«Il sistema rinchiude i nostri corpi, non i nostri cuori». La lettera di Federico ai detenuti di Amburgo

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Cari Compagn*, cari Alessandro, Emiliano, Orazio, Maria, Fabio e Riccardo vi scrivo perché so benissimo quello che state provando.
La bruttezza della faccia del secondino che ti chiude la porta in faccia, l’insipidezza di quello che lì in carcere chiamano cibo, la freddezza delle luci dei corridoi, bianche, tristi, una merda, i passi che rimbombano sui muri quando si viene scortati dalle guardie, le lunghe attese chiusi in tristi stanzini, in attesa di essere interrogati, perquisiti, brutalizzati nell’anima.
Lo so bene perché il carcere di Francoforte, più di due anni fa, mi ha trattenuto per due mesi e mezzo dentro le sue anguste e grigie mura.
Come voi, una chiamata europea aveva spinto le nostre anime battagliere a tornare sulle strade, a ribadire ancora una volta, come se ce ne fosse ancora bisogno, che qualcosa nell’ingranaggio del capitalismo, specialmente nella sua forma più recente, più diabolica, il neoliberismo globalizzato, sta andando dannatamente storta; che pochi gozzovigliano, ingrassando ventri farciti d’ingiustizia e tanti smagriscono tagliuzzati dalla forbice sociale.

Non so bene quello che avete fatto, non se avete partecipato alla sommossa, se siete innocenti, colpevoli, vittime d’ingiustizia. Onestamente m’interessa poco, perché lo Stato che vi ha messo dentro, per molti di noi, non ha alcuna autorità nel tenervi dentro. Si è appropriato della parola giustizia, l’ha acquistata semplicemente con le armi ed il denaro ed oggi forte di questa ingiustizia, vi giudica.
Si preferisce mettere in prigione, piuttosto che ascoltare voci di protesta che da troppo tempo silevano e non s’ascoltano.

Ma voi la vedete la giustizia lì, in quella merda squadrata che è il carcere? Avete l’impressione che l’autorità che ha deciso di mettervi dentro detenga il sacro senso di giustizia per farlo?

Io ricordo quel rumeno che avevano messo dentro per aver rubato una bicicletta, e poi rilasciato un mese e mezzo dopo perché in effetti era il legittimo proprietario della bicicletta.
Ricordo Fatuk, quel marocchino che era dentro per furto, e che continuava a dirmi “Fratello, ma io sono qui dentro perché non ho mai potuto studiare, e perché quel giorno non potevo far altro che rubare”!
Ricordo Angelo, che era dentro perché gli avevano offerto soldi facili, la camorra; gli avevano offerto un lavoretto semplice, doveva solo andare a “ritirare” una macchina a noleggio in Germania, e poi portarla in Italia. Lui lo aveva fatto: “Perché dovevo pagare la piggione Frate, erano 2 mesi che non trovavo lavoro, che dovevo fare?”, ma poi le cose per i poveri cristi vanno sempre storte: il piccolo pesce viene messo dentro, e lo squalo se ne scappa tranquillo.
Ricordo Alexis che era dentro perché era gay, e non è facile essere omosessuale nel nostro mondo, non è facile stare in silenzio di fronte a chi t’insulta per la tua scelta sessuale, e lui aveva picchiato un tizio alla stazione che lo aveva insultato, e così era finito dentro, aveva perso il lavoro, ed aveva provato il suicidio.
Quando io parlavo con tutti loro, non riuscivo a capire cosa fosse la giustizia, come poter credere nel senso di giustizia. Sentivo solo le tristi storie, vedevo le loro lacrime, intercettavo il loro sgomento, la ritmica ansia che li portava con la testa a correre verso il processo. Il dolore che ho condiviso con la gente dentro le carceri, è stato più forte di qualunque senso di giustizia.

Però cari fratelli e sorelle, la rivoluzione non è un pranzo di gala, giusto? Non potete aspettarvi che il sistema che combattiamo con tanto ardore non tenti con tutti i modi di arrestare, ammanettare, rinchiudere il nostro desiderio di ribellione, di costruzione di una società diversa. È sempre lì che ci segue come un cane, sente il nostro odore, e quando può, con qualunque mezzo, è pronto ad azzannare, l’infame. È la nostra sofferenza la sua soddisfazione, il suo ossigeno, è il nostro annichilimento la sua sbobba quotidiana, sono le nostre lacrime la sua acqua.

Non potete farlo vincere due volte. Ha rinchiuso i nostri corpi, ma non potrà, non dovrà, rinchiudere i nostri cuori; fateli vagare, uscire fuori, fateli insinuare fra quelle sbarre, fateli respirare all’aria aperte; perché prima o poi uscirete compagn* e riderete della loro oppressione, della loro malvagità. Perché se due anni fa era Francoforte, e prima ancora Genova, e prima ancora Seattle, la battaglia allora non si ferma, non s’arresta. Stanno provando con ogni mezzo “legale”, “procedurale” a bloccare il dissenso nelle strade; la paura fa diventare l’animale ancora più pericoloso, che reagisce maldestro, rabbioso, come quest’autorità che vi giudica.

È vero, il carcere è una merda, il posto della non-vita, dell’attesa che qualcuno scelga per te le carte del tuo destino.

Ma voi o siete forti o siete forti. Se sbattete la testa contro le mura del carcere, sarete voi a spaccarvi il cranio; prendete quello che state vivendo, fatelo entrare dentro di voi, guardatelo in faccia e ditegli chiaro e tondo: “Noi non molliamo un cazzo!”. E allora sarà lui che avrà paura. Prendete la merda che state vivendo, e come un termovalorizzatore che trasforma la spazzatura in energia, trasformatela in orgogliosa lotta alla sopravvivenza carceraria.

Fratelli e Sorelle dal carcere s’impara molto, si tocca l’ingiustizia, che non è più una parola sentita, origliata, letta, ma è veramente vissuta. E poi la gente lì con voi: ascoltateli, capite cosa sta andando storto nel mondo dai loro racconti, apprezzate il fatto di essere dentro con gli ultimi, vi servirà.
Leggete, scrivete, fate correre il cervello, fate uscire il cuore, rimanete forti, tenetevi in esercizio. Noi siamo qua, uscirete, riabbraccerete tutti e la vera giustizia trionferà solo nei vostri cuori.

E no, non avete perso; perché perdente è chi è costretto a mettervi in carcere per farvi stare zitti.

Federico

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