordo relativo a un cambio di mansione lavorativa.

Ma quando al datore di lavoro, dopo la sua morte, succede un altro imprenditore, questi nega al lavoratore l’adempimento di quell’accordo. Il lavoratore protesta e l’altro risponde con il licenziamento in tronco. Ma non siamo in un contesto di mafia, pertanto il lavoratore si rivolge a un patrocinatore legale del sindacato.
Per farla breve, ha luogo un lungo primo processo, che dura la bellezza di otto anni, con sentenze favorevoli al lavoratore sia in primo che in secondo grado e quindi con il riconoscimento del suo diritto ad ottenere gli emolumenti negati in tutti gli anni di disoccupazione. Ma…e qui arriva la sorpresa! Terzo grado di giudizio, Cassazione. Il processo viene annullato per un vizio di forma procedurale. Occorre ricominciare tutto daccapo.

Altro processo, passano altri sei anni. Sentenza di nuovo favorevole, in primo e in secondo grado. Il lavoratore ottiene il risarcimento relativo alle paghe degli anni di lavoro perduti. Ma non ottiene la liquidazione, che pure gli sarebbe spettata come “trattamento di fine rapporto”. Per quello, occorrerà fare ulteriori udienze per stabilire, secondo calcoli mai ben definiti, l’ammontare del dovuto. Nel frattempo, il lavoratore viene a mancare. Il legale patrocinatore della causa (legale del sindacato) la tira per le lunghe con queste ulteriori udienze. Finché l’unica erede rimasta cambia città e non ha più occasione di contattare direttamente l’avvocato. L’obbligo della corresponsione del TFR cade in prescrizione. L’erede non vedrà mai un euro della liquidazione. Tutto questo non è dovuto alla mafia, ma a un percorso “legale”.

La mia seconda riflessione nasce da un’altra constatazione. E’ vero, la mafia uccide. Troppe volte ha ucciso. E troppe volte gli assassini commessi dai mafiosi sono rimasti impuniti, tanto che si è dovuto ricorrere a leggi speciali per poter terminare i processi di mafia con delle condanne e non con delle assoluzioni “per insufficienza di prove”. Per restare fermi al tema del lavoro riporto un dato: ad oggi nell’anno 2022 sono state superate le mille vittime per incidenti sul lavoro. La mia fonte è Stefano Cecchi, sindacalista toscano dell’USB (Unione Sindacati di Base), nelle ultime elezioni candidato per Unione Popolare. Stefano Cecchi è molto attento alle problematiche relative al mondo del lavoro e sul suo profilo FaceBook non omette mai di rendere pubbliche notizie che riguardano incidenti mortali per cause di lavoro. Queste che riporto di seguito sono solo quelle relative agli ultimi giorni. Val Pusteria: Boscaiolo di 72 anni muore cadendo in un dirupo. Caltanissetta: operaio agricolo di 49 anni muore cadendo dall’escavatore. Verona: veterinaria di 25 anni muore schiacciata da una mucca, durante una visita. L’Aquila: operaio di 61 anni muore cadendo da un ponteggio. Montecatini Val di Cecina (PI). Operaio di 38 anni cade da una scala e muore sul colpo Reggio Emilia: Agricoltore di 69 anni muore schiacciato da una rotoballa. Avellino: operaio di 55 anni muore cadendo in una vasca per la lavorazione del cemento.

Dunque, non è solo la mafia che uccide, perché non si possono attribuire tanti gravissimi “incidenti sul lavoro” a semplice fatalità. Tanto è vero che la USB ha chiesto di introdurre il reato di omicidio sul lavoro!

Infine un’ultima considerazione. Questa nasce da una mia personale esperienza. Spesso seguo, come volontaria, degli studenti stranieri per un sostegno individualizzato nell’insegnamento dell’italiano come L2. Di recente mi è capitato di venire a conoscenza di tre casi analoghi, riguardanti tre giovani stranieri tutti e tre africani e tutti e tre lavoratori, due dei quali ormai in Italia da diversi anni. Il primo lavora in fabbrica con contratto a tempo indeterminato ed è un ragazzo molto sveglio. Si è iscritto a un corso serale perché, dopo il lavoro, è sua intenzione frequentare questo corso di studi per prendersi un diploma. Ma spesso non può frequentare le lezioni perché gli spostano i turni di lavoro in fabbrica. Purtroppo, se supera un tot di giorni di assenza, non avrebbe poi diritto a superare l’anno.

La seconda è una giovane signora etiope che lavora come badante. Anche lei segue, con grande sacrificio, un corso serale perché vuole migliorarsi.
L’anno scorso veniva da me un paio di giorni a settimana per avere un aiuto con l’italiano. Io ho lavorato con lei in piena collaborazione con la sua insegnante di Lettere della scuola che frequentava a Torino e questo le ha permesso di superare l’anno. Ma l’anno successivo lei, per esigenze di famiglia, ha dovuto accettare un lavoro di badante per una coppia di anziani, di cui lui parzialmente non autosufficiente. Le hanno permesso di continuare a frequentare la scuola, ma in compenso non le hanno dato nessun giorno libero, così io non l’ho più potuta seguire. Al di là di quanto potesse tornarle utile o meno il mio sostegno, sta di fatto che almeno un giorno libero le sarebbe proprio stato utile, sia per la sua vita privata, sia per poter seguire i suoi interessi personali. Le badanti sicuramente risolvono un nostro grandissimo problema, l’assistenza ai nostri anziani, ma non a costo di essere defraudate del tutto della loro vita! Il terzo ragazzo è in Italia da poco più di un anno, quindi è ancora in un percorso di prima accoglienza. Anche lui ha trovato un lavoro ma avrebbe bisogno di conseguire almeno la terza media con un corso serale. Lavora tutta la settimana e da me viene solo il sabato per qualche ora di lezione. Però la sua sede di lavoro è distante da dove abita e lui può prendere solo mezzi pubblici. In più, l’orario di lavoro è mediamente sulle 12 ore per cui lui non ce la fa a seguire un regolare corso serale. D’altra parte, non può nemmeno lasciare il lavoro, la sua fonte di sussistenza. Solo che, in questo modo, il mio sostegno di italiano serve a ben poco, perché non gli permetterà di poter ottenere un attestato riconosciuto.

Si tratta di casi ovviamente non di mafia, ma in cui il diritto al lavoro entra in conflitto con il diritto allo studio. Eppure queste persone aspirano tanto a migliorarsi e al loro Paese non avrebbero potuto farlo, anche per motivi economici, perché lì l’istruzione è molto costosa e pertanto riservata a pochissimi.
L’articolo 34 della nostra Costituzione recita “I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.
Ma anche in questo caso si tratta di diritti negati. E non a causa delle mafie.
E i tempi futuri che si prospettano non fanno presagire niente di buono. Si parla, ad esempio, di una reintroduzione del sistema di pagamento attraverso i voucher, già a suo tempo abolito dal governo Gentiloni per evitare un referendum. I voucher sarebbero riproposti, stando alle previsioni, in condizioni peggiorative per talune categorie di lavoratori, ad esempio nei settori dell’agricoltura, del turismo e della ristorazione. Il rischio è quello di aumentare la già diffusa precarizzazione del lavoro sotto il pretesto di
maggiore “flessibilità”.
Il sindacato Filcams Cgil nazionale spiega che i voucher incentivano il lavoro irregolare, nascondono il nero e non riducono la precarietà, così come dimostrato in tanti anni di utilizzo e sfruttamento, ma soprattutto non è la loro assenza che ha determinato una diminuzione di personale, quanto condizioni di lavoro e di salario che continuano a peggiorare e non sono più accettabili.

E che dire della già ventilata proposta di abolizione del Reddito di cittadinanza, cavallo di battaglia dell’attuale governo Meloni? Già il proposito di cambiarne il nome, da “reddito di cittadinanza” a “reddito di sussistenza” a me pare umiliante e offensivo. Come a dire: vi facciamo l’elemosina per
permettervi di continuare a vivacchiare, non in quanto “cittadini”, ma in quanto “miserabili” che non hanno altre chances. E poi, la condizione per poterlo elargire consisterebbe nell’esistenza di condizioni ostative che impediscono a uno o più componenti di andare a lavorare. E se invece non sussistessero queste condizioni ostative? Si dovrebbe poter contare su un mercato del lavoro che riesce ad assicurare a tutti e a tutte coloro che fossero in grado di lavorare, quelli che dovrebbero essere gli obiettivi di una seria riforma del lavoro, cioè formazione professionale, assunzioni stabili e buona occupazione per un lavoro regolare,dignitoso e sicuro. Invece si profilano non meglio precisati incentivi per l’occupazione con maggiori risorse destinate alle aziende. In un mercato del lavoro ormai da tempo afflitto da contratti atipici, déregulation e aperta violazione di diritti storicamente conquistati. Anche questa non è mafia. Ma rischia di andare disinvoltamente nella direzione che vorrebbero le mafie. Occupazione senza diritti, a condizioni capestro, dove al posto della stabilità lavorativa permanga una situazione di forte ricattabilità dei lavoratori stessi. Magari senza possibilità di miglioramenti futuri o addirittura senza garanzie di sicurezza. Resta solo da vedere quali potranno essere le risorse alle aziende per incentivare l’occupazione. Sinora a me pare che si prospettino solo misure punitive e restrittive per chi il lavoro lo cerca seriamente. A solo beneficio di chi ne decide arbitrariamente le condizioni.

Rita Clemente

Scrittrice. Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

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