Il razzismo dei buoni (e delle buone)

Conosciamo il copione dei giochi da bambini: ci sono i buoni e i cattivi. Si mescolano, si rincorrono, si combattono – ma in fondo hanno sempre bisogno gli uni degli altri. Uno schema simile si applica spesso alla retorica politica. Persino in un paese profondamente cinico come l’Italia di oggi si avverte la necessità occasionale di prestare tributo alla purezza di qualche benefattore almeno apparentemente disinteressato. Più la cifra dei cattivi pare aumentare, poi, più occorre procedere al reclutamento d’ufficio nelle fila dei buoni – in mezzo alle quali siamo soliti pensarci. Soprattutto se ci sentiamo parte della categoria, tuttavia, dovremmo sottoporla a un’analisi spietata – così perlomeno consigliava di fare il compianto Luca Rastello, il cui ultimo romanzo si intitola appunto I buoni. «Ho voluto raccontare – scriveva Rastello a proposito del libro – un male che è ovunque e che io per primo porto dentro. […] Credo che una condizione decisiva per scrivere qualcosa di interessante, oltre che di moralmente sorvegliato, sia partire sempre dall’analisi impietosa di sé stesso».

L’alternativa al qualunquismo che vorrebbe tutti ugualmente corrotti non è dunque la canonizzazione sentimentale della bontà, ma l’esercizio incessante (e doloroso) dell’(auto)critica. Se i buoni e i cattivi vivono non di rado nell’altrove mitico delle fiabe, dalle nostre parti le cose sono più complicate e hanno a che fare con la capacità di abitare la contraddizione. «Non si dà vita vera nella falsa» annotava Adorno nei Minima Moralia. Al di là delle implicazioni, più o meno dibattute, della dichiarazione nel suo contesto specifico, la frase rimanda a una situazione assolutamente comune: è possibile agire in modo politicamente radicale all’interno di un contesto che non lo è? Si può essere parti virtuose di un intero progettato per scoraggiare la virtù? In un’intervista del 1971 Franco Fortini correggeva Adorno in modo poco filologico ma lucidissimo: «Non si dà vita vera se non nella falsa». Detto altrimenti, finché non saranno disponibili alternative macroscopiche, di sistema, l’unico luogo in cui tentare di materializzare l’alternativa, producendo contraddizioni abitabili, è il sistema stesso. Non si tratta di opporre i buoni ai cattivi, ma di interrogare la troppa facilità con cui ci immedesimiamo nei primi. 

Parto da queste premesse apparentemente astratte perché mi sembrano utili per inquadrare una vicenda recente che ci mostra come, al di là dei lodevoli sforzi di segno opposto, la mitologia  dei buoni sia lontana dall’essere svanita dalla sfera pubblica. Negli ultimi giorni sono finite all’attenzione dei media nazionali due vignette razziste presenti in altrettanti libri di testo destinati alle scuole elementari, rispettivamente uno per le classi seconde e l’altro per le prime. In un’immagine un bambino nero dichiara: «Quest’anno io vuole imparare italiano bene». La lingua è da secoli a monte di rivendicazioni in chiave nazionalista o razzista – poco importa che sia notoriamente impossibile fondare le identità nazionali su un qualche preteso originalismo linguistico, così come su qualunque altro fattore stabile. Gli stereotipi razzisti continuano ad ancorarsi alla conoscenza linguistica anche in un contesto, come il nostro, nel quale non mancano persone nere la cui prima lingua è l’italiano, persone nere che hanno studiato in scuole italiane e lavorano con la lingua italiana, scrittrici nere e scrittori neri che sono ormai da decenni parte integrante della letteratura italiana. Del resto, in un contesto di jus sangunis appena mitigato nel quale l’ottenimento della cittadinanza in modi diversi dalla nascita è ancora oggetto di incredibili lungaggini burocratiche e dinieghi più o meno arbitrari, non mancano cittadini italiani che non masticano affatto l’italiano (come tanti italoamericani figli o nipoti di emigrati) o non lo considerano la propria lingua d’elezione (è il caso di alcune persone anziane, di quelle che hanno avuto scarse possibilità di scolarizzazione e/o vivono in aree relativamente isolate, per cui il riferimento linguistico principale è individuato nel «dialetto» locale). L’indagine che in questi giorni ha visto al centro il celebre calciatore Luis Suárez non fa che sottolineare l’assurdità del requisito linguistico, così come la facilità con la quale chi è dotato di mezzi economici notevoli può trovare complicità per scavalcarlo.

La seconda immagine ritrae un bambino bianco che chiede a una coetanea nera: «Sei sporca o sei tutta nera?», riattivando così uno dei tropi della bianchezza – vale a dire il suo immaginario «igienico». Come mostrato in dettaglio da Cristina Lombardi-Diop, nel secondo dopoguerra l’oblio delle colpe del colonialismo italiano si affiancò a una normalizzazione quasi ridanciana di parte del suo portato razzializzante – basti pensare alla figura di Calimero, il «pulcino nero» che non è veramente tale, ma solo in quanto sporco (e pertanto pronto a venire riscattato nella sua bianchezza dal detersivo Ava, per pubblicizzare il quale Calimero venne ideato). Del resto, il rimando all’igiene resta anche a livello lessicale in espressioni d’uso comune («pulizia etnica») o in dispositivi implicitamente razzializzanti come quello del decoro urbano. È precisamente l’apparente neutralità del riferimento alla pulizia rispetto alle invocazioni esplicite della «razza» che rende efficace la mobilitazione discriminatoria del decoro, scrive Carmen Pisanello:      

La diffusione della nozione di decoro e l’immaginario di pulizia e ordine che porta con sé, è funzionale a tutti quegli atteggiamenti implicitamente razzisti (il famoso «non sono razzista, ma») che trovano la loro giustificazione nella mancata comprensione della realtà esistenziale dell’Altro.

      Nei casi in esame, comunque,  il ricorso a retoriche tipicamente razziste risulta largamente inconsapevole: per quanto maldestra possa essere l’operazione nel suo complesso, è evidente che lo scopo delle illustrazioni incriminate fosse quello di favorire, anziché scoraggiare, una mentalità inclusiva ed egualitaria – la bambina dalle «buffe treccine» non è davvero sporca, il bimbo nero non è davvero destinato a non conoscere bene l’italiano, e così via. Parte dell’indignazione deriva probabilmente anche dalla mancata considerazione dei dibattiti sviluppatisi tra studiose e studiosi negli ultimi decenni riguardo la trattazione insufficiente o inappropriata che temi come il colonialismo e il razzismo italiani hanno ricevuto e continuano a ricevere nei manuali di storia in uso nelle nostre scuole – sono ormai tristemente classici, in questo senso, il saggio di Grazia De Michele e il volume curato da Nicola Labanca.  

In maniera più insidiosa, è emerso che l’autrice di uno dei due testi contenenti le vignette (anche se non per forza dell’immagine in sé), Lucia Tumiati, è un’ebrea italiana perseguitata durante il periodo delle leggi razziali, ex staffetta partigiana e vincitrice di numerosi premi per i suoi libri per l’infanzia. Qui l’indignazione prêt-à-porter di tanta opinione pubblica entra in cortocircuito: com’è possibile che una figura con quei nobili trascorsi possa non essersi avveduta del razzismo implicito nell’illustrazione? Si deve essere trattato certamente di una svista, del fatto che all’uscita della prima edizione del libro negli anni Novanta si era meno sensibili a certe tematiche – per farla breve di un moto di indignazione da dimenticare in fretta. Non potrebbe essere altrimenti, dal momento che nel senso comune il razzismo è ancora visto come una colpa individuale, un esempio di maleducazione o mancato rispetto per il prossimo, o al massimo un vizio un po’ vergognoso. In tale definizione possono rientrare manifestazioni razzializzanti auto-evidenti e intenzionali, o al più malcelate – di quelle a cui una parte pure tutt’altro che irrilevante della politica e dell’informazione italiane ci hanno abituato in questi anni. Sempre, in ogni caso, esternazioni e atti compiuti a titolo individuale ed estranee all’universo valoriale dei «buoni», dei moderati, dei bene educati. All’interno di questa cornice, improntata a un antirazzismo al contempo moralistico e depoliticizzante da delatori della domenica, l’idea di poter puntare il dito contro un’anziana signora scampata alle leggi razziali desta ovviamente sconcerto e appare inopportuna. Un caso molto particolare, potremmo dire, un’eccezione o più probabilmente un semplice malinteso.

Ribaltando questa prospettiva perbenistica, vorrei sostenere che, se Tumiati avesse davvero realizzato la vignetta, ci troveremmo di fronte a un esempio perfetto per riflettere su alcune delle forme più insidiose nelle quali il razzismo può comparire. Il razzismo sornione e a tratti oggi persino rivendicato, infatti, trova il proprio brodo di coltura in istanze di razzializzazione assai più implicite e raffinate, preconsce o qualche volta inconsce, in un humus culturale maleodorante che può talora compromettere persino le autorappresentazioni delle stesse persone razzializzate – tramite una dinamica di interiorizzazione dell’oppressione di cui parlava già Fanon. 

Non sarà superfluo ribadire, allora, che il razzismo – che si manifesti esplicitamente o meno – è un fenomeno strutturale. Questo implica, fra l’altro, il fatto che esso si protenda ben al di là della dimensione individuale, abbracciando quella delle istituzioni. Stockely Carmichael, tra i leader del Black Power e ideatore, assieme a Charles Hamilton, del concetto di razzismo istituzionale, affermava in celebre discorso:      

Non parlo dell’individuo perché ho l’impressione che, ogni volta che presenti alla società bianca occidentale delle domande sui problemi razziali, ogni bianco ti dica: «Be’, non prendertela con me, sono semplicemente una persona e davvero non mi ritrovo in quelle cose. Anzi non ho niente contro di te, […] tu sei buono quanto me – quasi». 

Ridurre tutto a singoli comportamenti apre la porta a facili negazioni di responsabilità («Certo, viviamo in un paese razzista, ma non guardare me, io non c’entro»), all’atomismo («Non esiste il razzismo, esistono i razzisti»), alla derubricazione della violenza simbolica a questione di galateo («Quante storie per una frase, lo sai che i veri razzisti sono altri, quelli che sparano ai neri!»). Se questo fosse corretto, esisterebbe un fuori rispetto al razzismo, un altrove immacolato dal quale criticarlo – il luogo da cui i buoni sembrano sempre emergere come per magia. Eppure quel fuori non esiste: tutte e tutti siamo stati socializzati in un mondo già ricco di riferimenti razzializzanti, nel quale (almeno alcune volte) l’alterità è vista come una minaccia e l’identità alla stregua di una proprietà da difendere dagli intrusi. Rendersene conto implica che l’antirazzismo non può essere mai una pratica di igienica presa di distanze, ma opera al contrario nel fango dell’oppressione, tra la melma dei pregiudizi – l’antirazzismo è il bagliore della vita vera che ogni tanto riluce nell’oscurità della falsa. 

Cedere inavvertitamente al pensiero razzista, allora, non vuol dire uscire dal nitore della società dei liberi ed eguali per accedere al polveroso ripostiglio della discriminazione: il razzismo è precisamente ciò che (in modi e con intensità di volta in volta particolari) la società si aspetta da noi. Resistergli richiede una sorta di dissociazione, una separazione non esteriore ma interna al proprio sé che è più laboriosa che mai proprio nel caso di quante e quanti sono oggetto di razzializzazione – tra le tante ingiustizie prodotte dal razzismo ce n’è infatti una di carattere affettivo, che ha a che fare con l’affermazione della propria dignità in un contesto che pure continuamente la nega. L’idea di riuscire sempre in quest’opera di resistenza, specie per chi è bianco, rappresenta chiaramente una tentazione narcisistica – il che non fa che rendere più stringente il dovere di provarci lo stesso, in continuazione. Il fallimento in buona fede, più che stigmatizzato secondo una logica immunitaria («Stai portando i tuoi preconcetti razzisti nel nostro altrove depurato dal razzismo»), andrebbe preso come l’oggetto appropriato di una (auto)critica costante e senza quartiere che non ha per bersaglio la singola individualità («Hai fatto una vignetta razzista e perciò sei una persona razzista»), ma l’inevitabile politicità delle azioni («Comprendo le tue buone intenzioni, ma quella tua vignetta è razzista e nella prossima edizione del libro dovresti toglierla»). 

Tutto questo non è per dire che non esistano individui razzisti – che agiscono scientemente la razzializzazione e il cui comportamento contribuisce in modo regolare e programmatico all’oppressione per tramite della razza. Sono molti e in aumento. E tuttavia occorre tracciare una linea di demarcazione proprio per smascherarne la strategia: quando politici o opinion makers più o meno apertamente razzisti ci dicono che in fondo siamo come loro, che anche noi sotto sotto ogni tanto un’uscita mentale contro gli immigrati la facciamo, giocano esattamente sulla presenza di una critica antirazzista superficiale e farisaica, che pensa di additare l’untore quando in realtà – per usare una metafora di moda – siamo tutte e tutti portatori (almeno) asintomatici della razzializzazione. I sedicenti buoni tentano di opporsi al razzismo aggressivo di oggi millantando una superiorità morale che la loro fallibilità finirebbe con il tradire inevitabilmente anche nell’ipotesi remota che la loro ipocrisia non lo facesse per prima. La superiorità dell’antirazzismo sul razzismo non è morale, ma politica e in un certo senso estetica, poiché chiama in causa l’aspirazione a una diversa forma di vita. Lo ha scritto bene Frédéric Gros a proposito di quella che definisce protesta lirica, che 

comporta la rivendicazione di un elitismo e di un aristocraticismo che non si fonderanno sul disprezzo del popolo, sul rifiuto della cultura popolare, ma su un’esigenza di elevazione. Il che significa rifiuto del massiccio e continuo ribassismo culturale operato dai profittatori della debolezza, della viltà, della frustrazione e della stessa umiltà, cioè da tutti coloro che mantengono e nutrono il conformismo per il succo di obbedienza che secerne, sedativo delle coscienze.

Non siamo migliori perché immuni dalla complicità con l’oppressione – lo siamo perché con essa accettiamo di fare i conti senza invocare giubilei e amnistie. Credo sia allora opportuno concludere con una breve riflessione, necessariamente ellittica, su un’intellettuale del secolo scorso nella cui figura lotta al razzismo e parziali cedimenti alla sua logica si trovano indissolubilmente legati – Hannah Arendt. Arendt era un’ebrea tedesca e per tale contingenza subì occasionalmente delle discriminazioni sin dagli anni della scuola. Da giovane adulta assistette all’ascesa del nazismo e dovette scappare dalla Germania per rifugiarsi in Francia – paese dove, allo scoppiare della guerra, venne rinchiusa in un campo d’internamento a Gurs come persona proveniente da uno stato ostile. All’avvento del regime di Vichy, Arendt corse il rischio di provare a fuggire – prima da amici in Francia e poi negli Stati uniti, dove si sarebbe stabilita per il resto della propria vita. Fu tra le poche donne detenute a Gurs a sopravvivere alla fine del conflitto. In quella che resta per molti versi la sua opera più impressionante, Le origini del totalitarismo, Arendt fu tra le poche intellettuali europee a individuare nell’imperialismo e nel razzismo due radici fondamentali del totalitarismo stesso. Tuttavia, in quel testo e in diversi altri, il passato coloniale e il presente razzista degli Stati uniti finivano per venire minimizzati – e quando Arendt affrontò direttamente il tema della desegregazione e dell’antirazzismo nel paese che l’aveva adottata arrivò a formulare affermazioni di chiara impronta razzista

Che un’ebrea le cui sferzanti parole contro il razzismo venivano lette e      insegnate nelle scuole e nelle università di mezzo mondo potesse aver indugiato alle volte in posizioni razzializzanti nei confronti degli afroamericani appariva certamente scandaloso, un lato oscuro che per decenni gli studiosi della sua produzione avrebbero relegato alle note a piè di pagina e a qualche rapida minimizzazione. Soltanto nel 2014 sarebbe arrivata una riflessione complessiva (e assai critica) sul ruolo giocato dalla razza nel pensiero di Arendt, firmata non a caso da un’accademica afroamericana, Kathryn Gines. Discutere del fatto che una delle più grandi pensatrici politiche del Novecento fosse o meno razzista secondo criteri contemporanei è in ultima analisi una questione oziosa – appare innegabile che su questo tema grandi intuizioni e inflessibili prese di posizione convivano nei suoi scritti con argomenti ed esternazioni ben più problematici. Lo stupore e l’imbarazzo, tuttavia, hanno senso solo se li guardiamo dalla prospettiva cosmetica dei benpensanti, per i quali la non estraneità all’oppressione sarebbe una specie di brufolo da coprire al più presto. Non facciamo l’errore di lasciare ai buoni la lotta per un mondo senza razzismo. 

Franco Palazzi

dottorando in filosofia all’Università di Essex e autore di Tempo presente. Per una filosofia politica dell’attualità (ombre corte, 2019). Ha scritto, tra gli altri, per DoppiozeroEffimeraIl TascabileJacobin ItaliaLe parole e le coseOperaVivaMagazine e Public Seminar.

6/10/2020 https://jacobinitalia.it

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *