Indumenti usati ed economia sociale

In Italia tradizionalmente la donazione degli abiti usati è sempre stata fatta tramite le parrocchie o altri enti caritatevoli che si occupavano di distribuirli ai bisognosi. Parallelamente, e specialmente a partire dalla seconda guerra mondiale e nel distretto di Ercolano-Resina, si è però rafforzato un mercato di importazione di abiti usati da paesi più ricchi: le cosiddette “pezze americane”. Negli ultimi venticinque anni lo scenario è profondamente cambiato. Con l’introduzione delle raccolte differenziate dei rifiuti tessili e il posizionamento di contenitori stradali, i volumi di abiti usati sono aumentati considerevolmente e a fronte di vincoli che impongono a chi li raccoglie di rispettare frequenze di svuotamento, standard tecnici e normativa sui rifiuti.

La necessità di coprire i costi operativi del sistema ha imposto la vendita degli abiti usati a compratori che, essenzialmente, sono espressione del settore ercolanese che si è poi esteso a Prato e, in misura minore, in altre zone d’Italia. I raccoglitori, frequentemente legati a Caritas o ad enti umanitari, continuano a usare l’argomento solidale per attrarre i conferimenti nei contenitori, ma sono solo il primo anello di una filiera dove il maggior valore globale è concentrato nelle mani degli imprenditori che selezionano i vestiti e li rivendono all’ingrosso nelle filiere nazionali e internazionali.

L’ultimo anello della catena, che è anche il più debole, è costituito in prevalenza da rivenditori ambulanti. Cosa rimane quindi alla solidarietà? Poche briciole. L’associazione “Occhio del Riciclone”, grazie a ripetuti studi di mercato realizzati lungo tutto il percorso dei vestiti dall’Italia all’Europa orientale e all’Africa, ha concluso che mediamente alla fine della filiera da ogni chilogrammo di abiti raccolti si possano ottenere, sei euro. Le cooperative che si occupano della raccolta normalmente trattengono tra il 5% e il 7% di questo valore. Ma la gran maggioranza delle cifre trattenute servono a sostenere i loro costi operativi, che sono in prevalenza i salari di chi ci lavora.

Nel caso delle cooperative sociali una quota della forza lavoro è svantaggiata, viene pagata molto meno ed ammonta a circa un 30% dei lavoratori normodotati (ossia, ogni 9 lavoratori normodotati ce ne sono tre svantaggiati). L’impatto dei lavoratori svantaggiati sui bilanci non è quindi altissimo e difficilmente supera il 10% dei ricavi. Guardando all’intera filiera gli svantaggiati assorbono una cifra compresa tra lo 0,5% e lo 0,7% del valore globale ottenuto. E’ comunque giusto tener conto che, a volte, per seguire in modo appropriato un soggetto svantaggiato occorre un significativo monte orario di normodotati a salario pieno.

Includere i soggetti svantaggiati non è l’unico output solidale di chi raccoglie gli abiti usati. C’è anche chi usa gli utili, ossia l’avanzo tra costi e ricavi, per finanziare progetti solidali. Una pratica utilizzata anche da alcune cooperative sociali ma che funziona meglio quando i soggetti svantaggiati non ci sono e i modelli operativi sono esclusivamente improntanti all’efficienza: più produttività, più margini, più soldi per i progetti solidali. 

Nel 2018 il principale player di questo modello dichiarava di destinare ai progetti solidali il 4% dei suoi ricavi e di averne usato il 96% per sostenere i propri costi operativi (principale voce di costo erano i salari di operai, manager e dirigenti). Quando si applicano modelli di questo tipo un modo per far crescere il quid solidale è donare piccole quote di vestiti ad enti solidali. Se però questi enti a loro volta rivendono i vestiti destinando ai progetti solidali solo gli utili generati al netto dei salari di operai, manager e dirigenti, allora il livello effettivo di solidarietà torna ad assottigliarsi vertiginosamente. Spesso ciò non è evidente perché invece di dichiarare quanto denaro arriva effettivamente ai progetti solidali si sceglie di ostentare cifre superiori che sono il frutto di una “monetarizzazione” arbitraria e forfettaria del presunto valore all’ingrosso dei vestiti regalati ai “rivenditori solidali”. In parole povere, se una cooperativa regala un chilogrammo di vestiti a un ente solidale che poi si rivende questi vestiti in Africa ottenendo un avanzo di dieci centesimi di euro da destinare ai progetti,  il rischio è che a essere dichiarati come “solidali” non siano i dieci centesimi ma cinquanta centesimi o un euro che non corrispondono a nulla se non alla creatività di chi redige il bilancio di sostenibilità.

Questo però è il passato: fino al 2018 i margini per la solidarietà, anche se a volte gonfiati, potevano sussistere. Dal 2019 invece, la contingenza di mercato rende arduo se non impossibile ricavare questi margini e il rischio è che certi operatori, pur di presentare un’identità solidale, aumentino il livello di mendacità delle rendicontazioni.

I prezzi di mercato internazionali sono crollati di circa il 30% e i costi della raccolta sono saliti perché a causa del fast fashion i vestiti vengono buttati con maggiore frequenza. Sono vestiti di qualità inferiore e meno adatti a essere riutilizzati, quindi molti di essi debbono essere smaltiti. Il costo dello smaltimento è però aumentato radicalmente. In sintesi, rispetto a tre anni fa, i costi sono molto più alti e i ricavi molto più bassi. La situazione peggiorerà ulteriormente quando, entro il 2021, la raccolta differenziata del tessile diventerà obbligatoria e aumenteranno i flussi di bassa qualità (quindi ulteriore incremento dei costi di raccolta e aumento della proporzione da smaltire a pagamento); l’obbligo che riguarderà anche altri paesi dell’Unione Europea non avvezzi a questo tipo di raccolta differenziata, l’offerta internazionale di vestiti usati aumenterà facendo scendere ulteriormente i prezzi.

I punti di equilibrio sono saltati e nessuno esita più a svendere le crescenti quantità non riusabili a riciclatori indiani che fanno uso di lavoro minorile e bruciano gli scarti delle loro selezioni per strada, nei campi e a fianco delle risaie. Uno scenario abbastanza disastroso che si aggiunge a un fenomeno consolidato e non contingente che getta sulle filiere una luce ancora peggiore: l’infiltrazione mafiosa, talmente contundente da aver indotto nel 2018 la Commissione bicamerale “Ecomafie” del Parlamento ad aprire un filone d’inchiesta specifico sull’argomento. Il procuratore Squillace Greco non ha esitato ad affermare che “buona parte delle donazioni di indumenti usati che i cittadini fanno per solidarietà, finiscono per alimentare un traffico illecito dal quale camorristi e sodali di camorristi traggono enormi profitti”. 

L’abitudine di certi player dell’economia sociale di spartirsi religiosamente territori e servizi per non pestarsi i piedi l’uno con l’altro vanifica la filosofia del Codice degli appalti. Ma questo agli occhi di molti addetti del settore non è un delitto: perché mai chi ha obiettivi solidali e non lucrativi dovrebbe entrare in un regime di libera concorrenza? Il vero problema sorge quando tali “diritti” territoriali si traducono in piccoli feudi dove la politica garantisce l’affidamento sempre e comunque a cooperative che rivendono gli abiti raccolti sempre e comunque a filiere camorristiche in base a indistruttibili accordi e spartizioni che riguardano il mercato di selezionatori a grossisti. In questi casi, purtroppo estremamente frequenti, i camorristi si avvalgono dell’appeal degli enti solidali per ottenere regolarità di approvvigionamento e fare il loro business e la logica di spartizione rappresenta un inquietante elemento di affinità tra i due mondi.

Commerciando gli abiti usati, che sono beni fungibili, i camorristi non si limitano a riciclare il denaro della prostituzione e della droga ma ottengono anche illeciti profitti compiendo gravi delitti ambientali. Gli indumenti usati raccolti con argomento solidale e non selezionati a norma di legge hanno contribuito a generare la terra dei fuochi. I volenterosi che vorrebbero sfuggire al sistema sono vittime di intimidazioni che, a volte, si sono tradotte in attentati. 

Di fronte a questi orrori, e preso atto che la criminalità organizzata si infiltra soprattutto nelle filiere autorizzate, lo scorso gennaio Utilitalia ha pubblicato delle “Linee guida per gli appalti dei servizi di raccolta e gestione degli abiti usati”. Il documento di Utilitalia fornisce strumenti giuridicamente validi alle stazioni appaltanti che desiderino premiare le filiere più trasparenti e tracciabili; tra questi strumenti ci sono anche misure per monitorare e oggettivare l’eventuale azione solidale dichiarata dai candidati operatori della raccolta e del recupero. Il principio base è che solidarietà ed eticità vadano dimostrate e non solo dichiarate. Negli ultimi anni alcune cooperative e aziende solidali hanno provato a recuperare la propria reputazione avanzando proposte e idee per prendere maggior controllo della filiera, ad esempio diventando recuperatori e non solo raccoglitori, oppure adottando strumenti di certificazione del percorso dei vestiti e del denaro ricavatone.

C’è anche chi invoca nuovi storytelling meno incentrati sulla solidarietà e che rispecchino più fedelmente il carattere prevalentemente imprenditoriale e lucrativo del settore. Sono primi passi che fanno sperare in approcci di rinnovamento del settore concreti e non autoindulgenti. Ma è fondamentale che tali iniziative vengano integrate da meccanismi di controllo indipendenti che tolgano fin dall’inizio spazio a chi intende fare solo marketing o social whashing (magari con il fine di attrarre risorse dal Green Deal e dai regimi di responsabilità estesa del produttore che, molto presto, contribuiranno a finanziare e risollevare le filiere del recupero). Le pratiche illegittime sono radicate e consolidate: spazzarle via non sarà una passeggiata ed esiste il rischio che, con la moltiplicazione delle inchieste e dei reportage che mostrano ai donatori la verità delle cose, la presenza dell’economia sociale nel settore abiti usati si estingua per ripudio collettivo ancor prima di riuscire ad autoriformarsi. 

Pietro Luppi

3/3/2021 https://sbilanciamoci.info

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