IL RITORNO A SCUOLA

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La scuola italiana ha riaperto gradualmente dopo quasi sette mesi di chiusura, in un’epoca educativa senza precedenti. Le denunce e le polemiche su ritardi, errori e reali difficoltà, che hanno segnato la gestione ministeriale della ripartenza, non hanno offuscato l’energia e la carica emotiva che ha animato il nuovo incontro tra studenti e insegnanti.
Purtroppo molti problemi persistono, a partire da quelli molto seri sugli organici, restano e inquietano molto anche i problemi legati alla persistenza e recrudescenza del virus. Una diffusa ansia, timore, preoccupazione percorrono tante famiglie e la risalita dell’indice di contagio rende il ritorno a scuola delicato.

Bisogna mettere nel conto episodi di diffusione del contagio, con conseguenti interruzioni che potrebbero investire classi e istituti, per le quali è necessario agire con razionalità e buon senso, senza criminalizzare il personale, gli alunni, le famiglie. La scuola dunque è ripartita, tornando ad animare la società, il suo tessuto partecipativo, la relazione fondamentale tra le generazioni, il senso profondo di una democrazia moderna che era stata duramente privata di questa sua ragione fondativa.

Una ripartenza non priva di una tensione inedita: per la prima volta dalla sua istituzione, ed è questo il dato più eclatante, la scuola italiana è stata senza attività didattiche per oltre sei mesi. Non era accaduto neppure durante le due guerre mondiali. Mesi confinati in casa, difficoltà economiche e sociali, lasciano il segno nelle persone, più che mai nei bambini e negli adolescenti.

Sarebbe grave pensare che basti tornare a scuola dopo una lunga “vacanza”, come se nulla fosse successo nelle menti e nelle esperienze dei nostri giovani e che la scuola si debba oggi occupare solo di recuperi disciplinari e di curricoli lineari. I nostri alunni e studenti non tornano a scuola solo con mesi di scuola in meno ma con sette mesi di vita in più, passata in modi diversi da ogni esperienza precedente. Mesi nei quali sono diventati altro da quello che erano al 22 febbraio 2020. Sarebbe grave pensare che bastino i protocolli sanitari da aggiungere al fare scuola come prima.

Ogni scuola, a seguito delle Linee Guida pervenute dal Ministero dell’Istruzione a fine giugno, ha predisposto un proprio DVR (documento valutazione rischi) tenendo conto di diversi fattori necessari, fondamentali e caratteristiche di quella scuola stessa, è allo stesso tempo importante non incorrere il rischio di produrre comportamenti isolanti e didattiche fredde a fronte della domanda di educazione generativa di serenità, speranza, equità. Vorrebbe dire sommare un rischio (il contagio) a uno altrettanto grave problema: il silenzio educativo a fronte di questa inedita crisi che tocca i nostri alunni, le loro famiglie, i fondamenti del vivere civile, con una diffusa paura del futuro.

Sul piano pedagogico ci vuole altro. Su questo “altro” si deve fare una riflessione ed anche un protocollo pedagogico che risponda al nuovo esistenziale, cognitivo e sociale che entra nelle nostre aule, e che dia nuove risposte educative. Solo così il ritorno a scuola si fa parte della ricostruzione del Paese. Serve un clima educativo con elevate capacità di includere, creare senso civico, solidarietà. Ne avrà bisogno il Paese per superare la durissima crisi sociale indotta dalla pandemia, per affrontare le sfide di un possibile cambiamento di fondo del suo modello produttivo, di un futuro in cui il lavoro, grazie anche al rilancio di una ricerca libera, sia la risorsa fondamentale per un benessere libero dai miti del liberismo e del consumo senza limiti. Una seria riflessione pedagogica sia su ciò che in questi sette mesi è accaduto, sia sulle priorità educative che il ritorno a scuola richiede.

Abbiamo per lungo tempo sollecitato la politica e la scienza a costruire regole del ritorno a scuola non solo con discussioni (a volte bizantine) su mascherine, banchi e distanziamenti sociali, per quanto mi riguarda il distanziamento deve essere fisico non sociale, ma con la pedagogia, per evitare che il ritorno si riducesse a regole di divieto e vincoli. Ciò non sempre sta accadendo, con il pericolo di una scuola peggiore di quella di febbraio. È dunque nei momenti difficili che all’educazione si chiedono azioni e pensieri nuovi. Per questo tocca a chi a scuola insegna e lavora, a tutti i livelli, l’impegno di riappropriarsi di un pensiero pedagogico forte, perché il ritorno a scuola sia una rinascita, per il bene dei nostri ragazzi e del Paese.

Il protocollo pedagogico si propone invece di individuare una serie di comportamenti attuabili nell’esercizio della professione docente, con l’obiettivo di garantire efficacia e appropriatezza agli interventi di natura didattico/pedagogica. Sono comportamenti “prescrittivi” in senso deontologico; esigono la forza dell’etica della responsabilità. I docenti potrebbero eludere il problema e trovare consolante rifugio nella attività di pura e semplice riproduzione delle lezioni frontali. A fronte di questa possibile deriva, bisogna essere consapevoli che c’è già chi si candida a sostituire la scuola che si ritrae; un modello di volontariato sociale e di professionisti del dolore sostitutivo del ruolo delle istituzioni che già si propone, se necessario, a coprire il vuoto. Una professionalità che separa l’istruzione dall’educazione è subalterna ai modelli produttivi dominanti, destinata al fallimento educativo.

Lo spazio dell’autonomia è leggere i processi del nostro tempo con una tensione educativa che vada oltre l’emergenza, perché i giovani di oggi dovranno cambiare questo mondo solo se svilupperanno curiosità e creatività, se saranno motivati ad apprendere, a trasformare in meglio il loro ambiente verso una meta generale: un solo pianeta, una sola umanità. E allora un protocollo pedagogico non può venire dall’alto, deve nascere e costruirsi nelle scuole e deve vedere protagonisti i docenti.

Certo, tutte le figure professionali sono coinvolte nella gestione della scuola, con ruoli e compiti rilevanti ma il cuore è la relazione didattico/educativa spetta ai Docenti. I Dirigenti Scolastici dovrebbero capire e agevolare questi percorsi anche se sono stati messi duramente alla prova: su di loro si è scaricata la tensione di una macchina amministrativa in evidente difficoltà e per questo molto esigente; su di loro si sono scaricate le attese di genitori ansiosi e di docenti molto preoccupati per la difficile gestione del nuovo anno scolastico. Ora è tempo che loro stessi siano facilitatori di una stagione nuova delle relazioni educative attraverso il protagonismo dei docenti.

Le indicazioni che mi sento di dare, non sono ricette ma terreni di lavoro e valori. Non vanno “eseguite” ma interpretate e calate nel contesto in cui vive l’esperienza educativa; non esiste una formula per tutte le circostanze e non esistono soluzioni organizzative valide per tutte le situazioni: ed è questa la ragione per cui siamo stati duramente critici contro le soluzioni “uniche” e centraliste. Importante è qui l’utilizzo del termine “riappropriazione” come ri-scoperta e valore della professionalità docente come valore pedagogico che sa utilizzare fino in fondo competenze e poteri spesso finora scritti sulla carta, per un’autonomia didattica generatrice e non riproduttiva.

Scrivere e documentare tutto perché è sulla documentazione che possiamo costruire autoformazione. Potranno essere utili “amici critici” esterni che aiutino a far emergere le questioni più delicate e complesse. Devono essere persone di fiducia e senza ruoli istituzionali. Persone capaci di fare formazione. Bisogna soprattutto evitare l’errore di consegnare a un ipotetico “esperto” esterno la soluzione dei problemi educativi. In sostanza, esperienze di una nuova dimensione cooperativa del lavoro. Il distanziamento ha allontanato le persone.

Il primo obiettivo da realizzare è riaprire una comunicazione, iniziare dall’ascolto. L’ascolto dei racconti, dei vissuti, delle paure, delle emozioni, quelle degli adulti e quelle degli studenti. Bisogna recuperare le relazioni, oltre ai debiti scolastici. Troppo spesso è il mondo adulto ad avere debiti verso i nostri studenti. Tocca a noi restituire senso e valore alla relazione educativa. La scuola vive del progetto dei suoi attori. Autonomia didattica come responsabilità di presenza politica sul territorio e come autodeterminazione dell’organizzazione del lavoro che dialoga e interagisce con l’intera comunità di vita dei nostri bambini e ragazzi, dagli enti locali, all’associazionismo, alla cultura, per restituire/costruire un rapporto vivo nel territorio a favore di una vita educativa con azioni integrate, piene e aperte per tutti, a partire da chi ha sofferto di più il confinamento e la chiusura delle scuole.

La scuola è entrata nelle case nel corso della pandemia per tentare di contenere gli effetti della distanza imposta; ora quelle case non vanno abbandonate e va valorizzata la riscoperta del valore della vicinanza, della prossimità. Dopo anni di reciproca diffidenza, estraneità, spesso conflittualità, si può aprire una nuova stagione di rapporto tra scuola e famiglie. Un capitolo nuovo, tutto da scrivere ma fondamentale per riaprire, anche da questo versante, una nuova stagione partecipativa intorno alla scuola. E certamente una attenzione educativa e pedagogica specifica va rivolta ai giovani, a quella generazione di millennials che prima della pandemia era scesa nelle piazze di tutto il mondo per chiedere con forza un cambiamento radicale del modello produttivo che sta portando il pianeta a una condizione drammatica.

Questa generazione, nella distanza forzata e nella reclusione in casa, ha vissuto una esperienza molto intensa che non ha precedenti sia sul piano cognitivo-relazionale, sia sul piano clinico. L’attività didatttico/educativa non può ignorare questa esperienza di vita e deve farne occasione di riflessione e apprendimento. I vissuti dei giovani, le loro storie, riflessioni, emozioni, devono essere parte viva della didattica della ripartenza e del lavoro di gruppo in cui ogni studente può riconoscersi e aprirsi all’altro.

Il Covid-19 può diventare, anche dal punto di vista interdisciplinare, un’opportunità di studio e di conoscenza per approfondire le cause che hanno prodotto la pandemia e la nuova condizione umana e antropologica del nostro tempo, sulla quale questi giovani hanno aperto un nuovo capitolo della partecipazione dal basso. Con la parola scaffolding, introdotta da Jerome Bruner negli anni 70 in pedagogia, si intende una relazione educatore/alunno-studente come funzione d’aiuto nella quale l’insegnante agisce come soggetto di supporto che affianca ma non precede l’agire del bambino e del ragazzo in azione. Scaffolding si potrebbe tradurre come relazione d’appoggio centrata sull’empatia, di cui l’alunno si serve e che sente come amica senza forzature. Non è lontana dall’idea di Lev Vygotskij sulla zona di sviluppo prossimale, in cui l’insegnante “aiuta” l’alunno a svilupparsi secondo le sue potenzialità. E può essere detta con don Milani nel suo celebre “I CARE”. Si tratta quindi di sviluppare a fondo il protagonismo degli alunni/studenti avendo cura di essere un loro appoggio sicuro, sereno e autorevole.

Non un assistenzialismo compassionevole ma accompagnamento adulto, solido a sviluppare e confrontare stati d’animo, opinioni, paure e desideri. Si tratta di costruire una “sicurezza delle relazioni” per non subire solo la “sicurezza dei divieti sanitari”. È evidente, a proposito, che un insegnante timoroso rischia di trasmettere ansie che possono accentuare l’insicurezza emotiva e cognitiva. Per questi comportamenti d’aiuto non servono psicologi o specialisti ma un insegnante solido, sereno, maturo che comprende le ansie ma non le accentua, anzi ne fa tema di dialogo razionale e costruttivo. È umano dire che questa funzione educativa sarà difficile anche per gli adulti, vista l’epoca così complicata, ma è elemento strutturale di un ritorno a scuola che produca relazionalità, buon senso, stimoli che consolidino l’autostima dei ragazzi e il maggiore possibile senso della realtà. Va quindi favorita l’acquisizione di comportamenti resilienti, sia nei docenti che negli studenti, nelle diverse età della scuola. La resilienza ha spesso bisogno di ironia, di realismo e insieme di creatività. I gruppi di riflessione tra docenti possono essere d’aiuto reciproco per coltivare un clima fiducioso e sereno, per condividere le difficoltà e superare insieme il rischio della solitudine educativa. Una comunità di auto-aiuto necessaria per tutti. Il distanziamento fisico non può diventare distanziamento relazionale.

Promuovere consapevolezze è oggi più importante che aridamente valutare in scale. Riappropriazione di pratiche inclusive efficaci. L’epoca del confinamento ha accentuato le differenze tra alunni e studenti. Quelli con disabilità e con disagio sociale hanno pagato più di tutti. I rischi di aumento della povertà educativa sono elevati. Questione centrale del ritorno a scuola sarà dunque attivare una nuova sfida inclusiva, con tutti i mezzi possibili, che eviti l’ulteriore isolamento degli alunni.

Si tratta inoltre di evitare di considerare il cosiddetto “recupero” come ripetizione, favorendo invece pratiche di didattiche attive e alternative, favorendo il peer to peer tra ragazzi, pratiche di esperienze cooperative, pratiche di ricerca-azione a partire dai potenziali di ognuno. Il contrasto alla povertà educativa obbliga a nuovi rapporti con il territorio, le famiglie, gli attori sociali. Rischiamo altrimenti che il ritorno a scuola accentui il disagio e non sappia costruire pratiche nuove orizzontali e solidali. Nel tentativo di limitare i danni della forzata lontananza imposta dal Covid-19, una parte significativa di docenti ha utilizzato diversi strumenti e tecniche per ricostruire frammenti di vicinanza con gli alunni. Un impegno generoso, inedito e sovente anche faticoso perché migliaia di docenti hanno fatto esperienza, per la prima volta, con l’uso della comunicazione a distanza. La strumentale enfatizzazione ministeriale, tesa quasi ad assicurare l’opinione pubblica sul regolare proseguimento delle attività didattiche, ha determinato l’esplosione di un conflitto tra la “DAD” e la didattica in presenza, caricato ben presto di significati ideologici fuorvianti.

Questo conflitto va superato di scatto, avendo chiari alcuni essenziali riferimenti:

  1. Durante la sospensione delle attività didattiche a scuola, il luogo dell’apprendimento possibile si è trasferito nelle case. Abbiamo avuto mesi di istruzione a distanza, la DAD, seguita a distanza consegnando nelle case e nelle famiglie l’attività formativa, tutte le diseguaglianze di contesto hanno ripreso il sopravvento perché è venuto a mancare quel luogo, chiamato scuola/aula, in cui tutte le diversità si ritrovano fisicamente in un unico reale ambiente condiviso, per apprendere. Per questa ragione e non solo perché la didattica è fatta di “materia”, relazione, corporeità, socialità fisica, la didattica in presenza e la scuola pubblica sono insostituibili.
  2. Anche la didattica in presenza può essere tuttavia direttiva, ripetitiva, passivamente trasmissiva. È contro questo tipo di scuola, con o senza l’uso di nuove tecnologie, che da decenni vive un movimento, di cui noi siamo parte, per il rinnovamento della qualità dell’insegnamento e della costruzione del pensiero critico: tecniche, metodologie, strumenti, organizzazione della didattica.
  3. L’innovazione tecnologica non è la “DAD”; è un fenomeno molto complesso che segna e segnerà sempre di più la vita delle persone nel mondo del lavoro, della conoscenza, delle relazioni. È il nuovo ambiente in cui crescono le nuove generazioni e la scuola non può chiamarsi fuori da una riflessione profonda, e in primo luogo, pedagogica, sul senso delle trasformazioni in atto. Del resto non è la prima volta che la scuola è chiamata a misurarsi con la modernità: è già successo, con l’avvento della stampa, della radio, della televisione.

La scuola non deve essere subalterna alla modernità ma neppure estraniarsi da essa: deve farci i conti con consapevolezza Riappropriazione del territorio. Il primo ambiente è naturalmente proprio quello della scuola in cui si lavora. Oggi quelle aule, quei locali, quegli spazi, hanno bisogno di uno sguardo diverso. Vanno rivisti e pensati come spazi di incontro, di relazione, di vita “sicura” per docenti, studenti, personale ATA. Luoghi da rendere non solo sicuri facendo una diagnosi attenta e documentata dei lavori più urgenti da segnalare alle autorità locali per quegli interventi che abbiamo indicato di “edilizia leggera”, ma sono anche luoghi da abbellire con idee scaturite dai ragazzi per fermare la memoria di questa stagione così straordinaria della vita della scuola e delle persone. L’ambiente non è il contenitore anonimo dell’azione formativa, ne è parte costitutiva e importante. Il senso di appartenenza è fatto di materia, di cose, oggetti, colori, insieme a riti, simboli, azioni condivise. Anche per questo, nei mesi scorsi, abbiamo sostenuto che uno schermo acceso non basta. Insegnanti, dirigenti, cittadini, sindaci possono dare vita a patti di comunità in cui definire gli spazi pubblici, gli edifici, le strutture (biblioteche, sale cinematografiche, palestre, ecc.), le persone, oltre al personale della scuola, volontariamente impegnato in progetti di riapertura e arricchimento dei percorsi di apprendimento. Alcuni di questi spazi possono trasformarsi in aule permanenti di cultura e apprendimento (pensiamo alle biblioteche e ai musei, per fare un esempio). Anche luoghi di progettazione di percorsi di apprendimento in cui incrociamo figure diverse e associazioni di volontariato ma con una regia della scuola che deve sempre avere chiaro il percorso didattico e formativo da realizzare, documentare, valutare.

Negli anni 70-80, questa dimensione del territorio educativo era un fatto ordinario prima che il liberismo distruggesse questa dimensione del welfare in nome delle esternalizzazioni, delle privatizzazioni, del privato è bello. L’assenza di un modello di governo territoriale della scuola ha contribuito negli anni a moltiplicare i dislivelli e le diseguaglianze territoriali che incidono nel destino delle nuove generazioni. Ripensare il modello di gestione partecipativa della scuola è determinante, sia in senso amministrativo, sia in senso politico/pedagogico.

Il distanziamento, quello ben più radicale di quello imposto dal Covid-19, era già tra noi da alcuni anni, con il suo carico di produzione di diffidenza, rancore, ostilità, violenza implicita e insofferenza verso ogni forma di integrazione. L’autonomia come produzione di comunità e socialità diventa il terreno privilegiato della scuola che riparte con un curricolo che non sta più soltanto nelle aule ma esce nelle vie e nelle piazze per diventare un curricolo aperto: storia delle strutture sanitarie del territorio, dei luoghi di incontro e relazione, la cultura prodotta dal territorio: biblioteche, associazioni di volontariato, musei, laboratori artigianali, aziende. Un curricolo oltre le “materie” in cui le discipline si integrano in una cornice di indagine e studio condivisa, programmata e valutata da tutti i docenti. Ma c’è di più: attraverso questo impegno educativo, cognitivo e sociale della scuola i bambini e i ragazzi possono farsi proposta di idee e azioni per migliorare la qualità della vita del proprio territorio per tutti i cittadini.

Una scuola che produce idee, non solo riproduttiva di quelle adulte. Un nuovo paesaggio didattico e un nuovo modello di gestione territoriale per un apprendimento ricco di potenzialità. Agli adulti, attori responsabili di questa costruzione sociale, la capacità di ideare e promuovere riti e simboli in grado di dare anima alle nuove dimensioni dell’apprendimento. Di quale scuola avremo bisogno per realizzare e consolidare obiettivi e percorsi tanto innovativi? Certamente di una scuola al centro di una politica che guardi almeno al prossimo decennio; che possa contare su un investimento forte in qualità: qualità delle strutture e qualità di tutti gli operatori della scuola. Una scuola che potrà affrontare questa sfida solo se potrà contare sul contributo delle istituzioni europee. Perché la scuola, per concorrere alla costruzione di un’Europa sostenuta da un forte consenso popolare, ha bisogno che l’Europa non si limiti solo a importanti “raccomandazioni” ma sia capace di erogare risorse e produrre politiche per l’istruzione di milioni di giovani. Non c’è futuro per l’Europa se non sarà capace di scommettere sulla crescita culturale e scientifica dei suoi giovani. Il ritorno a scuola dopo questi sette mesi difficili diventa quindi anche una sfida culturale e pedagogica a ripensare e reinventare l’organizzazione, la didattica e le sue professioni. Dal basso e sul campo, per una nuova teoria e pratica rimasta in sospeso da lungo tempo.

Marilena Pallareti

Docente, Forlì

Collaboratrice redazionale di Lavoro e Salute

Articolo pubblicato sul numero di ottobre di Lavoro e Salute
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