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Uomini e donne per settimane hanno contribuito alla tenuta sociale ed economica del Paese, rischiando tantissimo in termini di salute e sicurezza. Molti, però, sono stati dimenticati

Il prezzo pagato dal lavoro nei dati dell’Inail

Pubblicato da franco.cilenti

Una disamina  imprescindibile e utile, ma con qualche avvertenza preliminare per la lettura, è rappresentata dal report dell’Istituto sugli accadimenti relativi ai contagi determinati dalla pandemia dal suo esordio al settembre 2020, diffusa nell’ultima settimana di ottobre. La premessa che è doveroso fare (come del resto spiegato dall’ente) è che non si tratta di casi riconosciuti e/o già eventualmente indennizzati, ma della descrizione delle comunicazioni giunte da tutti i contesti regionali fino al momento indicato.

Un primo commento a questa enunciazione è, ovviamente, che il consolidamento delle evidenze avverrà nel tempo occorrente ai necessari riscontri, ma che questi saranno effettuati a legislazione vigente e nel solco della conseguente regolazione emanata fin dai mesi di marzo e aprile. La regolamentazione alla quale facciamo riferimento sono le circolari 13 e 22 dello stesso Istituto (oltre ai vari provvedimenti emergenziali del governo), che fissano i primi criteri interpretativi per le procedure di riconoscimento e tutela per lavoratori e lavoratrici coinvolti.

Permangono relativamente a questi atti dubbi interpretativi e – a nostro avviso – disparità di trattamento francamente poco sostenibili, in termini di individuazione e trattamento dei casi potenzialmente ammessi, seppur in premessa l’Inail dichiari che le categorie lavorative meritevoli di “presunzione semplice” (ossia quelle con un iter di riconoscimento semplificato e che non debbono assumersi l’onere della prova dell’origine lavorativa del contagio) non siano solo quelle elencate nelle casistiche espressamente delineate nei predetti atti (in primis quelle dell’ambito sanitario e sociale), ma più ampie. Peccato, però, che nella circolare successiva si rafforzi il concetto (anche se con una formulazione forse poco accurata) che relativamente a ogni accadimento che esuli dalle casistiche delle quali più sopra, si considererà come indispensabile la prova addotta dai ricorrenti.

È forse inutile ricordare come nel nostro Paese ci siano state intere categorie che hanno continuato ad assicurare, anche nei periodi più bui della prima ondata epidemica, i beni e i servizi necessari alla tenuta della comunità nazionale e abbiano fatto da argine contro la disgregazione sociale prodotta dalla pandemia. Un esempio? I conducenti dei mezzi pubblici, che pur rappresentando una quota superiore al 4% nelle statistiche fino a settembre, a rigor di norma non troverebbero posto fra i riconoscimenti connotati dalla categoria della “presunzione semplice”. Ancor di più, non sono espressamente citati dal’Istituto e dal governo i lavoratori delle aziende le cui lavorazioni non sono state indicate come “essenziali”, ma che hanno ricevuto dai prefetti l’autorizzazione in deroga a proseguire la produzione: le dimensioni di questo fenomeno non sono inoltre note nell’aspetto quantitativo.

Le 54 mila comunicazioni infortunistiche, dettagliate anche con l’indicazione di 319 casi mortali, rappresentano ben il 17% dei casi totali di contagio rilevati dal’Iss alla stessa data, evidenziando come il mondo del lavoro abbia pagato con un tributo pesante in termini sanitari (oltre che sociali a più ampio raggio) la propria abnegazione e il senso di responsabilità verso il Paese. Il 70% dei contagiati sono di sesso femminile (a riprova della sussistenza di una dimensione di genere nella pandemia come molti hanno osservato), mentre la stragrande parte dei decessi ha riguardato uomini.

L’età media dei lavoratori e delle lavoratrici coinvolte varia fra i 46 e i 47 anni, molto più bassa dell’età media dei contagi “generali” evidenziati dall’Iss, che viene attestata a 56. Il 16,2% dei coinvolti sono persone di origine straniera (un’altra dimensione cui occorre prestare attenzione e ampliare l’analisi); il 99% degli accadimenti totali si riferisce alla gestione “industria e servizi”, il poco restante alle altre, includendo il conto per la pubblica amministrazione. L’età media delle persone decedute in seguito al contagio da Covid-19 è più alta, attestandosi sui 60 anni, dei quali l’80% sono italiani e il 10,7 per cento persone di origine straniera.

L’’analisi per professione dell’infortunato evidenzia come circa un terzo dei decessi riguardi personale sanitario e socio-assistenziale. Nel dettaglio, le categorie più colpite dai decessi sono quelle dei tecnici della salute (il 58% sono infermieri, di cui metà donne), con il 9,5% dei casi codificati, e dei medici con il 6,9% (uno su dieci è donna).  A seguire gli operatori socio-sanitari con il 5,1% (ugualmente distribuiti per genere), il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliari, portantini, barellieri) con il 3,6%, gli operatori socio-assistenziali (due su tre sono donne) con il 3,3%, infine gli specialisti nelle scienze della vita (tossicologi e farmacologi) con il 2,2%. Le restanti categorie professionali coinvolte riguardano gli impiegati amministrativi con l’11,6% (nove su dieci sono uomini), gli addetti all’autotrasporto con il 6,2%, gli addetti alle vendite con il 2,9%, i direttori, dirigenti ed equiparati dell’amministrazione pubblica e nei servizi di sanità, istruzione e ricerca con il 2,5%, i dipendenti nelle attività di ristorazione, gli addetti ai servizi di sicurezza, vigilanza e custodia e gli artigiani edili, tutti con il 2,2% ciascuno.

Riguardo invece ai casi non mortali, l’analisi per professione dell’infortunato evidenzia la categoria dei tecnici della salute come quella più coinvolta da contagi con il 39,2% delle denunce (più di tre casi su quattro sono donne), oltre l’83% delle quali relative a infermieri. Seguono gli operatori socio-sanitari con il 20,6% (l’81,4% sono donne), i medici con il 10,1%, gli operatori socio-assistenziali con l’8,9% (l’84,9% donne) e il personale non qualificato nei servizi sanitari (ausiliario, portantino, barelliere) con il 4,7%. Il restante personale coinvolto riguarda, tra le prime categorie professionali, impiegati amministrativi (3,2%), addetti ai servizi di pulizia (1,9%) e dirigenti sanitari (1,0%).

Sfuggono ancora alle statistiche di precisione le dimensioni dei settori del commercio e del terziario, entrambi importantissimi e decisivi nei mesi trascorsi, che forse soffrono di un fenomeno di sottodenuncia a causa della maggiore precarietà o discontinuità occupazionale. Dimensioni importanti, delle quali come sindacato dobbiamo occuparci nelle attuali condizioni, che continuano e continueranno a medio termine a non essere facili.

Sebastiano Calleri

Responsabile nazionale Cgil della Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

6/11/2020 https://www.collettiva.it

Tags: cgil Contagi sul lavoro Fiom-Cgil inail lavoro sicuro lockdown malattie professionali Morti covid Pandemia precariato in sanità precarietà Sebastiano Calleri sicurezza sul lavoro tecnici della salute
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Autore: franco.cilenti
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