Il medico che ti salva la vita

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Atul Gawande, chirurgo statunitense, professore alla Harvard medical school di Boston, è anche un brillante pubblicista: il suo primo libro, del 2002, “Salvo complicazioni: Appunti di un chirurgo americano su una scienza imperfetta” è stato tradotto e venduto in oltre cento paesi; l’ultimo pubblicato in Italia è “Essere mortale. Come scegliere la propria vita fino in fondo” (Einaudi 2016).

Internazionale, nel numero dello scorso 10 novembre, pubblica un suo lungo articolo dal titolo “Il medico che ti salva la vita”. Chi conosce l’autore (e la sua specializzazione) avrebbe pensato: un chirurgo, magari un chirurgo d’urgenza. Invece no. Sorprendentemente il profilo del medico dotato di un tale straordinario potere risiede, secondo Gawande, nella figura che nell’immaginario collettivo ne è la più lontana, quella del medico di famiglia, del medico generalista che ha nella sua cassetta degli attrezzi pochi strumenti e poca tecnologia: quel medico che nella gerarchia delle specializzazioni mediche, almeno in USA, occupa il gradino più basso (anche in termini di remunerazione). Eppure, a dispetto di tutto ciò, è proprio lui che ti salva la vita.

Il ragionamento che fa Atul Gawande per giungere a tale conclusione è lungo e articolato ed è denso di riferimenti autobiografici, a partire dal motivo che lo ha portato a fare il chirurgo: perché voleva di diventare un “salvatore” di vite.

“Tendiamo ad avere una visione eroica della medicina, scrive Gawande. Dopo la seconda guerra mondiale, la penicillina e una serie di altri antibiotici sono riusciti a curare malattie batteriche che si pensava che solo Dio potesse eliminare. Nuovi vaccini hanno debellato la polio, la difterite, la rosolia e il morbillo. I chirurghi hanno aperto cuori, trapiantato organi e rimosso tumori prima inoperabili. Un’unica generazione ha assistito a una trasformazione nella cura delle malattie che nessuna generazione aveva conosciuto. E’ stato come scoprire che l’acqua può spegnere il fuoco. Di conseguenza, abbiamo costruito i nostri sistemi sanitari come se fossero un corpo dei vigili del fuoco. I medici sono diventati salvatori. (…) Sono stato attirato dalla medicina per la sua aura di eroismo, la sua capacità di risolvere problemi gravi, e ho scelto la chirurgia perché mi sembrava il vero modo di salvare vite umane. La chirurgia interveniva in maniera decisa in un momento critico della vita di una persona, con risultati chiari, calcolabili e spesso risolutivi. In confronto settori come quelli della medicina generale sembravano vaghi e incerti. Quante volte si riusciva veramente a ottenere una vittoria convincendo i pazienti a prendere medicine che funzionano in meno della metà dei casi, a perdere peso quando pochi ci riescono, a smettere di fumare, a risolvere i problemi dell’alcol e a tornare a farsi visitare ogni anno, cosa che comunque non sembra fare molta differenza? Volevo essere sicuro di fare un lavoro che contava sul serio. Perciò – conclude l’autore – ho scelto la chirurgia”.

Ma questa granitica convinzione è stata messa alla prova dalla considerazione che quel modello basato sull’incendio da spegnere al più presto corrispondeva sempre meno alla realtà della medicina contemporanea, dove prevalgono le malattie croniche e dove gli incendi (usati come metafora di malattia) possono essere solo contenuti, possibilmente prevenuti, e che comunque non sono di competenza dei chirurghi.

Questa granitica convinzione si è alla fine sgretolata quando Atul Gawande è entrato in contatto con un ambulatorio di medicina generale situato in quartiere popolare e multietnico di Boston, che si chiama Jamaica Plain. Nell’ambulatorio ci sono tre medici a tempo pieno, diversi altri part-time, tre infermieri specializzati, tre assistenti sociali, un’infermiera, un farmacista e un nutrizionista.

“Parlando con Asaf Bitton, uno dei medici del gruppo di Jamaica Plain, della differenza tra il suo lavoro e il mio, e ho commesso l’errore di dire che rispetto a lui io avevo più possibilità di fare una netta differenza nella vita delle persone. Non era per niente d’accordo. La medicina generale, mi ha risposto, è la branca della medicina che nel complesso ha gli effetti maggiori, perché riduce la mortalità, migliora la salute generale e abbassa i costi della sanità. Asaf è un esperto conosciuto in tutto il mondo, e nei giorni successivi ha mostrato le prove di cosa volesse dire. Mi ha fatto leggere alcuni studi dai quali emerge che i paesi dove c’è una percentuale più alta di medici generici c’è un minor tasso di mortalità, in particolare di mortalità infantile e di mortalità provocata da cause specifiche come le malattie cardiache e gli ictus”.

L’articolo non cita questi studi, ma questi si riferiscono senza alcun dubbio alle monumentali ricerche di Barbara Starfield, compianto professore di sanità pubblica  presso la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health, Baltimora (USA). Il paper (di quasi 50 pagine) “Contribution of Primary Care to Health Systems and Health” pubblicato nel 2005 su The Milbank Quarterly[1], è una sorta di summa delle numerosissime pubblicazioni di Starfield e collaboratori sul contributo delle cure primarie allo sviluppo dei sistemi sanitari e alla tutela della salute. Nell’abstract si legge:  “Vi sono chiare evidenze che le cure primarie aiutano a prevenire le malattie e a ridurre la mortalità. Le evidenze mostrano inoltre che le cure primarie (a differenza delle attività specialistiche) sono associate a una più equa distribuzione della salute nella popolazione”.

Già dal 1990 ricerche effettuate in Usa dimostravano che gli Stati che avevano una più alta densità di medici di famiglia (primary care physicians)  registravano migliori esiti di salute e minori tassi di mortalità per tutte le cause, in particolare per cardiopatie, cancro, ictus e mortalità infantile. In alcuni Stati come la Florida, l’incremento di un terzo nella presenza di medici di famiglia fu associata a una riduzione della mortalità per cancro della cervice uterina del 20%. In Inghilterra il tasso di mortalità per tutte le cause nella fascia di età 15-64 anni era più basso nelle zone con maggiore offerta di medici di famiglia (general practitioners, GP). Tornando in USA è stato rilevato che le popolazioni che sono servite da Community health centers (Centri di salute comunitari), dove la condizione per ricevere fondi pubblici è che siano basati su un’organizzazione di cure primarie, sono più sane – a parità di condizioni socio-economiche – di popolazioni assistite da altri tipi di cure. Le persone che si rivolgono ai Community health centers ricevono maggiori prestazioni preventive rispetto alla popolazione  generale, dal pap test alle vaccinazioni.

Nell’ambulatorio di Jamaica Plain si visitano complessivamente circa 14 mila pazienti l’anno. In qualsiasi momento c’è un medico o un infermiere che visita un paziente geriatrico, che stabilizza una persona che ha avuto una crisi d’asma, che sutura una ferita, che incide un ascesso, che aspira un fluido da un’articolazione affetta da gotta, che gestisce la crisi di qualcuno con disturbo bipolare, che effettua una biopsia su una lesione sospetta della pelle, che inserisce una spirale contraccettiva.

Il loro è una specie di grande magazzino della medicina. Ma Asaf insiste nel dire che non è così che i medici generici salvano vite umane. Dopotutto, per ogni situazione ci sono specialisti che hanno più esperienza e sono più capaci di verificare nel tempo quello che funziona. I medici generici non sono mai avvantaggiati rispetto a loro. Ma in qualche modo avere un medico che ti segue è meglio. Asaf ha cercato di spiegarmi il perché: ‘Non è una cosa  che facciamo, è tutto l’insieme’ ha detto. Non ho trovato soddisfacente questa spiegazione e ho continuato a fare domande a tutti quelli che incontravo nell’ambulatorio. Come era possibile che andare da uno di loro per qualsiasi problema fosse meglio che rivolgersi a uno specialista? Invariabilmente arrivavano tutti alla stessa conclusione. È una questione di rapporto’, dicevano. Ho cominciato a capire cosa volessero dire solo quando mi sono accorto che i dottori, gli infermieri e il personale che lavorava all’accoglienza chiamavano per nome quasi tutti i pazienti che entravano. Osservandolo mentre si occupava di un paziente che era arrivato con dolori addominali, Asaf non mi sembrava un dottore speciale. Ma quando mi sono reso conto che medico e paziente si conoscevano sul serio che l’uomo era stato lì tre mesi prima per un dolore alla schiena e sei mesi prima per un’influenza, ho cominciato a capire l’importanza di quella famigliarità. Tanto per cominciare, implicava che quando il paziente notava sintomi potenzialmente gravi andava subito dal medico, invece di rimandare fino a quando non fosse stato troppo tardi. Questo è ampiamente dimostrato. E’ emerso da vari studi che avere un medico che ci cura e ci vista regolarmente, una persona che ci conosce, influisce molto sulla nostra disponibilità a rivolgerci a lui in caso di sintomi gravi. Basterebbe questo spiegare il calo del tasso di mortalità. Guardando lavorare quei medici, ho cominciato capire che l’impegno di seguire i pazienti nel tempo li porta ad adottare un approccio alla soluzione dei problemi che è molto diverso da quello dei dottori che come me se ne occupano solo occasionalmente”. (…)

I medici di Jamaica Plain usano un metodo incrementale. Essi seguono la salute del paziente nel corso del tempo, anche dell’intera vita. Tutte le decisioni sono provvisorie e soggette a continui aggiustamenti. Affrontano un problema specifico di un paziente senza perdere di vista la sua vita personale, la sua storia familiare, la sua dieta, i suoi livelli di stress, e come tutte queste cose si intrecciano tra loro.  Questo significa che nella medicina il successo non è determinato da vittorie episodiche e momentanee, sebbene anche queste abbiano la loro importanza. E’ determinato da una serie di passaggi graduali che producono progressi duraturi.

Secondo i sostenitori del metodo incrementale dovremmo guardare un po’ più lontano, dovremmo credere di poter individuare i problemi prima che si verifichino o poterli ridurre, ritardare o eliminare del tutto con un impegno regolare nel lungo periodo.  Ma dovremmo anche accettare il fatto che non saranno mai in grado di prevedere o prevenire tutti i problemi. Il loro è un prodotto difficile da vendere. Il loro contributo è meno visibile di quello dei salvatori, ma anche più ambizioso. In pratica sostengono di poter prevedere e condizionare il futuro. E vogliono convincerci a investire su questa idea”.

Il lungo articolo di Atul Gawande si conclude con un’altra nota autobiografica. Ricorda che suo figlio Walker è nato con un difetto cardiaco e nei primi giorni di vita ha avuto bisogno della chirurgia che ha chiuso i buchi del suo cuore e gli ha dato un nuovo arco aortico. Ma da quel momento in poi ha avuto bisogno della medicina incrementale che lo ha aiutato a superare molte difficoltà, anche scolastiche. “I chirurghi lo hanno salvato, ma senza la medicina incrementale non avrebbe mai avuto la vita lunga e piena che poteva avere”, per questo “dobbiamo spostare l’attenzione dalla medicina eroica a quella che s’interessa delle persone per tutta la vita”.

Bibliografia

  1. Starfield B,  Shi L, Macinko J. Contribution of Primary Care to Health Systems and Health. The Milbank Quarterly 2005;83(3):457–502

Gavino Maciocco

27/11/2017  www.saluteinternazionale.info

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