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Il plagio in sanità è malattia terminale

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Quando si parla di plagio, s’intende un’azione di copiatura, imitazione e riproduzione di pensieri e scritti di altri, a volte con la puerile intenzione di farsi contaminare da idee che vorremmo fare nostre senza fare lo sforzo della produzione indipendente, spesso però ne facciamo un consapevole utilizzo finalizzato a far migliorare i nostri pensieri. Si chiama criptomnesia e indica un crimine letterario di appropriazione d’idee altrui e che ci affascina fino a convincerci di averne la paternità o perlomeno la compartecipazione.

Quindi possiamo considerare il plagio come una malattia terminale che aggredisce le persone che hanno difficoltà a rappresentarsi con una soggettività sociale e professionale e che delegano a pensieri, filosofie e protagonismo altrui il proprio destino. Nulla di grave se questa delega comporta ricadute solo sui deleganti, ognuno dovrebbe assumersi le responsabilità e “pagare” per i propri atti, ma diventa gravissima e produttrice di sofferenze se ricadono, com’è ovvio nei processi di rappresentanza politica, sindacale e professionale, su tutti o comunque sulla grossa parte dei nostri simili.

Questa delega a rappresentarci tramite pensieri indotti dalla comunicazione imperante, trova la sua più crudele rappresentazione nel mondo del lavoro di cura e assistenza quando le professioni coinvolte eludono la propria missione sociale contribuendo di fatto ai processi di privatizzazione in atto, ma addebitano al “sistema” la rinuncia di milioni di persone a curarsi adeguatamente. Come di fatto si certifica che la soluzione del problema stia nell’affidarsi al sistema assicurativo e ai fondi sanitari integrativi, non chiarendo che le professioni si stanno adoperando a una propria copertura egoista trasformandosi in corporazioni alle quali il cittadino deve sottostare subendone anche i conflitti professionali.

E’ un quadro picassiano dello stato attuale della sanità che mette sempre più in scacco il destino del servizio sanitario nazionale e del diritto alla salute lasciando la parte non corporativa dei lavoratori e i cittadini, privi di una rappresentanza dei loro bisogni e delle loro sofferenze. Quest’anno il Servizio sanitario nazionale compie quarant’anni, quindi giovane nonostante abbia subito nella sua vita attacchi virali dall’esterno, ma anche dall’interno dalle proprie articolazioni, boicottaggi e revisioni che ne hanno peggiorato la funzionalità ed efficacia. Da oltre dieci anni è sempre più spudoratamente aggredito, anche da chi dovrebbe salvaguardarlo, da tagli e svendite di pezzi ai privati e sventrato dall’interno a tal punto che oggi, tanto da dare un’idea, mancano oltre 80mila operatori tra infermieri e oss, costringendo i sopravvissuti anche a turni di 16 ore che mettono a rischio la sicurezza di malati e operatori.

Da quando è cominciata la truffa dei tagli, abbiamo 70 mila posti letto in meno, 175 ospedali chiusi, macchinari nell’83 per cento dei casi obsoleti. Considerando i dati del Consiglio dei Ministri nel Documento di economia e finanza, nel 2018 il rapporto tra la spesa sanitaria e la ricchezza prodotta nel Paese, cioè il Pil, scenderà a quota 6,5 per cento, soglia limite indicata dall’Oms. La conseguenza? E’ sempre più difficile, nonostante gli sforzi di medici e infermieri, garantire un’assistenza continuativa e di qualità, a volte neppure l’accesso alle cure, con una conseguente riduzione dell’aspettativa di vita.

La prospettiva che vogliono regalarci non è rosea: l’emergenza continuerà nel 2019, quando si scenderà al 6,4 per cento, per poi sprofondare al 6,3 nel 2020. Mentre gli anziani non autosufficienti, che oggi sono 2,8 milioni e tra 10 anni saranno oltre 3 milioni e mezzo. E in mezzo a questa desertificazione nazionale abbiamo il paradosso: il Sud, più povero e con meno numero di strutture e storica inefficienza paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi.

Di fronte a questo stato di cose che senso ha non riflettere per riprendere una visione comune tra le professioni di cura e assistenza e non lottare, archiviando l’accentuazione delle divisioni corporative come la prospettiva di un contratto separato degli infermieri, contro la fonte di tutti i mali, il definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale? Il definanziamento ha colpito al cuore il funzionamento della sanità con il blocco del turnover e dei contratti dei dipendenti, la dilatazione del lavoro precario e l’esternalizzazione dei servizi, bloccando le arterie che mettono in funzione la disponibilità e la qualità dei servizi per i cittadini. Nel frattempo, e altrimenti non sarebbe potuto avvenire, c’è stato il ricorso sempre più numeroso dei pazienti al settore privato, già abbondantemente finanziato dallo Stato e dalle Regioni con le convenzioni, in ovvia competizione col settore pubblico sia sui tempi di attesa che sulle tariffe delle prestazioni.

Sono argomenti validi per riprendere il capo di un filo comune per una visione globale degli interessi come operatori e quegli utenti che oggi contribuiamo a mutarne la definizione di paziente, trasformandola in “consumatore”? E in questo percorso deviante dimentichiamo anche i contesti sociali che aggrediscono la salute dei cittadini e ci fanno tornare indietro di molti decenni, a quando la sanità, intesa come proiezione di salute, era appannaggio delle classi ricche?

Che oggi la sanità sta tornando “di classe” non lo diciamo solo più noi comunisti, colpevolmente a masochisticamente inascoltati da decenni dalle stesse fasce popolari, lo dice anche, e forse come autocritica, l’Osservatorio nazionale sulla salute nelle Regioni italiane che ha approfondito il tema delle disuguaglianze sociali nella salute. In sostanza, certifica ovvietà sociali e frutto di politiche di guerra dei governi contro la maggioranza dei cittadini italiani: luogo di residenza, livello d’istruzione, reddito e status sociale incidono sullo stato di salute e sull’aspettativa di vita. Chi ha titolo di studio più basso e livello di reddito inferiore soffre in misura maggiore di obesità.

Di cosa vogliamo discutere, invece delle opinioni e pratiche egoistiche che portano a un maggiore divario tra i pochi protetti e i molti che senza mezzi di salvaguardia delle proprie condizioni si riversano mal sopportati nei pronto soccorso?

Pensiamo a una “sanità d’iniziativa” che riorganizzi il nostro lavoro a partire da una ripresa di protagonismo unitario di tutte le figure sanitarie, tecniche e amministrative, senza soffocare le prerogative e peculiarità delle singole professioni, la scala d’incidenza e responsabilità nell’economia organizzativa va rispettata nella condivisione del principio che ognuno deve avere un ruolo ben definito nel percorso dell’obiettivo comune del funzionamento del Servizio Sanitario Pubblico, dal quale tutti ne possiamo trarne uno stabile “profitto” di soddisfacimento delle nostre condizioni: di gratificazione lavorativa e stipendiale noi operatori e di diritto alla cura e alla prevenzione i cittadini.

Dobbiamo sapere che il corporativismo delle professioni massimizza solo nel contingente i benefit materiali. Non dobbiamo cadere nel conformismo che rafforza, facendoci complici, solo l’autoritarismo aziendale che ci taglia le corde vocali sui danni che compiono contro il nostro lavoro e la salute dei cittadini. Abbiamo bisogno di protagonismo come operatori sanitari, è questione di vita o di morte della nostra soggettività di persone pensanti. Si può fare, senza plagiare casuali rappresentanti dei nostri interessi sociali che questi nemmeno conoscono nel concreto.

Franco Cilenti

Editoriale numero di marzo 2018 www.lavoroesalute.org

 

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