Il pubblico non deve funzionare ma il privato non è certo da esempio!

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Molti lo avranno dimenticato ma il giuslavorista Pietro Ichino viene dalla Cgil, anzi è proprio da quelle fila che inizia la sua attività di studio anche se, dagli articoli scritti e pubblicati negli ultimi 10 o 15 anni, tutto potremmo pensare eccetto che ad una militanza nelle fila sindacale.

Il giuslavorista Ichino è tra i principali cantori della precarietà ma anche tra i principali protagonisti della campagna contro i cosiddetti fannulloni nel pubblico impiego, nonché ideatore di un ente inutile, la Civit (Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche), nel frattempo abolita e oggi sostituita , parzialmente, dall’Anac senza mai avere fornito una indicazione utile a costruire nel pubblico impiego un sistema di valutazione degno di questo nome (ammesso e non concesso che la performance possa avere una qualche utilità).

Ciclicamente dalle pagine di giornali e riviste On line riprende la campagna di Ichino mirante a ridurre le tutele individuali e collettive residue, a denunciare gli abusi dei sindacati e dei lavoratori che in realtà sono solo diritti e tali dovremmo considerarli.

I dirigenti hanno sicuramente responsabilità nel mancato funzionamento dei servizi pubblici ma se proprio bisogna partire siamo certi non lo si debba fare dalla politica?

La prima domanda da porsi è molto semplice: i decreti Madia hanno recato benefici alla pubblica amministrazione?
La nostra risposta è negativa

Dirigenti a tempo determinato non saranno ostaggio della politica piu’ di quelli di ruolo?
E soprattutto ha senso parlare di pubblica amministrazione come un corpo unico quando i 3 milioni di dipendenti sono suddivisi in piu’ comparti e contratti?
E siamo certi che un soggetto privato oggi potrebbe svolgere tutte le funzioni proprie dell’ente pubblico?

La risposta è ovviamente negativa perché la tendenza del privato è subentrare nella gestione di servizi dai quali possa trarre un ritorno economico, difficile ipotizzare che cio’ possa avvenire ovunque.

Ma le regole del privato possono essere estese al pubblico e viceversa? Anche su questo punto bisognerebbe aprire una lunga considerazione perché i fenomeni di corruzione si trovano tanto nel pubblico che nel privato, parliamo di corrotti e di corruttori.

Oggi esiste un sistema di regole per punire e colpire con severità alcuni reati, ma solo alcuni perché se esistono normative per il licenziamento rapido in caso di fraudolente timbrature del cartellino non altrettanto possiamo dire per molti altri reati.

Non stiamo a parlare di un sistema repressivo ma del fatto che i vari governi non hanno mai perseguito gli spezzatini delle gare e degli appalti, il subappalto, gli affidamenti diretti laddove sarebbe stato possibile bandire una gara pubblica e trasparente.

A nessuno è mai venuto in mente di far verificare alla Corte dei Conti la convenienza di alcune privatizzazioni scegliendo anche di perseguire i responsabili di questi processi che hanno accresciuto la spesa pubblica e le tasse dei cittadini.

Prendersela con fenomeni di mal costume come la fraudolenta timbratura del cartellino è fin troppo semplice, è giusto non lasciare impuniti comportamenti che si ripercuotono negativamente su tutti i lavoratori pubblici ma pensiamo che molti altri fenomeni corruttivi meriterebbero altrettanta passione moralizzatrice.

Ma leggere che lo stato dovrebbe abdicare a favore dei privati perché incapace di affermare una cultura delle regole è veramente troppo, soprattutto quando la predica arriva dal Pd che ha voluto smantellare le Province anticipando la riforma della Costituzione e, dopo essere stato bocciato il referendum del 4 dicembre scorso, non hanno avuto neppure il buon senso di cancellare la Legge Del Rio

Il pubblico non funziona ma il privato non è certo da esempio. Leggendo che Marchionne intende investire milioni di euro negli stabilimenti in Usa (per evitare ripercussioni dalla amministrazione Trump) ricorda che uno stato debole permette ai privati di delocalizzare la produzione dove il lavoro costa meno, dove ci sono finanziamenti statali a pioggia, dove il diritto del lavoro non esiste o dove si possa facilmente e impunemente aggirare le normative ambientali, insomma uno stato debole è l’anticamera della massimizzazione dei profitti di pochi.

Anni di chiacchere sulla valutazione e sulla trasparenza non hanno accresciuto i servizi e la facoltà decisionale , e di controllo dei cittadini, anni di chiacchere sulla inaffidabilità del pubblico sono stati funzionali alle privatizzazioni e a smantellare diritti e tutele per i lavoratori e le lavoratrici.

Che dire poi della trasparenza e dell’accesso ai dati? In Italia la Trasparenza arriva con anni di ritardo ma non sono previste sanzioni pecuniarie e amministrative per chi non conceda l’accesso ai dati richiesti. E poi, in nome della tutela economica e degli interessi dello stato, sarà possibile salvarsi in calcio d’angolo e non rispondere ad alcuna richiesta di trasparenza, insomma stabilita la norma arrivano le eccezioni che l’aggirano.

Senza articolo 18, con il blocco dei contratti e la perdita di potere di acquisto non è ripartita l’economia italiana, si sono solo accresciuti profitti e introiti derivanti dalle speculazioni finanziarie.

C’è quindi bisogno di ben altro che della retorica valutativa nostalgica della ricetta liberista e della supremazia del privato.
E soprattutto non abbiamo bisogno dei cantori di quella retorica valutativa che negli anni ha solo prodotto danni ai servizi pubblici, alla loro efficienza e alle buste paga dei lavoratori.
Non ce ne voglia il prof Ichino, ma dei suoi consigli preferiamo fare a meno.

Federico Giusti

9/1/2017 www.controlacrisi.org

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