Il trionfo di Trump, il fallimento della globalizzazione

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Com’è potuto accadere che un palazzinaro miliardario, razzista ignorante e misogino abbia potuto conquistare la Casa Bianca? Semplice: l’alternativa non era poi molto meglio. Nonostante i tentativi di dipingerla come una navigata statista, Hillary Clinton rappresenta semplicemente l’espressione politica del neoliberismo più feroce, lo stesso che negli ultimi 30 anni ha lasciato carta bianca ai poteri finanziari e plasmato il pianeta fino a renderlo quello che è adesso.

Insomma: Clinton per milioni di elettori statunitensi rappresenta (rappresentava) la continuità con un sistema che ha dispensato a piene mani diseguaglianza e miseria. Il tentativo di maquillage operato a livello di comunicazione, messo in campo a suon di dollari dall’establishment che la sostiene, è fallito miseramente. Detto senza troppi orpelli, la Clinton non è riuscita a prendere per i fondelli per l’ennesima volta le vittime della crisi raccontandogli di vivere nel migliore dei mondi possibili.

Capiamoci: non che Trump sia meglio. Il suo programma in tema di politica economica (centrato sulla lotta all’immigrazione) è un fulgido esempio di idiozia populista. Ma “The Donald”, per lo meno agli occhi dei suoi elettori, ha avuto un pregio: ha promesso discontinuità e un’alternativa (di destra) al pensiero unico pseudo-progressista. Trump, durante la sua campagna, è stato l’unico a usare termini come “classe operaia” (working class) spezzando la favola di un mondo in cui la suddivisione per classi partirebbe dalla “classe media”, relegando quello che una volta si chiamava proletariato a una sorta di materiale di scarto della società. Quello di cui Clinton e i suoi non si sono accorti, è che anche nei potenti Stati Uniti gli “scarti della società” sono diventati maggioranza numerica. Sotto la classe media esiste un universo di lavoratori sottopagati, di uomini e donne espulsi dal mondo del lavoro e, coerentemente con la logica Made in USA, dalla società. I voti di Trump sono arrivati dalle periferie, dagli sconfitti dalla finanziarizzazione dell’economia. Quelli che hanno perso il lavoro, la casa e la speranza di un futuro “normale”.

Il fenomeno era già chiaro ieri notte, quando fluivano i dati dai seggi elettorali. Seguendo i risultati delle presidenziali USA si notava un fenomeno costante, identico in pressoché tutti gli stati contesi: i primi dati davano in vantaggio Clinton, quelli successivi portavano al recupero (e al sorpasso) di Trump. Tradotto: nei grandi centri metropolitani (da cui i dati arrivano prima) i democratici facevano il pieno, ma nelle aree rurali e in quelle ex-industriali (la cosiddetta “Rust Belt”) il miliardario newyorkese trionfava. La vicenda delle elezioni statunitensi, in definitiva, conferma che è in atto un moto di ribellione nei confronti del sistema neoliberista. E conferma anche che la ribellione può prendere due strade: quella consapevole della costruzione di un’alternativa dal basso o quella della fuga a destra. La seconda, incarnata negli USA da Donald Trump, propone la solita ricetta che fa leva sull’esaltazione del conflitto etnico e culturale, l’individuazione di un nemico (più è debole meglio è) a cui addebitare le colpe della crisi, la chiusura a riccio della società su “valori” tradizionali e rassicuranti come il patriottismo. Di solito, va a finire male.

Le conseguenze dell’elezione di Donald Trump sono imprevedibili. Molto probabilmente, il passaggio dal Trump candidato al Trump presidente passerà per un processo di normalizzazione del personaggio, che si muoverà come un qualsiasi presidente USA conservatore. Nei prossimi anni, quindi, è alquanto Improbabile che spunti un muro lungo il confine col Messico o che Donald bombardi la Corea del Nord dopo aver bevuto un bicchiere di troppo a un cocktail party. A fare le spese della svolta a destra saranno probabilmente i diritti civili (con presidenza, senato e camera nelle loro mani i repubblicani possono controllare la Corte Suprema a loro piacimento) e il fragilissimo patto sociale che consente la convivenza tra i vari gruppi etnici (in primis gli ispanici) che i placebo di Obama avevano tutto sommato mantenuto sotto la soglia critica di rottura.

Più difficile capire quali saranno i riflessi fuori dai confini USA. L’anno prossimo, per esempio, si voterà in Francia e c’è da scommettere che lo shock a stelle e strisce influirà non poco sul modo in cui gli elettori d’oltralpe reagiranno al pericolo Le Pen. Senza dubbio, poi, le nuove prospettive legate a una possibile politica economica isolazionista da parte degli USA influiranno anche sull’interpretazione della Brexit. Il rallentamento del processo di uscita dalla UE segnato con la sentenza dell’alta corte di giustizia era stato accolto con un sospiro di sollievo dai mercati. Ma questo succedeva in un mondo diverso, in cui i processi di globalizzazione sembravano correre su binari sicuri. Il trionfo di Trump, infine, dovrebbe far riflettere anche l’Italia e quei milioni di elettori che dovranno decidere se dare via libera alla riforma Boschi-Renzi (ma sarebbe meglio chiamarla “riforma JP Morgan-Goldman Sachs”) riflettendo per un minuto sul fatto che forse precipitarsi a ridurre gli spazi di confronto democratico, aumentare i poteri del governo e affidarne a nomina a una legge elettorale che somiglia al regolamento di voto di un reality televisivo potrebbe non essere una buona idea.

Marco Schiaffino

9/11/2016 www.italia.attac.org

 

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